Digitized by the Internet Archive in 2010 with funding from University of Toronto http://www.archive.org/details/novelleinediteOOserc BIBLIOTECA DI TESTI INEDITI 0 RARI lY. S-^B^lnU NOVELLE INEDITE GIOVANNI SERCAMBI TRATTE DAL CODICE TEIYULZIANO CXCIII FEB CURA ni RODOLFO RENIER TORINO ERMANNO LOESCHER FIRENZE ROMA Via Tornabuoni, 20 Via del Corso, 307 1889 PROPRIETÀ LETTERARIA Torino — Stabilimento Tipografico Vincenzo Bona. AL PROFESSORE ALESSANDRO D'ANCONA PRIMO ED AMOROSO ILLUSTRATORE DELLE NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI CON AFFETTO REVERENTE DEDICO PREFAZIONE i. Miserando spettacolo di continui commovimenti e mutamenti e travagli offre la storia di Lucca nel corso del secolo XIV. Morto Castruccio Castracane, Enrico suo figlio si fa riconoscere signore di Lucca ; ma presto Ludovico il Bavaro lo spoglia del dominio e affranca la città a peso d'oro. Una squadra di cavalieri tedeschi s'impadronisce di Lucca e la vende a Gherardo Spinola. Questi si sostiene malamente tra le insidie dei figli di Castruccio e l'o- stilità aperta dei Fiorentini, finché è costretto a cedere Lucca a Giovanni di Boemia. Giovanni la vende ai Kossi di Parma, i quali alla lor volta, la cedono a Mastino della Scala, che finisce col darla in mano ai Fiorentini. I prossimi Pisani, ingelositi, tanto si ado- perano che recano Lucca in loro potere e vi tengono pessimo go- verno. Finalmente i Lucchesi comprano a caro prezzo la loro li- bertà da Carlo IV, che gli sottrae al giogo dei Pisani il 6 aprile del 1369, giorno memorando, che i cittadini festeggiarono allora e commemorarono poi. Andando, noi vedemmo in picciol cerchio torreggiar Lucca a guisa d'un boschetto e donnearsi con Arno e con Serchio. Gentile è tutta e ben tratta a diletto, e più sarebbe, se non fosse il pianto, che quarantanni e più le ha stretto il petto, Vni NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI dice un poeta sincrono (1), che quando scriveva questi versi non aveva peranco veduto spuntare quel giorno di redenzione , ma non ne era molto discosto (2). Se peraltro Lucca vide cessare col 1369 quella specie di palleggia- mento politico, che i potentati esterni facevano di lei, principiarono, con la libertà ricuperata, altri mali nel suo seno medesimo. Un uomo di specchiata probità e di senno politico non ordinario, Francesco Guinigi, seppe ovviare nei primi anni ai pericoli che le ambizioni dei grandi e la potenza delle consorterie preparavano alla libertà lucchese. Diede egli assetto all'ufficio degli anziani, che potevano essere scelti indistintamente tra i grandi ed il popolo, e fu principale autore del magistrato detto dei conservatori della libertà, il quale doveva difendere lo stato dalle insidie esterne ed interne; provvide alla sicurezza messa a repentaglio dalle com- pagnie di ventura, che infestavano l'Italia, e si schermì dal rischio di una invasione a mano armata per parto del Visconti (1373); rialzò la istruzione dei giovani, contribuì alla buona igiene della città derivando l'acqua dal Serchio, istituì una cassa di depositi per far fronte ai bisogni imprevisti. Quando il 5 giugno del 1384 egli venne a mancare, fu lutto generale in tulti i buoni, che vedevano in lui il più saldo ed onesto custode della libertà della patria. Ma se da una parte l'opera di Francesco Guinigi tornò di grande profitto alle libere istituzioni, dall'altra essa doveva preparare uno stato di cose estremamente pericoloso per la città, accrescendo a dismisura la potenza in Lucca della sua famiglia. Ond'è che dopo la sua morte levarono la testa le famiglie rivali, che attaccarono subito quella istituzione guinigiana, che dava loro più noia, il (1) Fa/io degli Uberti nel Dittamondo, L. Ili, cap. 6, a p. 221 della ediz. Silvestri. (2) Il Di f (amondo, composto e ritoccato a riprese, era finito di scrivere verso il 1307. Gfr. Grion, Intorno alla famiglin e alla vita di F. d. Ub., Verona, 1875, p. 19 e la mia introduzione alle Liriche di F. d. Ub., Fi- renze, 1><83, pp. cxr.i-cxcvii. PREFAZIONE IX magistrato dei conservatori della libertà. Snaturato nel 1385 questo ufficio per opera particolarmente di Bartolomeo Forteguerri, la fazione avversa ai Guinigi prese il sopravvento e giunse ad audacia inaudita. Di qui odi e contese, che approdarono finalmente alla guerra civile. Nel maggio del 1392 si venne apertamente alle armi. Capo dell'una parte era Bartolomeo Forteguerri; capo del- l'altra Lazzaro Guinigi, figliuolo di Francesco. La guerra combat- tuta rabbiosamente si risolse a favore dei Guinigi. Il gonfalone del popolo fu strappato dal palazzo e portato trionfalmente a Laz- zaro; il gonfaloniere Forteguerra Forteguerri, invano opponendosi Lazzaro, fu ucciso a furia di popolo e sorte non dissimile toccava poco dipoi al fratel suo Bartolomeo. Il 15 maggio del 1392 si assembrò il senato sotto la presidenza di Martino Arnolfini, anziano, eletto gonfaloniere dai Guinigiani. Si presero disposizioni nuove di governo, tutte a prò' dei Guinigi e a danno dei Forteguerri e loro consorti. Lazzaro Guinigi, di gran lunga inferiore al padre per virtù civili, divenne il vero capo, benché senza nome, della repubblica. Sotto il suo reggimento se- darono alquanto le discordie intestine; non i pericoli esterni, per le bande armate vaganti e per la guerra con Pisa. Con le prime si usò il solito mezzo del denaro. La guerra di Pisa era nutrita dal signore di quella terra, ser Jacopo d'Appiano, e dietro a lui stava ad aiutarlo Gian Galeazzo Visconti, al quale premeva di tener occupati i Fiorentini e i Lucchesi, perchè non andassero al soccorso di Francesco Gonzaga, signore di Mantova, ch'egli cercava di opprimere. Cercate alleanze, i Lucchesi dapprima resistettero e poi nel 1398 conchiusero una tregua. Morto Jacopo nel 1399, Pisa fu ceduta al Visconti, ed a lui andò ambasciatore Lazzaro Guinigi, per cattivarselo. Se non che un terribile destino lo aspet- tava al ritorno. Antonio suo fratello e Nicolao Sbarra suo cognato lo uccidevano a tradimento, in casa sua, il 15 febbraio del 1400. Causa del delitto fu nello Sbarra l'odio concepito per Lazzaro dopo la morte di Bartolomeo Forteguerri, a lui parente, in Antonio X NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI Guinigi da alcuni vuoisi cagione politica, da altri rancore pri- vatissimo per le nozze volute da Lazzaro del fratello Paolo con Caterina Antelminelli, unica erede di Castruccio, alla cui mano Antonio aveva vanamente aspirato. Comunque sia, la morte di Lazzaro Guinigi parve portare un colpo mortale alla potenza di quella famiglia. E ciò sarebbe fors'anco avvenuto senza la accortezza e l'operosità risoluta e instancabile di un uomo che a noi interessa molto da vicino, Giovanni Sercambi. Giovanni di Jacopo Sercambi aveva allora varcato di poco la cinquantina, essendo nato, come egli medesimo ci attesta nella Cronaca, il 18 febbraio del 1347, « nella contrada di san Cristo- « foro, in nella casa di mes. Santo Falabrina » da Lucca (1). Insofferente dell'umile professione del padre, che era speziale, aveva, non appena cresciuto negli anni, mostrato di voler attendere a cose maggiori. Poco dopo infatti del francamente di Lucca del 1369, dava opera a ricuperare dai Pisani la rocca di Pontetetto e ne acquistava lode di soldato valente. Nel 1382, per incarico della signoria, andava ambasciatore al capitano di ventura Alberigo da Barbiano, che occupata Arezzo, minacciava di venire ai danni del Lucchese, e questa pratica conduceva a buon fine (2). Ma il Ser- (1) Su quella casa, che porta ora il ii» 1413 nella via S. Carlo in Canto d'Arco, fu murata una inscrizione composta da Carlo Minatoli, che suona così: In queste case già de' Fai.abrina | signori di Segromigno | nacque Giovanni Sercambi | novelliero e cronista del sec. XV | fautore di PRINCIPATO I conculcando LE LIBERTÀ DEL CoMUNE | MCCCXLVII-MCCCCXXIV. Debbo gentile comunicazione di questa e di qualche altra notizia al cav. Gio- vanni Sforza, che ringrazio qui sentitamente. Per quello che spetta ai fatti della vita del Sercambi, mi valsi specialmente della biografia di lui, messa insieme con cura da G. Minutoli e pubblicata prima negli Atti della R. Ac- cademia dei FilomaU, Lucca, Giusti, 1845, pp. 133-196, e poi con parecchie correzioni in testa alla stampa procurata dal Minutoli stesso (Vi Alcune no- velle di Giovanni Sercambi lucchese, che non si leggono nella edizione veneziana, Lucca, Fontana, 1855. I miei rinvìi si riferiscono sempre a questa ultima edizione. (2) Minutoli, Op. cit., p. x. PREFAZIONE XI cambi era troppo avveduto per non intendere che a lui, non ricco e isolato, mal sarebbe venuto fatto di colorire i suoi disegni am- biziosi. E però si strinse ad una famiglia, che godeva in Lucca dei primi onori, che godeva ricchezza di censo e di aderenze, dalla quale quindi c'era molto da sperare, la famiglia Guinigi. Nelle fortunose vicende di questa famiglia, dalla morte di Fran- cesco in poi, trovossi il Sercambi sempre pronto a sovvenirla col braccio e col consiglio. Ne, pare, tardarono i Guinigi, ad accorgersi del partito che potevano trarre di quest'uomo ambizioso, destro e fidato. Inauguratasi, come si disse, nel maggio del 1392 la signoria effettiva, se non titolare, di Lazzaro Guinigi, fu il Sercambi creato a far parte della balìa e da questa salì replicate volte all' an- zianato, e finalmente nel 1397 tenne il supremo grado di gonfa- loniere di giustizia e nel 1499 fu inviato ambasciatore alla signoria di Firenze (1). Egli era, come si vede, pervenuto alle cariche più cospicue e alle missioni più onorevoli e delicate, quando accadde quel fiero caso dello assassinio di Lazzaro, cui siamo giunti col nostro racconto. Fu un colpo di fulmine per quella famiglia e dovette esserlo anche pel Sercambi. Al recente fratricidio si univa l'opera logo- ratrice del tempo e quella della peste, manifestatasi in Lucca con grande intensità fin dall'autunno del 1399, per istremare la po- tenza dei Guinigi. Dei maggiori, Dino era fiaccato dagli anni, Michele dagli anni e dalla malattia, che appunto in quel 1400 lo condusse a morte (2); Paolo era giovine, inesperto, peritoso. (1) MlNUTOLI, Op. Cit., p. XIV. (2) Fu questo Michele, fratello di Francesco, personaggio assai ragguar- devole. Si occupò anche di lettere e una sua corrispondenza in sonetti ed in prosa con Franco Sacchetti pubblicò il Minutoli, Op. cit., p. xlti-liv (cfr. Zambrini, Op. volg. a st.*, 503-4). Notevoli sono, nella lettera del 3 sett. 1392 di Michele a Franco, queste parole: « Delle avversità sorte qua sono certo « vi dispiacque, e piacquevi la fine, che fu assai buona, secondo il male. « Ora, per la grazia di Dio, la terra è tutta bene addirizzata e posta in vera « libertà: e benché altramente sia stato detto di noi, mai non la desideramo XII NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI Gli avversari dei Guinio-i stavano già per prendere il sopravvento, e col loro predominio avrebbe il Sercambi veduto svanire tutti i suoi sogni di potenza e di ricchezza. Ci voleva ardire pari alla gravità del momento. E il Sercambi l'ebbe. Quella medesima epi- demia desolatrice egli la volse a proprio vantaggio. Mentre gli avversari impauriti dal morbo temporeggiavano fuori di Lucca, attendendo di impossessarsene quando il malore fosse cessato, il Sercambi radunava tutti i consorti dei Guinigi, incuteva loro spa- vento rappresentando il loro destino se gli inimici si fossero im- padroniti della cosa pubblica, proponeva mezzi, uomini, fatti. Nello stesso tempo incoraggiva e riscaldava il timido e freddo Paolo Gui- nigi, il minor figliuolo di Francesco, nel quale erano riposte le ultime speranze dei Guinigiani; Cogliendo il pretesto che la città si vuotava per la pestilenza, il gonfaloniere fatto eleggere dai Gui- nigi, Giovanni Testa, propose che si nominasse una balìa di dodici cittadini, con autorità larghissima sugli affari dello stato. In questo ufficio di balìa entrarono parecchi divoti a casa Guinigi, fra i quali il Sercambi. Poco appresso, per una catena di combinazioni, il Sercambi era fatto gonfaloniere e Paolo Guinigi anziano. Pre- parato ben bene il terreno, avvenne nell'ottobre del 1400 il colpo di mano, che il Sercambi ed i suoi avevano disegnato. Spuntava il 14 ottobre e Paolo Guinigi con discreto seguito di armati oc- cupava la piazza di S. Michele, mentre il gonfaloniere Sercambi radunava in tutta fretta la balìa. Alcuni di quelli della balìa, non consapevoli del segreto, chiedevano corrucciosi al Sercambi le intenzioni di Paolo. 11 gonfaloniere rispondeva che voleva as- sicurare sé e la città dai fuorusciti, che s'erano fatti forti con la alleanza dei Fiorentini. Mandati due della balìa a Paolo, questi « in altra forma; e di due cose vogliamo essere li maggiori, alla fatica ed « nlln spesa; e la prova se n'è veduta e vedcrà » (p. lui). Nobili parole in- vero, che sinceramente polca pronunciare un fratello di Francesco, ma che i successori non avrebbero potuto ripetere. PREFAZIONE XIII rispondeva bruscamente che tornassero al gonfaloniere e facessero quanto loro ordinava. Allora il Sercambi alzò visiera e disse che Paolo voleva essere creato capitano e difensore del popolo. La balìa stava irresoluta, quando si sente un moto d'armi e Paolo, prece- duto da voci acclamanti, entra nella sala ove il consiglio di balìa era radunato. Così, per opera precipua di Giovanni Sercambi, non solo i Guinigi mantennero il loro predominio, ma lo portarono molto più in alto di quanto prima fosse, conseguendo Paolo il capitanato del popolo, vale a dire la dittatura. Né guari tardò che una congiura, di cui era a capo il vescovo Niccolò Guinigi, opportunamente sventata, diede occasione a Paolo di chiedere alla balìa che il titolo di capitano gli si mutasse in quello di signore assoluto. Niuno osò contraddirgli, sicché il 21 novembre 1400 co- minciò la sua signoria (1). Il trentenne dominio di Paolo Guinigi fu certo molto diverso da quello che l'energico carattere del Sercambi avrebbe desiderato. « Alieno per indole dalle imprese guerresche e travagliato dal « continuo timore di soccombere pei maneggi dei fuorusciti e degli « emuli, nulla ardiva intraprendere, e guardingo tenevasi e titu- « bante fra le gare dei potentati, a ciascuno dei quali avrebbe « voluto essere in grazia, senza procacciarsi in fatto l'amicizia di « alcuno La sua politica coi governi degli altri stati, figlia « della paura, stava tutta nei sotterfugi e nelle tergiversazioni, sempre « mendicando egli pretesti, a fine di serbare continuamente la più « stretta neutralità » (2). Costrutta nel 1401 una rocca, nella quale potesse riparare in caso di sinistro, barcamenò col Visconti, che (1) Una più larga e precisa esposizione di questi fatti può trovarsi in Mi- NUTOLi, Op. cit., p. xvi-xxiii. Ma per la storia civile di Lucca io mi sono valso particolarmente di Mazzarosa, Storia di Lucca, Lucca, 1833, voi. I, pp. 227 segg. e di Tommasi, Sommario della storia di Lucca, in Ardi. sior. ital., voi X, Firenze, 1847, pp. 263-306. Chi voglia può vedere anche la disserta- zione VII del CiANELLi, in Memorie e documenti per servire all' istoria della città e stato di Lucca, voi. II, Lucca, 1814. (2) Tommasi, Op. cit., pp. 293 e 295. XIV NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMHI l'aveva aiutato al dominio, e coi Fiorentini. Promosse il miglio- ramento economico, ed in ispecie agrario, del territorio e usò con tutti clemenza, sperando così di cattivarsi gli animi de' molti ne- mici. Quando gli furono ordite contro delle congiure, che riuscì ad eludere, usò indulgenza ai rei, che non s'ebbero altra puni- zione che il confino. La sua clemenza si manifestò pure verso Guido Manfredi suo segretario, il quale nel 1418 lo tradiva, aiutando la scorreria nel Lucchese del capitano di ventura Braccio da Mon- tone. Paolo si accontentò di allontanare Guido relegandolo di fuori, e Guido lo pagò aizzando in appresso contro di lui i Fiorentini. Nel 1413 aveva saputo procacciarsi dall'imperatore Sigismondo il titolo di vicario imperiale; Venezia lo fece nobile e senatore. Ma la politica incerta e conciliativa di Paolo non sempre poteva so- stenersi in quei tempi fortunosi. Nel conflitto che insorse nel 1425 tra Filippo Maria Visconti e i Fiorentini coi loro alleati, da una parte e dall'altra si sollecitava l'oppoggio di Paolo. Dopo essersi lungo tempo schermito, finalmente egli inviò settecento uomini al Visconti, sotto la guida del figlio Ladislao. Quest'atto doveva ca- gionare in seguito la sua rovina, che conclusa la pace nel 1428 tra il Visconti e la lega, il Guinigi si trovò in posizione imba- razzante. Trascinato alla guerra, resistette dapprima Paolo con l'aiuto del Petrucci di Siena e del Visconti. Ma il capitano dei soldati viscontei era Francesco Sforza, di cui il Guinigi non aveva fiducia, onde nuove incertezze in lui, che determinarono una con- giura, alla quale Paolo soggiacque nel 1430. Consegnato allo Sforza e condotto coi figli in Milano, fu rinchiuso nel castello di Pavia. I figli ne uscirono liberi; Paolo vi terminò i suoi giorni nel 1432 (1). In questo modo terminò la potenza dei Guinigi. (1) Mazzarosa, Op. cit., 1, 256-282. Non mi riusci reperD)ile il discorso documentato di Salv. Bongi , Di Paolo Guinigi e delle sue rìccìiezze, Lufca, 1871. Della famiglia Guinigi tratta diffusamente G. Vinc. Bauoni nelli; sue Famirjlic lucchesi, opera che si conserva ms. nella R. Biblioteca di Lucca. PREFAZIONE XV Elevato Paolo al potere, più dalla audacia dei suoi partiagini (fra i primi il Sercambi), che dalla volontà propria, riuscì di gran lunga inferiore alle esigenze di quei tempi pieni di pericoli e di lotte, in cui la equità e la mitezza del carattere mal valevano a salvare dalle conseguenze di una politica fondata sulla paura. A Giovanni Sercambi la morte risparmiò l'amarezza di veder soc- combere in carcere l'uomo che egli aveva fatto assorgere al più alto potere dello stato. Egli venne meno alla vita il 27 marzo 1424 (1). Ma se non alla totale rovina, certo ei dovette assistere alla politica titubante di Paolo, che non poteva riuscire troppo di suo gusto. Che Paolo si tenesse caro quel principale autore del suo innalzamento, non è a dubitare. Quando, infatti, nel 1403, egli si recò a visi- tare il proprio dominio, fu il Sercambi chiamato a far parte della reggenza cui era commesso lo stato, e nell'anno medesimo andò ambasciatore a Gabriello Maria Visconti, divenuto signore di Pisa, e nel seguente prendeva possesso in nome del Guinigi di Carrara, Lavenza ed altri castelli, rivendicati a Lucca. Nel 1405 ricupe- rava, alla testa di armati, il castello di Ortonuovo in Lunigiana e dal 1408 in poi fu annoverato tra i consiglieri di Paolo (2). Queste onorificenze peraltro non bastavano, sembra, a Giovanni, che forse desiderava una più decisa ingerenza negli affari pub- blici. In fine della sua Cronaca egli ha una rubrica tutta per- sonale, che porta per titolo : Del danno die Johanni Sercambi di Lucila ha ricevuto per essere stato amico della casa de Guinigi e del signor Paido Guinigi. Quivi rammenta i servigi da lui resi a quella famiglia ed enumera i danni materiali che gliene ven- (1) Come si rileva dalla iscrizione sepolcrale, che si leggeva un giorno nella chiesa di S. Matteo in Lucca, e che il Gianelli estrasse dall'opera del Pera sulle iscrizioni lucchesi. Cfr. Memorie e docum. per servire all'ist. di Lucca, li, 145. La riferì quindi il Lucchesini, nelle medesime Memorie e documenti, IX, 126, e finalmente il Minutoli, Op. cit., p. xxvi. (2) MlN-UTOLI, Op. Cit., p. XXIV. XVI NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI nero, per l'odio che s'era tirato addosso da parte de' suoi concit- tadini dimoranti in Lucca e fuori. Da questi suoi lagni si discerne chiaramente come gli cocessero in ispecie i danni pecuniari (1). Ciò non ostante noi abbiamo buono in mano per ritenere che il Sercambi mettesse insieme non poca roba in quel suo servire e favorire i Guinigi. Esiste un documento, per vari rispetti note- vole, che io pubblico nella sua integrità in fondo a questa prefa- zione. È il testamento di Giovanni Sercambi, del quale si rogava il 21 febbraio 1424 il notaio ser Domenico Ciomucchi (2). Da questo testamento risultano parecchi fatti della vita privata del Sercambi e si imparano nel medesimo tempo a conoscere le sue condizioni finanziarie. Non avendo avuto figliuoli dalla moglie Pina Campori (3), no- mina il Sercambi suoi eredi universali i nipoti Giannino e Bar- (1) Di questa interessante rubrica inedita non posso che riferire il breve sunto datone dal Minutoli, Op. cit., p. liv: « Premesse alcune considera- « zioni sui pericoli che s'incorrono da chi, essendo nella cittf» divisione, si « accosti ad una delle parti, corroborate da esempli di antiche storie e au- « torità di dottori, viene riepilogando i servigli da lui rendati alla casa Gui- « nigi; e quindi passa a raccontare i danni sofferti per detta cagione enu- « merandone fino a otto; cinque de' quali non sono però che la conseguenza « del terzo danno, cioè dell'essergli stato impedito d'entrare al possesso del- « l'eredità di maestro Giglio Sercambi suo zio, morto in Parigi il 1404, pel « fatto degli esecutori del testamento. — Aveva Giovanni mandato a tale « effetto il suo fratello Bartolommeo con lettera commendatizia del signore « di Lucca: ma tutto fu nulla; che Bartolommeo vi lasciò la vita, e in luogo « di conseguire la eredità, che egli fa ascendere a meglio di fiorini sette- « mila, gliene andarono settecento de' propri! ». Gfr. p. xxv. (2) 11 documento si stampa qui per la prima volta; il Minutoli peraltro ne ricavò varie notizie in Op. cit., \yp. xxvi e liv. Io ne feci estrarrc copia ufficiale (iairArchivio notarile di Lucca e per la precisione di questa copia debbo grazie al conservatore di quell'Aichivio not. Federico Merli. (3) Apparteneva questa donna alla medesima famiglia Campori di Fibbialla, d'onde era uscita Lucia, moglie di Jacopo Sercambi, e madre di Giovanni. Pina dovette essere largamente fornita di beni di fortuna e Giovanni la sposò giovanissimo (ventenne?), come risulta da uno strumento veduto dal Minu- toli, p. IX. PREFAZIONE XVII tolomeo, figli del defunto fratello Bartolomeo (1). Alle figliuole del medesimo, e sue nipoti, Beatrice, Mattea e Giovanna, concede di abitare, in caso di vedovanza, nel suo palazzo in contrada di S. Matteo, o se vogliono, nella sua casa di Mazzarosa, e gli eredi sono obbligati a provvederle di vitto e vestito. Per di più fa un lascito speciale alla nipote Beatrice, moglie di Tegrino Sabolini, di due piccole case e di varie terre nel comune di Corsanico, con obbligo di non poterle alienare senza volontà degli eredi. A ma- donna Pina, sua moglie, ordina sieno dati fior. 800, che egli ri- cavò dalla vendita di buona parte delle terre da lei portate in dote ; la nomina padrona di una metà dei possessi che sono per- venuti ai Sercambi per mezzo suo; le lascia in usufrutto il pa- lazzo di S. Matteo, con tutti i mobili onde è provveduto, la villa e i poderi di S. Anna delle piagge e la casa di Mazzarosa con l'annesso giardino. Kegola i conti con Gabriele Neri da Siena, che fu suo socio e gerente nella farmacia patema. Essendo stato il testante tutore e curatore del morto Antonio, figlio del fratello Bartolomeo, ordina si rivedano i conti, e si soddisfacciano i debiti, nel caso che dal libro risulti ch'egli debba qualcosa agli eredi di lui. Non avendo peranco dato corso ad un lascito di fiorini 30, fatto da Margherita moglie di Giglio a favore dei monaci di S. Agostino, vuole che tale impegno sia sciolto dagli eredi. A costoro dà fa- coltà di rivendere le terre che egli aveva comperate da Tomma- succio Giovannetti di Mazzarosa e da Guiduccio Pieri, pur di Maz- zarosa, e a questi ultimi lascia un premio , quando la vendita avvenga alle condizioni medesime, sotto le quali ebbe luogo la compera. Assegna 100 fiorini da distribuirsi a zitelle povere di Lucca e vuole si dia del panno per fiorini 30 ai poveri di Maz- zarosa e per fiorini 20 a quelli di Fibbialla. Dispone messe di (1) Certamente quel medesimo che indarno aveva cercato di raccogliere in Francia la eredità dello zio Giglio e che vi lasciò la vita, come attesta il brano della Cronaca compendiato nella nota 1, p. xvr. Resier, Xocelle di G. Sercambi. XVIII NOVELLE DI GIOVANNI SERGA.MBI suffrago e stabilisce le chiese in cui devono esser dette, tra le quali è la chiesa di S. Pietro di Fibbialla e quella di S. Andrea di Mazzarosa. Inoltre, tra vari lasciti di cere, ve n'è uno all'o- pera della chiesa di Fibbialla e un altro all'opera di S. Jacopo di Mazzarosa. Vuole che due anni dopo la sua morte siano mandati, in suffragio dell' anima sua, due pellegrini, uno a S. Jacopo di Compostella e l'altro a Koma. Desidera di essere sepolto in Lucca, nella chiesa di S. Matteo, e quando ciò venga permesso, si diano a quella chiesa fiorini 20, altrimenti no. Nel caso di divieto, vuole essere tumulato nella chiesa dei disciplinati di S. Maria della Kosa, ai quali disciplinati ordina siano date delle cere e un pic- colo legato di 4 fiorini annui. Da tutte queste disposizioni si discerne come il piccolo speziale figlio di Jacopo, che abitava in una casa non sua nella contrada di S. Cristoforo, abbia accumulato in seguito una discreta fortuna. Lasciata la gestione della farmacia a Gabriele Neri , cui uni in matrimonio la nipote Giovanna (1); sposata Pina Campori con dote per quei tempi cospicua ed ereditata poco appresso, dopo la morte di Ciomeo di Betto Campori, una porzione di quella so- stanza, egli deve avere procacciato bene per sé e per i suoi, in mezzo alle turbolenze politiche di cui fu tanta parte, giacche nel- l'anno della sua morte lo troviamo padrone di un palazzo nella contrada di S. Matteo (2), ove abitava con la moglie, di altre due case minori in Lucca, di casa, giardino e campi a Mazzarosa (3), (1) Vefli MlNLTOM, Op. Ctt., p. LX. (2) Intorno alla provenienza di questa casa non sono ben chiaro. La prima volta che se ne parla nel testamento, è detto che essa provenne « ex here- « ditate olim magistri Gilii Ser Gambii ». Ciò posto, Giovanni non avrebbe potuto prenderne possesso prima del 1404, anno in cui Giglio mori. Ma come va che il Minutoli (p. xlvi) trovò inscritto Giovanni nell'estimo del 1399 come possessore di quella casa? Si tratterebbe forse di due case diverso nella medesima contrada? C'i) I Sercambi provenivano da Mazzarosa, e Massagrogia, come si legge nei documenti (cfr. Minutoli, p. viii). Ivi probabilmente avevano la loro an- PREFAZIONE XIX di terre a Corsanico, di una villa e poderi a S. Anna delle piagge nel contado lucchese. Sembra che anche senza la eredità dello zio di Parigi, per la quale menò tanto scalpore, egli dovesse poter vivere agiatamente. Questi pochi dati biografici potranno essere rettificati e com- pletati da chi abbia modo di frugare negli archivi di Lucca. Né dubito che ciò sia per avvenire presto e bene, per cura dell'uomo egregio cui fu commessa la stampa della Cronaca sercambiana. II. Se la attività politica di Giovanni Sercambi rimase oscura per molto tempo, massime fuori della patria sua, ancor più oscure e dimenticate furono le opere di lui. L'esserne a stampa o indicata alcuna nel secolo passato, non valse al Sercambi l'onore di venir considerato nelle maggiori storie letterarie. 11 Tiraboschi appena lo cita, e quando nel principio del secolo nostro Bartolomeo Gamba ebbe tra mano il codice delle sue novelle, ne identificò non senza fatica l'autore col poco noto storico lucchese, di cui aveva pubbli- cato qualcosa il Muratori. Crebbe bensì più tardi la sua impor- tanza agli occhi degli eruditi, quando Cesare Lucchesini nella Storia letteraria del ducato Lucchese (1) e trent'anni più tardi, molto meglio, Carlo Minutoli, parlarono di lui di proposito e quando si cominciò a por mente alla principale delle sue opere letterarie, le novelle, conosciuta solo in piccola parte. L'ultimo, diligente tica casa e qualche tenuta, e quindi Giovanni fece colà degli acquisti di campi. Dai lasciti del testamento si può rilevare l'affetto ch'egli serbava a quella terra, d'onde erano usciti i suoi maggiori. E cosi pure volle favorito il paese d'origine della moglie sua, Fibbialla. Per quanto misogino e diffi- dente delle mogli appaia nelle novelle, sembra che a Pina lo legasse viva affezione. (1) Mem. e docum. c\i., voi. IX, Lucca, 1825, pp. 126-128. XX NOVELLE DI GIOVANNI SERGAMBI quanto dotto, storico delle lettere nostre (1), non mancò di asse- gnare il suo posticino anche al Sercambi; ma a valutarlo nella sua interezza gli mancavano gli elementi. Volle infatti il caso che^ per ostacoli di diversa natura, degli scritti del Sercambi vedessero sinora la luce soltanto pochi, e quei pochi o incompleti o scorretti. Lo scritto che forse meglio di ogni altro serve a caratterizzare l'indole politica del Sercambi e quella sua acutezza di reggitore pratico, che gli fece avere tanta parte nei destini civili della sua terra, è il Monito ai Guinigi (2). Questa breve prosa, diretta a Dino, Michele, Lazzaro e Lazzario Guinigi, certamente poco dopo il 1392, in cui la potenza della famiglia uscì raffermata pella vittoria ottenuta sui suoi nemici, ha in se condensato un vero pro- gramma di governo, sul quale non sarà male che noi ci soffer- miamo alcun poco. La riassunsero il Lucchesini (3) e il Minu- toli (4); ma troppo breve e incompiutamente. Detto nel piccolo proemio che dagli avvenimenti passati dee l'uomo trarre ammaestramento per evitare i pericoli presenti e prevenire i futuri, l'autore indica il numero de' soldati da pie e da cavallo, che devono tenersi a guardia della città e del terri- torio, e minutamente precisa come queste guardie si abbiano a disporre. Le castella più esposte si affidino a castellani fidati; l'ufficio dello anzianatico si procuri sempre ad amici, e così pure- si cerchi degli altri uffici, « intendendo vostri amici quelli che (1) Gaspary, Geschichte der italianischen Literatur, voi. II, Berlin, 1888, pp. 72-73 e 645. (2) L'autografo di questo Monito si trova, come mi informa lo Sforza, nella filza 38 della serie intitolata Governo di Paolo Guinigi nel R. Ar- chivio di Stato in Lucca. Di su un cod. proprio lo stampava il Mansi, in Stephani Baluzii Tutelensis Miscellanea novo ordine digesta, voi. IV, Lucca, 1764, pp. 81-83. Qui il testo, del quale pur troppo sono forzato a valermi, è dato cosi male, con errori tanto evidenti e madornali nella lettura del codice e nella divisione delle parole, che è a desiderare una sollecita e di- ligente riproduzione dell'autografo. (3) Mem. e docum., IX, 127. (4) Op. cit., pp. xxxi-xxxn. PREFAZIONE XXI « alla morte et alla vita con la voluntà vostra sono uniti ». Co- loro che possono dare sospetto, non si permetta che tengano armi ed armati. I confinati, che si sanno nemici, conferminsi nel con- fino, mandandoli in luoghi lontani, e se non ubbidiscono si seque- strino i loro beni e si dichiarino ribelli del Comune. Ogni ribelle « possa essere ucciso, preso et derubato in avere et in persona, « et chi tal ribello rappresenterà al Commune abbia profitto, e « chi lo darà morto, ovvero chi quello uccida, abbia compenso ». Quelli che senza colpa si fossero partiti dalla città, vi si richia- mino e si faccia che si diano alle loro arti, per accrescere la pro- sperità interna. Ma se qualcuno dà sospetto, lo si voglia « innanti « povero di fuori che ricco, acciocché con la sua ricchezza non « possa lo stato et libertà di Lucca turbare ». Siccome il Con- siglio generale è capace di molti uomini ed ha grande autorità, creinsi dei commissari, che possano essere da 12 a 18; i quali siano gente amica e fida ed abbiano pari autorità che il Consiglio generale, « acciò che quello che per Consiglio generale vincere « non si potesse , ovvero che a voi paresse non doversi a quel « Consiglio mettere, si possa per questo ottenere, sicché sempre « la vostra volontà si faccia e non più ». Gli uffici meno rile- vanti e segreti si aprano puranco agli altri cittadini di Lucca, acciò non paia si vogliano escludere ; ma si tengano pei fidi quelli uffici, che hanno vera e diretta importanza nelle cose dello stato. Si scelgano uomini appositi (una specie dei nostri giudici conci- liatori) e costoro determinino « quelli piati, i quali non ben chiari « per l'una parte et per l'altra parte mostrare si puonno ». Si tenga gran conto degli amici, « perocché Dio ci die exemplo che « a quelli che funno del suo volere, fece grande utile ». Si faccia ■di nuovo « il libro delle bandiere », cioè si notino rigorosamente tutti i soldati che si hanno, per poterne, all'occorrenza, profittare. Per sopperire alla spesa di questi soldati, che sarà grande, si fac- ciano economie nel resto; ma tutto si pratichi, pur di non dimi- nuire le proprie forze. « Sicché, concludendo, a me pare che le XXII NOVELLE DI GIOVANNI SERGAMBI « preditte parti, prima che i soldati si facciano amici, confidanti « e savi; et alli offici s'abbia l'occhio, et simile a' mercadanti, <•< che in Lucca sono ovvero che partiti si fusseno, che vegnino a « fare buona terra, e tutte le ditte parti si mettano ad effetto « senz'alcuno indugio o dilazione; perocché facendolo, lo vostro « stato et libertà di Lucca non vivere in sospetto né gelosia, e « la ciptà e la vostra persona e de' vostri amici scranno sicuri e « leverassi la materia a' nostri sudditi di non attentare alcuna « cosa contraria. E seppure alcuno fusse tanto matto, che atten- de tare volesse, non gli de' né può venir fatto, osservando le parti « di sopra ditte ; et di tale attentazione non se n'abbia miseri - « cordia, benché io penso che Dio ci presterà grazia che non bi- « sognerà ». Terminato così il programma di governo, segue un piccolo programma finanziario. « Considerato il poco fare della « seta, la quale arte era quella che riempiva Lucca di denari, « almeno quello che per noi far si può, per altri non si faccia ». E però rendasi difficile con una forte gabella la importazione de' vini forestieri, si impedisca che nel contado di Lucca entrino mercanzie di fuori e si faccia invece che quelle lucchesi vi si diffon- dano esenti da imposizioni ; si vendano e utilizzino i locali vuoti e i terreni incolti ; si dia nuovo ordinamento alle imposte, in modo d'accrescerne i proventi. Insomma, in poche parole, un abbozzo di riforme economiche, fondato sulla teoria del protezionismo in- dustriale ed agricolo. Unico che abbia ravvisato la importanza storica vera di questo scritterello del Sercambi fu il Bruckhardt, che dopo averne dato un compendio, notò in esso « una delle molte prove di fatto, che in « Italia la ritiessione politica si svolge assai prima che in tutti « i paesi del settentrione (1) ». Mirabile infatti é quest'uomo, (1) Civiltà del rinascimento, trad. ital., I, 118-19. Erra peraltro il Bur- ckhardt quando ripone l'operetta sercambiana nei primi decenni del se- colo XV. L'esser nominati nella dedica Lazzaro e Michele e il non trovarvisi Paolo, indicano manifestamente che il Monito è anteriore al 1400. PREFAZIONE XXIII che alla fine del secolo XIV, quando la scienza politica non si era ancor terminata di fare su base teologico-scolastica , pun- tando alle due supreme autorità, la papale o la imperiale, e non era peranco sorta la politica classicizzante, ma non perciò meno vuota, degli eruditi (1), è mirabile dico, questo figlio di speziale lucchese, che con tanta chiarezza e precisione di idee, con tanta semplicità ed efficacia di mezzi, senza perdersi in astruserie né in paragoni, addita la via pratica da seguirsi con la coscienza dell'ar- tefice, che costruisce un meccanismo. Di fronte ad una simile rive- lazione dello spirito pratico italiano, sarebbe puerile il lamento che ! il disegno politico del Sercarabi mirasse a innalzare e tutelare la tirannide, anziché a mantenere le istituzioni libere della patria. Il concetto dello stato come opera d'arte, che ebbe a' giorni nostri un così segnalato illustratore, si forma e si sviluppa parallelo al concetto monarchico; né poteva essere diversamente. A noi basti qui l'avere osservato come, se questo concetto aveva trovato già più di uno nella pratica, che materialmente lo aveva adottato, nessuno forse prima del Sercambi ne espose gli ingegni con maggiore sem- plicità, schiettezza ed accortezza. Però che in quelle sue poche pa- gine, che dicono tanto, non solo egli accenna all'ordinamento poli- tico e militare, non solo indica i mezzi meglio atti per allontanare i pericoli interni, non solo consiglia gli spedienti per rimettere in vi- gore le arti manuali, fieramente colpite dalle passate vicessitudini politiche; ma traccia una via per far rifiorire le finanze depauperate. L'economia politica, che solo nel sec. XIII aveva cominciato a tro- vare interpreti teorici tra i teologi, i filosofi ed i giureconsulti, i quali tutti si rifacevano per lo più ai principi aristotelici (2), esce (1) Vedi gli indirizzi di queste scuole politiche riassunti con la solita acu- tezza e perspicuità dal Villari, N. Machiavelli e i suoi tempi, II, 230 segg. (2) Cfr. Gh. Jourdain, Mémoire sur les conimencements de Vèconom. polit. dans les écoles du 'moyen-ó.ge, in Mémoires de l'acad. des inscript, et belles lettres, voi. XXYIII, 1874, pp. 1-51. L' opera del Gibrario, Bella XXIV NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI interamente nel Monito del Sercambi dalla dipendenza dei motivi astratti tradizionali e inaugura, nella maniera piti esplicita, quello che parecchi secoli dopo fu chiamato sistema protettore (1). Ciò meritava di essere rilevato, perchè torna a vanto non piccolo dell'in- gegno e del senno pratico del Sercambi. I cui ammaestramenti economici furono forse in parte meglio seguiti che gli ammaestra- menti politici dal debole Paolo Guinigi (2), tanto diverso da quel signore ideale che il Sercambi vagheggiava. Singolare è il vedere che i medesimi intendimenti didattici di governo, che inspirarono il 3fotiito, fanno capolino eziandio in una opera ben maggiore del Sercambi, la sua Cronaca. Di essa Cro- naca io non potei leggere se non quell'unica parte che è finora a stampa, il principio cioè del secondo libro, dal 1400 al 1409, pubblicato dal Muratori (3). Questo frammento trovò il Muratori in un cod. della Ambrosiana e gli parve di aver rinvenuto tutto intero il secondo libro. Ammaestrato dalle parole del Sercambi medesimo ch'egli aveva scritto un primo libro, del quale questo economia politica del medio evo, Torino, 1842, nella quale, del resto, di troppe cose si parla che con la economia, politica e non politica, non hanno che vedere, non si occupa affatto delle teorie. (1) Lo riconobbe con un cenno L. Gossa nella Guida allo studio della economia politica, Milano, 1876, p. 128. Circa alle prime manifestazioni di scienza economica in Italia, nei tempi del Sere, e nei successivi, vedi una disamina alquanto superficiale di Em. Geuhart, Les historiens fiorentine de la renaissance et Ics cotnmencement de l'economie politique et sociale, in Sèanceset travaux de l'acad. des sciences morales et politiques, vol.XXXlN', 1875, 2» sem., pp. 552 sgg. (2) Sulle migliorie specialmente agrarie, introdotte da Paolo, vedi Maz- ZAROSA, St. di Lucca, I, 2.58-60. Ej^li cercò anche di porre un riparo al de- cadimento dell'arte dei drappi serici; ma non vi riusii (vedi Tommasi, Som- mario, \). 297}. Il Sercambi, come s'è visto, la considerava oniai spacciata. (3) In R. I. S., XVIII, 797 sgg. Parecchi hanno creduto che quivi si tro- vasse tutto quanto il Sere, scrisse della storia di Lucca. Fa meraviglia di veder ripetuto tale errore anche in un libro recente e pregevole, qual'è quello di U. Balzani, Le cronache italiane del medio evo, Milano, 1884, p. 286. PREFAZIONE XXV secondo era la continuazione (1), fece pratiche presso il governo di Lucca per ottenere comunicazione di quel ms., ma tale favore gli fu costantemente negato per gelosia politica (2). Quindi sino ad oggi tutto il primo libro rimase inedito e così pure una gran parte del secondo. Oggi, su proposta della sezione di Lucca della K. Deputazione di storia patria per la Toscana, 1' Umbria e le Marche, l'Istituto storico italiano ha deliberato di pubblicare in- tera la Cronaca del Sercambi , affidandone la cura al eh. cav. Salvatore Bongi (3). (1) Il primo libro, come appare anche AaWexplicit riferito dal Minutoli {Op. cit., p. xxviii), era destinato a far corpo da sé. Negli inizi del libro secondo il Sercambi stesso ci dice che s'era proposto di non voler più oltre narrare delle cose della sua terra, ma che poi mutò consiglio. (2) Di ciò muòve lagno il Muratori in una lettera da lui diretta il 26 set- tembre 1727 a Giov. Domenico Mansi. Ivi è scritto: « Del resto, mi auguro « ben la fortuna di far conoscere il mio singolare ossequio a cotesti illu- « strissimi signori e alla loro nobile città, ricordevole sempre delle grazie e « finezze che ne ho ricevuto. E volesse Iddio che i medesimi si accordas- « sero a contribuire altre memorie e storie, ond'io potessi far onore alla lor « patria. Le repubbliche di Venezia e Genova, siccome vedrà Y. R. (per « tacere di tante altre città), mi hanno data maniera di servire alla lor « gloria con pubblicare le loro antiche croniche. Solamente Lucca non vuol « somministrare neppure un foglio. Ho fatto chiedere una parte della Cro- « nica di Ser Cambi, avendo io l'altra. Non l'ho potuta ottenere. Si farà ben « credere alla gente, che cotesta si antica e riguardevole città sia la più « povera di tutte, e mancherà a lei quel lustro che tante altre minori avranno « nella mia raccolta, perchè vi si leggeranno le loro storie vecchie. Né io « altre storie desidero che le composte prima del 1500, perché le posteriori « non fanno per me. S'io fossi costà, direi tanto, che forse mi riuscirebbe « di levar tutta l'ombra e gli ostacoli che impediscono la gloria propria e « l'accrescimento della pubblica erudizione. Almeno V. R., che anche più « di me ama la sua città, desidera il suo onore e conosce ch'io parlo più « per suo che per mio bene, dica e ridica quel che può in tal congiuntura ». Vedi Lettere inedite di L. A. Muratori scritte a Toscani, Firenze, 1854. p. 405. (3) Gfr. Bullettino dell'Istituto storico italiano, fase. 1", p. 21; fase. 2», p. 71; fase. 3°, pp. 35-37. Già quarant'anni sono il march. Antonio Mazza- rosa (1780-1882) ebbe l'idea di pubblicare la Cronaca del Sercambi, ma poi non ne fece nulla. Lo rilevo da una lettera inedita di P. Giordani a lui, in data 23 maggio 1843, che verrà presto in luce. XXVI NOVELLE DI GIOVANNI SERGAMBI Il primo libro va dal principio del 1164 all'aprile del 1400 ed è diviso in tre parti. La prima narra a gran tratti gli avveni- menti occorsi dal 1164 al 1314; la seconda, saltando (o meglio toccando di sfuggita) un ventennio, muove dal 1335 e giunge al 1369; la terza va da quest'ultimo anno all'aprile del 1400 (1). Trovasi questo primo libro in un bellissimo codice membranaceo del R. Archivio di Stato in Lucca , ornato di numerose e no- tevolissime miniature, che illustrano assai bene i costumi del tempo (2). Comincia il secondo libro col maggio del 1400 e resta interrotto nel 1423, mentre narra della morìa che infestava Lucca a quel tempo. Scritto dalla medesima mano che il primo, tro- vasi questo libro nell'Archivio domestico dei signori Guinigi (3). Nonostante la naturale parzialità che il Sercambi dimostra in questa sua Cronaca per la famiglia Guinigi (4), essa è pur sempre uno dei più antichi e copiosi documenti storici di Lucca. Né solo questo. 11 Sercambi, oltreché uomo politico e storico, era anche novelliere e pizzicava di poeta (o almeno ci teneva). Quindi spesse volte i fatti vanno prendendo nel suo racconto atteggiamenti ro- manzeschi, e in mezzo ad essi troviamo inseriti dei versi di ar- gomento religioso, morale o politico, tolti dalla Commedia o dal (1) MlNUTOLI, Op. Cit., pp. XXVII-XXVIII. (2) Vedi quanto sull'importanza di tali miniature dice il Bongi nel cit. BuUettino, fase. 2", p. 71. Esse verranno riprodotte, o tutte o in gran parte, nella edizione. (3) Oltre il frammento che ve n'è in Amljroi5Ìana e che servì al Muratori, havvi del secondo libro una copia intera, ma scorretta, di Bernardino Ba- roni nella R. Biblioteca di Lucca. (4) Nella parte che ho potuto consultare, il cronista registra con speciale affetto, in mezzo agli avvenimenti pubblici, anche i casi privati di Paolo Guinigi, come i suoi matrimoni, le nascite dei figli, ecc. Vedi R. I. S., XVIIl, 833, 847, 87f), 881. La insistenza peraltro con cui replicate volte accusa il Sercambi di partigianeria il To.mmasi {Sommario, pp. 284, 288, 294, 307, ecc.), che pur se ne giova parecchio, non mi sembra punto giustificata. La posizione politica del Sere, era troppo decisa perchè ei potesse scrivere altrimenti da quello che fece. PREFAZIONE XXVII Bittamondo, e quel che è più importante raccattati dalla viva voce del popolo e dei suoi cantastorie. Di questi componimenti altri ha già dato un saggio, pochi anni or sono (1); il vederli tutti, inquadrati nella loro cornice, è certo il primo desiderio di quanti vogliono apprezzare la cronaca in se medesima e non so- lamente per i casi in essa registrati. Ma tornando a quanto ho detto di sopra, notevole è, ripeto, l'osservare come anche nella Cronaca il Sercambi si atteggi a maestro di governo. Dai fatti ch'egli viene narrando prende occa- sione a delle ammonizioni, che occupano talora interi capitoli, e a rincalzo delle quali narra fatterelli antichi, di Lucca e non di Lucca, che sono vere e proprie novelle. Ciò avviene particolar- mente nel libro secondo, e più che altrove nel frammento raura- toriano. Subito nel principio di questo, narrato come Paolo Gui- nigi divenisse capitano, gli fa un sermoncino per ammaestrarlo che bisogna far tesoro degli amici provati e non credere subito amici quelli che tali si professano; e per confermare coll'esempio quanto ha detto, narra le novelle di Fasino e Ambrogio suo padre e di Ciabino e Cionello (2). A proposito della signoria conseguita in Bologna da Nanni Benti voglio, narra il fatto dei Gt&kml e dei ^^^t/^^\ Mangiadori di S. Miniato (3). E poco dopo, quando nel 1401 lo ^ ^ (1) Gfr. Medin, Poesie politiche nella cronaca del Sercambi, in Giorn. stor. d. leti, ital., IV, 398 sgg. Le poesie sono in gran parte di Davino Ca- stellani, oscuro poeta lucchese. V'è un serventese di Antonio Pucci, che il Sere, guasta raffazzonandolo e una poesia anonima in morte di Francesco Guinigi, tanto cattiva, che il M. non credette neppure pregio dell'opera il riferirla intera. V'è pure toscanizzato un Lamento in morte di Bernabò Vi- sconti, che il Ceruti pubblicò nella sua forma originale lombarda. Di sul testo sercambiano è stampato nella raccolta Medin-Frati di Lamenti storici dei sec. XIV, XV e XVI, voi. I, Bologna, 1887, pp. 185 sgg. Il Medin non con- siderò che le sole poesie politiche del solo libro primo. Nel libro secondo sono pure inseriti dei versi; ma in minore copia che nel primo. (2) R. 1. S., XVIIl, 809-10 e 811-13. Sono la I e II del Minutoli corri- spondenti alle VI e XV del Gamba. (3) R. I. S., XVIII, 817-18. Nov. I del Neri, che corrisponde a n^ 98 della presente ediz. XXVIII NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI stesso Nanni, trascurati gli amici, stringeva patti segreti con Astorre Manfredi, gli si indirizza direttamente e lo proverbia, quasi ch'ei non avesse posto mente allo esempio portogli, « Mosso da « buona cagione a narrare a te, Nanni Bentivoglia, perchè non « hai voluto prendere exemplo a quello, che fattoti tu signore di « Bologna con tuoi amici, che tu solo non eri da tanto, che tal « signoria dovessi aver presa ; ma avendo a te molti amici, quella « prendesti; e tu, come poco amatore delli ami. PREFAZIONE XXXV « Ioanni Ser Cambi , secondo che a me minimo intendente pare « che fusse lo intellecto dell'autore; e però ogni esempio, argo- « mento, oppinione, conclusione, allegoria, sententia o vero alcuno « dicto che in essa ho scripto, inteso o vero assegnato, se lo si « conforma e assomiglia al senso e al tenore della s. Madre Ec- « desia catholica romana, approvo, affermo, et oe per bene dicto: « se deviasse, discrepasse, o vero contradicesse al prelodato senso, « sia per vano et non bene dicto; et però lo casso et tegno per da « nessuno valore, siccome 'Christiane puro, fedele e verace (1)». Il Minutoli, che esaminò questo commento, così ne discorre: « Le chiose « al testo non sono in sostanza che tentativi di spiegare chiaramente « in prosa i concetti del poeta per poetiche maniere manifestati; ma « noi pensiamo che piìi spesso gli venga fatto il contrario, cioè di « avviluppare maggiormente, invece di dichiarare, i sensi più oscuri « e difficili. Grandissima è la erudizione di cui fa pompa, ogni « qualvolta gliene capita il destro, mescolando giù alla rinfusa il « sacro col profano, ed anco la favola con l'istoria; e infinita la « moltitudine delle citazioni e degli esempli tratti dagli antichi « filosofi, in ispecie da Aristotile e dai ss. Padri, coi quali vuol « rinfiancare le opinioni di Dante e le proprie. Rare per lo contrario, « e di non molto momento, sono le osservazioni filologiche ». E poco appresso l'erudito lucchese conclude che « questo lavoro del Ser- « cambi fa fede di sua dottrina, che fu molta per quell'età, ed anzi « maravigliosa, se si consideri che poco o niun sussidio potè avere « di maestri e d'insegnamenti (2) ». Ora, io purtroppo non ho avuto agio di recarmi a Firenze per istudiare minutamente, come si dovrebbe, questo commentario ; ma movendo dalla idea che mi sono formata della coltura del Sercambi dalle altre opere sue, mi riesce inconcepibile questo sdoppiamento (1) Descrizione in Bandini, Suppl, III, 225-26 e in Minutoli, Op. cit., pp. xxxii-xxxiv. II Ferrazzi, Manuale Dantesco, V, 291-92, copiò alla let- tera, senza dirlo, il Minutoli. (2) MixuTOLi, Op. cit., pp. xxxiv-xxxv. XXXVI NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI curioso, per cui il medesimo autore sarebbe in taluni scritti igno- rante di grammatica e di latino, mentre nel commento apparirebbe dottissimo, sia pure alla maniera medievale, di storia e di teologia. Un fatterello, che mi è avvenuto a questo proposito, servì a confer- marmi nei miei sospetti. Il ms. fiorentino ha in testa, subito dopo l'indice, alcune terzine ed un discorso filosofico. Io mi sono procu- rato copia delle une e dell'altro (1). Le terzine vogliono essere rife- rite per saggio, tali e quali come sono nel codice : Incominciasi socio brevità quello che si contiene in questa terza parte di paradiso. In que-ta parte con altra doctrina In nove parti figurata prende Simile al ben che da nove declina La prima con quella virtù risplende Che con fredezza danimo excellenza Che charita di spirito sintende Ella segonda celestial semenza Al governo del mondo cura e guarda Secondol senso della sua sentenza La tersa parte che foco damor arda Nella quarta risplende tanta luce Che sapientia a suo rispecto e tarda La quinta con feroce ardir aduce Tanta virtù e forsa corporale Che solo il militar prende per duce Degni grandezza e animo reale La sexta par che suo parere inpetri La mente in lei che sua virtute chale Ella sectima par che si contenti A chastitaten sacerdotal manto E ciò dimostran ben su argomenti Dogni virtù e dogni habito santo Loctava d'ogni ben paresser madre Per la virtù chella in se cotanto Ella nona conchiude come padre Mobole più ciascun mocto celeste. Questi brutti versi non sono del Sercambi, che ne faceva anche dì peggiori, ma di Jacopo Alighieri, nel ternario riassuntivo della (1) 11 cav. N. Anziani, bibliotecario della Laurenziana, ha voluto, con la sua abituale gentilezza, favorirmi in questa ricerca. Gliene porgo qui le più sentite grazie. PREFAZIONE XXXVII Commedia (1). E fin qui meno male ; ma v'ha di peggio, se si consi- dera bene il discorso filosofico. L'autore di esso vuol dimostrare che la beatitudine non può provenire da nessun bene terreno ; ma sola- mente dalla contemplazione di Dio, e che quindi unica via per giun- gervi è la teologia.Passa in seguito a tratteggiare brevemente la co- stituzione del Paradiso dantesco. La trattazione è condotta con suf- ficiente garbo, ne manca di citazioni erudite, attinte alle solite fonti famigliari nel medioevo. Ma il gran male si è che questo discorso non è punto del Sercambi. Lo si trova parola per parola nel Laneo (2). Tutti sanno quale immensa diffusione abbia avuto il commento di Iacopo della Lana, del quale il Batines annovera più di cin- quanta manoscritti. Composto nella prima metà del XIV secolo, esso è, in ordine di tempo, il primo commentario compiuto della Commedia (3). Tradotto in latino da Alberico da Kosciate, sac- cheggiato a man salva dsM' Ottimo, stampato poi due volte già nel quattrocento, esso godette (a dritto o no) di una grande re- putazione, in ispecie nel secolo in cui venne compilato. Non po- trebbe darsi che tutto il commento al Paradiso di Giovanni Ser- cambi non fosse altro che un plagio, come il prologo, o, se non addirittura un plagio, un compendio od un rimaneggiamento di quello del Lana ? In questo caso si spiegherebbe benissimo tutta quella dottrina uscita d'un tratto dal cervello e dalla penna del buon farmacista lucchese. E che il commento del Lana gli an- dasse particolarmente a genio, lo si intenderebbe anche conside- rando l'indole di quel commentario, in cui i fatti storici si fon- (1) Cfr. la stampa che ne ha dato recentemente il Roediger in Propugna- tore, N. S., 1, 368-69, vv. 109-134. La Divisione di Jacopo, scritta nel 1322, si trova in un numero sterminato di codici. Il nuovo editore tenne a raffronto molti mss. fiorentini e migliorò notevolmente il testo, che nelle altre stampe è scorretto. Il Sere, mise di suo parecchi errori nelle terzine che trascrisse. (2) Vedi Comedia di B. A. col commento di Jacopo Giovanni della Lana, pubbl. da L. Scarabelli, Bologna, 1866, pp. 311-12. (3) Cfr. quello che ne dice G. Hegel, Ueber den historischen Werth der dlteren Dante- Commentare, Leipzig, 1878, pp. 10 sgg. XXXVIII NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI dono curiosamente nella fantasia del chiosatore e vengono esposti molte volte col colorito della novella (1). Ciò doveva rispondere all'indole del novelliere di Lucca. Ma io non voglio qui , trasci- nato dalla congettura, anticipare i risultati cui può solo giungere legittimamente un esame particolare del manoscritto, che a me per ora non è concesso (2). Qualunque sia peraltro il valore del commento della Lauren- ziana, sta il fatto che il Sercambi ebbe per Dante una speciale predilezione. Valgono ad attestarla gli spessi richiami de' suoi versi nella Cronaca (3) ; valgono anche in parte i due aneddoti dante- (1) Scrive il Witte, e ne reca molte prove : « Bei Jacopo della Lana nimmt « Geschichtliches und Mythisches, Antikes und Neuestes den gleichen, alles « Gostiim verschmahenden Legenden, oder richtiger Novellen, Charakter an ». Die bidden àltesten Commentato ren v. D's Gotti. Komodie, in Dante-For- schtingen, I, 372. (2) Dopo che queste pagine erano scritte, essendosi recato a Firenze il mio carissimo Nevati, io lo pregai di dare un'occhiata al cod. Laurenziano. La risposta che ne ebbi conferma interamente la mia congettura. L'amico mi scrive: « Ho confrontato rapidamente, ma con sufficiente diligenza, il commento at- « tribuito al Sercambi col Laneo, e mi son persuaso che l'uno non è che « una copja ad litteram dell'altror II Sercambi non vi ha messo di suo nep- « pure una riga; è gran che' se qualche volta aggiunge una parola o due « al testo che copia con tanto scrupolo ». Ma v'ha di più. Il Nevati ritiene che il cod. Laurenziano sia autografo del Sercambi. Egli si fonda suU' età del ms., sulla sua correzione e conseguenza di grafia, sui molti lucchesismi, sulla somiglianza dei caratteri con quelli del primo libro della Cronaca nel cod. dell'Archivio di Lucca, sullo stemma che è nella facciata quarta, con cui comincia il prologo. Quello stemma è un leone d'oro rampante in campo ^^.azzujTO; precisamente lo stemma dèi Sercambi, come si può vedere nelMi- NUTOLi, p. Lx. Anche le miniature del ms., che il Nevati mi ha accurata- mente descritte, meritano molta considerazione. All' infuori di quella della facciata quarta, che è opera di un miniatore di professione, le altre, schiz- zate a penna con fattura disinvolta, e poi ripas.sate a mala pena con qualche tocco di pennello, senza fondi solidi né a oro né a colori, hanno l'aria di provenire dalla mano di un artista esercitato, di un pittore. Utile potrà certo riuscire lo studio di questi disegni e il confronto con quelli che adornano il cod. Lucchese del primo libro della Cronaca. (3) Un lungo passo del secondo libro di essa, ove il Sercambi, prendendo argomento dalla peste del 1422, moralizza sull'avarizia citando i passi dan- teschi, in cui è parola di questo vizio e dandone un commento storico, ri- PREFAZIONE XXXIX schi che narra nelle novelle (1) e più vale il trovare due copie della Commedia tra i libri che gli appartennero. Per sicurezza della dote materna venne praticato nel 1426 verso Giannino del fu Bartolomeo Sercambi (uno degli eredi universali, come s'è ve- duto, del cronista) un sequestro dei mobili appartenuti allo zio Giovanni. Nell'atto pubblico, che se ne conserva (2), v'è anche un catalogo de' libri, tra' quali sono notati i seguenti : Uno libro di novelle fece Johanni. 11 protocollo delle croniche di Giovanni Sercambi. XVI quaderni di croniche di Giovanni Sercambi in carte grandi di capretto. Una comedia di Dante disposto colle coverte bianche cioè il purgatorio. Una comedia di Dante del paradizo. Un testo di Dante in carta montonina. feri il MiNUTOLi, Op. cit., pp. lv-lix. Trattandosi di passi del Purgatorio e deìYInferno, credette il M. trovarvi una prova per ritenere che il Sere, non chiosasse soltanto il Paradiso; ma eziandio le altre due cantiche. Il M. in- fatti osserva : « A noi non par da credere che egli imprendesse la fatica di « dichiarare que' luoghi della D. C. solo per dimostrare i mali effetti della « avarizia; e crediamo piuttosto che avendo commentato l'intiero poema, ne « venisse levando i brani che gli facevano a taglio, accomodandoli e inne- « standoli nella Cronaca, come il simile teniamo eh' e' facesse delle novelle ». Benissimo; ma il male si è che le esplicazioni del Sercambi corrispondono interamente (tranne varietà insignificanti di forma) a quelle che diede il Lana ai passi relativi di Dante. Altrove il M. (p. xxxv), sempre inteso a provare che il Sercambi abbia commentato pure le due prime cantiche, ad- duce alcune sue parole nel proemio al canto X del Paradiso. Ma quelle pa- role sono copiate dal Lana, ediz. cit., p. 373.: Sercambi Or siccome noi avemo dicto nel quarto capitolo del Purgatorio, quelle due extensioni che fa lo dicto xodiaco verso li poli sono chiamate tropici. Lana Or si come appare noi avemo ditto nel quarto capitolo del Purgatorio, quelle due estensioni che fa lo ditto zodiaco verso li poli sono appellate tropici. Se pertanto esistettero le due prime cantiche con un commento che il Ser- cambi si attribuiva, non ritengo che quel commento potesse essere di varia natura da quello che si ascrive a lui nel ms. Laurenziano. (1) Novelle IX e X del Gamba. (2) Negli Atti civili del Potestà di Lucca , registro 1038, e. 52-53. Di questo documento sono pure debitore al cav. Sforza. 1. XL NOVELLE DI GIOVANNI SERGAMBI III. Ed ora veniamo alle novelle. Nel 1816 il bibliografo veneziano Bartolomeo Gamba pubblicava in Venezia, in edizione di sole 113 copie, venti novelle di Gio- vanni Sercambi , dedicandole al possessore del codice , d'onde le l aveva tratte, il marchese Gio. Giacomo Trivulzio (1). Come dice egli medesimo nella prefazione, il Gamba era stato per più mesi il depositario del manoscritto, ed essendone la lettura assai diffi- cile, ne avea fatto fare una copia. Da questa copia , di cui avrò occasione di parlare in seguito, egli deve aver ricavato qualche estratto. Uno di tali estratti, contenente undici novelle, trovò il D'Ancona nella biblioteca del barone Cristoforo Scotti di Bergamo, e lo pubblicò nel 1886 (2). Non molti anni prima era stato con- cesso ad Isaia Ghiron di trarre due novelle del Sercambi diretta- mente dal cod. Trivulziano, ed egli le aveva pubblicate per nozze (3). Le novelle adunque, che sinora erano a stampa, ricavate diretta- mente 0 indirettamente dal manoscritto Trivulziano, ammontavano a trentatrè. Ma un'altra fonte di novelle era ben presto stata ravvisata nella Cronaca^ ove sono poste per esemplificazione, come abbiamo veduto. (1) Novelle di Giovanni Sercambi Lucchese, ora per la prima volta pub- blicate, Venezia, Alvisopoli, 1816. Le novelle pubblicate dal Gamba corri- spondono nel cod. Triv. ai n' 12, 15, 21, 37, 52, 57, 68, 70, 71, 73, 77, 86, 92, 111, 113, 122, 133, 142, 143, 145. Cfr. la Tavola che è in fondo al pre- sente volume. (2) Novelle inedite di Giovanni Sercambi, Firenze, Libreria Dante, 1886. Le novelle edite la prima volta dal D'Ancona corrispondono nel cod. Triv. ai n» 10, 24, 26, 27, 33, 34, 41, 53, 58, 120, 127. Vedi la Tavola cit. (3) Due novelle di Giovanni Sercambi, Milano, Bernardoni, 1879, per nozze Gori-Riva. Sono le nov. 45 e 55 del Triv. PREFAZIONE XLI Dodici di queste novelle pubblicò nel 1855 il Minutoli in 108 f ^ esemplari; delle quali dieci erano già stampate nel frammento ' Muratoriano (1). Altre due ne ricavava dal medesimo frammento ^ Achille Neri (2) ed una, dalla parte inedita della Cronaca, Mi- / chele Pierantoni, a 30 soli esemplari (3). Le novelle quindi tratte dalla Cronaca sommano a qtiindici. Essendo ben presto divenute assai rare le pubblicazioni del Gramba, del Minutoli e del Pierantoni, ristampò queste novelle, illustrandole acconciamente, il D'Ancona nella disp. 1 19 della Scelta 7 di curiosità letterarie (4); e quindici anni dopo il medesimo D'An- cona aggiungeva alla prima stampa delle undici novelle anzidette, di provenienza bergamasca, la ripubblicazione di quelle già edite dal Ghiron e dal Neri, e di una variante del cod. Baroni già edita dal Papanti, su cui avrò a ritornare (5). Le due novelle di sog- getto dantesco, pubblicate tra le venti del Gamba, furono inserite da Giovanni Papanti nell'opera Dante, secondo la tradizione e i novellatori (G). Il Gamba, nella lettera proemiale al suo volumetto, osserva: (1) Alcune novelle di Giovanni Sercambi lucchese, che non si leggono nell'edizione veneziana, colla vita dell'autore scritta da Carlo Minutali, Lucca, Fontana, 1855. Queste novelle corrispondono, con molte varianti, alle seguenti del cod. Triv.: 54, 60, 73, 115 (comprende tre delle novelle del M.), 123, 133, 135, 138. Due poi, le 156 e 157 della mia Tavola, non hanno cor- rispondenza nel Triv. (2) Nel Propugnatore, 1871, voi. IV, P. II, pp. 223 sgg. Se ne stampa- l'ono 32 esemplari a parte. Le novelle si trovano, con molte varianti, nel cod. Triv. ai n' 117 e 136. (3) Novella inedita di Giovanni Sercambi, tratta da un ms. della pub- Mica libreria di Lucca, Lucca, Ganovetti, 1865. Bisponde al n° 48 del cod. Trivulziano. (4) Novelle di Giovanni Sercambi, Bologna, Romagnoli, 1871. (5) Nel citato volumetto della Libreria Dante. (6) Livorno, Vigo, 1873, pp. 65 sgg. Per la bibliografia delle novelle del Sere, vedi Passano, I novellieri italiani in prosa, Torino, 1878, 11,702-705; Papanti, Catalogo dei novellieri italiani in prosa, Livorno, 1871, voi. II, pp. 80-82; Zambrini, Op. volg. e st.\ coli. 933-35 e Append., 144. § 9 XLII NOVELLE DI GIOVANNI SERGAMBI « Voi non leggerete nella presente edizione alcuna delle novelle « che si trova imbrattata di oscenità e di laidezze, abbenchè posta « per lo più in bocca di gente che porta cherca o cocolla, e ab- « benché l'autore protestisi in più di un luogo un cristianello « buono e morigerato. Non vi dissimulo che tali novelle appunto, « sì per la condotta che per la sposizione, starebbero in cima a « tutte; ma io so quale è il debito che mi corre e so a chi in- « dirizzo questo libro, ne intorno a ciò servirà parlar di van- « taggio » (1). L' esempio dato dal Gamba e l'autorità sua , il giusto timore che le novelle lubriche del Sercambi potessero dar luogo a pubblicazioni popolari malsane , destinate a servire di pascolo agli istinti più ignobili, condizioni particolari di famiglia, che qui non è il caso di esporre, fecero in modo che il prezioso cimelio della biblioteca Trivulzio, che unico ci conserva i rac- conti del novelliere toscano, non venisse mai concesso agli studiosi, che ripetutamente e con le maggiori insistenze ne fecero richiesta. Ma questa riluttanza non era illiberalità, e chiunque , come me, ha avuto l'onore di profittare a varie riprese di quella splendida raccolta di rarità d'ogni genere che è la Trivulziana, può e deve aifermarlo e ripeterlo. La Eccellenza del principe ^ian^iacomo Tri- vulzio ha voluto oggi dimostrarlo novamente, mettendo il codice del Sercambi a mia disposizione, acciò ne traessi quel profitto che meglio mi fosse sembrato. Permetta l'illustre gentiluomo, in cui è pari la gentilezza alla nobiltà del sangue ed all'amore pei buoni studi, eh' io gliene porga qui i miei ringraziamenti più vivi , ai quali si uniranno, ne sono certo, quanti si occupano della storia nostra letteraria. Il cod. n^ 193 della biblioteca Trivulzio (Scaflf. 81, palch. 5) è un grosso cartaceo di ce. 277 e di dira. 290^X 200, scritto nel se- colo XV col brutto corsivo del tempo (2). La sòìltura veramente (1) Op. cit., pp. xii-xiii. (2) Il l'oRRo, Catalogo dei codici mss. della Trivulziana, Torino, 1884, PREFAZIONE XLIII ombile, tanto che conviene assuefarvisi per capirla, è ora più ser- rata, ora meno. In fine del codice l'inchiostro ha talora con'oso la carta. La rilegatura attuale, in pergamena non cartonata, è poste- riore al tempo cui il manoscritto rimonta. Fu probabilmente nel rilegarlo che si aggiunsero in principio ed in fine del cod. alcuni fogli bianchi. Ma già prima esso doveva aver sofferto qualche sminuimento. Infatti della tavola , con cui il cod. ha principio, sono ora mantenute solo due faccio e anch'esse in cattiva condi- zione. Nella tavola sono contrassegnate alcune novelle con un punto, e in fine si legge la seguente avvertenza: Tutte quelle che sono mimate di nero non sono da leggere in presenzia di donne da lene. Nota lettore (1). Dopo la tavola viene subito il proemio senza alcuna didascalia e dopo il proemio una canzone, di cui ci sono soltanto conservati gli ultimi 21 versi. In fondo al cod. manca una carta, la 276 (2), per cui ci è quasi totalmente sottratta la novella 154. Il cod. finisce frammentariamente, della nov. 155 v'è solo il principio ; ma non abbiamo ragione di ritenere che alcuna novella, oltre a questa, sia andata perduta, giacché con essa ter- mina anche la tavola, che è senza dubbio scritta dalla medesima mano che stese il codice. Oltre le novelle 154 e 155, che sono frammentarie per mancamento di carte, è frammentaria anche la 19 (e. 36 t;.), della quale manca il principio, che fu lasciato in p. 406, lo fa del sec. XIV; ma è un errore. Già il Gamba {Op. cit., p. x) aveva scritto: « La forma de' suoi caratteri e quella delle sue abbreviature, « la qualità della carta, e i modi tenuti dallo scrittore nella ortografia, non « lasciano dubbio che non sia stato eseguito in Toscana, durante il sec. XV ». (1) Questa onesta nota ha fatto cadere il Gamba in un curioso equi- voco. Per dimostrare che il ms. non è autografo, egli dice (Op. cif., pp. x-xi): « Una prova incontestabile che sia copia questo vostro codice bassi in una « nota posta in calce dell' indice, nella quale si accenna a miniature ag- « giunte a fregi del libro, che nel vostro esemplare non sono ». Dal con- testo della nota risulta invece chiarissimo che il copista chiamava miniate le novelle, i cui titoli aveva contrassegnati. (2) 0 forse due, 276 e 277, giacché nella tavola l'ultima novella è asse- gnata a e. 278. Nell'ultima carta è attualmente sparita la numerazione. \y XLIV NOVELLE DI GIOVANNI SERGAMBl bianco non si sa perchè, probabilmente perchè il trascrittore non capì in quel luogo il carattere del testo che esemplava. Questa deve anche essere la ragione per cui in alcune novelle trovansi delle lacune, che in genere non impediscono la intelligenza del testo. E anche da ciò dovettero dipendere gli spessi abbagli, che il tra- scrittore prese, abbagli che risultano in alcuni posti evidenti. 'Talvolta ho fondato motivo di ritenere che il copista saltasse eziandio qualche riga dell'originale; e questa deve essere la causa della assoluta mancanza di senso in alcuni punti. Infatti il ms. serba le traccio della maggiore sbadataggine. Vi è pochissima conseguenza nella grafia ; i nomi propri sono una vera croce, giacché compaiono in cento forme diverse. Ecco pertanto l'ordine che hanno le novelle nel codice e le carte in cui si trovano. Proemio .... e. Ir. 1. De sapientia .... » 4r. 2. De simplicitate » Ir. 3. De malvagitate et malitia . » 8r. 4. De magna prudentia . » 9r. 5. De summa justitia >> 13 r. 6. De justitia et crudeltà » 13 «. 7. De transformatione natiirae » 14 V. 8. De simpUci jiivane » 18 r. 9. De altro et simplici mercadante » 19 t>. 10. De vitto lussurie in prelati >> 21 r. 11. De vituperio pietatis . >> 23 w. 12. De muliere volubili » 24 w. 13. De ìnuliere adultera . >> 25 r. 14. De bono fatto >> 27 V. 15. De ventura in matto . >> 31 r. 16. De tristitia et viltate . » 33 w. 17. De periciilo in amore . )> 34 r. 18. De novo modo furandi » 35 r. 19. Di questa novella manca nel cod. il titolo e il piiiicipio, cioè due terzi di pagina, che sono lasciati in bianco » 36 «. 20. De furto extra natura » 37 t). 21. De falsario .... » 38». 22. De inr/anno e falsitate » 41 r. 23. De summa nvaritin » 42 V. 24. De simplicitate et stultitia . » 44 r. 25. De placibili sententia . » 45 V. PREFAZIONE XLV 26. De sententia vera e. 46 r. 27. De pillerà responsione » 46 u. 28. De astuzia in juvano .... » 47 r. 29. De inganno » 50 V. 30. De libidine » 52 r. 31. De avaritia e lussuria .... » 53». 32. De prudentia et castitate . » 55 r. 33. De vana lussuria . . - . » 56 17. 34. De novo inganno » 59 u. 35. De malitia et prudentia » 61 r. 36. De turpi tradimento .... » 62 u. 37. De maiitia in juvano .... » 63 V. 38. » 65 r. 39. De vera amicitia et charitate » 67 r. 40. » 10 V. 41. De puritade » 71 V. 42. De castitade » 12 r. 43. De re publica » 13 r. 44. De re publica » 13 V. 45. De lealtate y> Ur. 46. De falso pergiurio .... » 74 r. 47. De amore et crudeltate » 75 V. 48. De recto amore et giusta vendetta . » 76 r. 49. De prudentia in consiliis . » 11 r. 50. De falsitate mulieris .... » 19 r. 51. De ipocriti et frauda.tores . » 82 r. 52. De pigritia » 83 t>. 53. De placibili loquela .... » 84 r. 54. De falsitate et tradimento . )> 85 r. 55. De sapientia et vero judicio » 87 r. 56. De natura femminili .... » 88 r. 57. De pulcra et magna sapientia . » 89 u. 58. De bona responsione .... » 91 V. 59. De disonesto adulterio et bono Consilio » 92 y. 60. De superbia contro rem sacrata » 94 r. 61. De competenti Consilio de adultera . » 97 r. 62. » 98 V. 63. De meretricis et jiisto juditio » 100 r. 64. » 101 r. 65. De nova malitia in tiranno » 103 r. 66. De ebrietate et golositate in prelato . » 104 r. 67. De smemoragine prelati » 104 u. 68. De doctrina data a puero . » 105 r. 69. De vidua libidinosa .... » 106 u. 70. » 107 V. 71. De justa responsione .... » 108 «. XI.VI NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI 7-2. De presuntione stulti. e. llOr. 73. De amicitia provata » IH r. 74. De competenti misura » 112 u. 75. De vituperio mtdieris » 113 V. 76. De vituperio fatto per stipendiari .... » 115 V. 77. De simplicitate viri et uxoris » 116 V. 78. De muliere adultera et tristitia viri » 118 r. 79. De bona providentia cantra Vomicida » 119 r. 80. De disonesta juvana et equali corretione » 120 r. 81. De devotione in santo Juliano » 122 r. 82. De crudeltà massima » 124 r 83. De bona providentia ' » 124 V. 84. De bona fortuna in aversitate » 126 «. 85. De magtianimitate mulieris et bona ventura ju vani » 127 V. 86. De periculo in itinere » 130 r. 87. De rasonabili dominio et bona justitia . » 131 V 88. De latrones et bona justitia » 132 V 89. De malitia hospitatoris » 133 V. 90. De falsatores et bona justitia ..... » 135 r. 91. De massimo furto » 136 r 92. De restauro fatto per fortuna » 137 t? 93. De malvagitate ipocriti » 139 r 94. De malitia in inganno » 141 r 95. De cieco amore » 142 r 96. De cattivitate stipendiari » 144 r 97. De viltate » 145 V 98. De falsitate mulieris » 147 r 99. De malitia hominis » 149 V 100. De subita inalitia in m,uliere ..... » 151 u 101. De m,ala corretione » 153 r 102. De avaritia m,agna » 155 r. 103. De inganno in amore » 157 r 104. De invidia » 158 r 105. De lungo inganno » 159 V 106. De malitia m,ulieris adultera » 162 r 107. De presuntuosi » 164 V 108. De somma golositate » 166 r 109. De magna golositate » 167 r HO. De prelato adultero » 168 V 111. De justo juditio » 170 u 112. De avaro y 173 « 113. De pompa bestiale » 175 r 114. De mala custodia » 176 V 115. De pigritia » 177 w 116. De pessima malitia in prelato » 180 r. 117. De nemico inconciliato ne confìdetur » 181 r. PREFAZIONE XLVII 118. De ingenio mulieris adultera . 119. De disonesto famulo . 120. De pulcra responsione 121. De apetito canino et non temperato 122. De inganno placibili . 123. De disperato doìninio 124. De mala fiducia d'inimici 125. De tradimento fatto per monacum 126. De malitia ìnulieris adultera et simile malitia viri 127. Senza titolo .... 128. De pauco sentimento in juvano 129. De 'magna gelosia 130. De juvano futtili in amore 131. De prava amicitia 132. De malvagio famulo . 133. De perfetta societate . 134. De prava amicitia vel societate 135. De tiranno ingrato 136. De summa ingratitudine . 137. De malitia mulieris adultera . 138. De summa et justa venditta de ingrato 139. De bona et justa fortuna . 140. De romito adultero et inganno 141. De bona ventura 142. De geloso et muliere m,alitiosa 143. De placibili furto unius mulieris 144. De massima ingratitudine 145. De modo jìlacibili 146. De falsatore .... 147. De justo matrimonio . 148. De subito amore acceso in muliere 149. De novo ludo .... 150. De inganno in amore 151. De muliere valunterosa in libidine 152. De muliere costante . 153. De pauca sapientia viri cantra m,ulierem 154. De falsitate juvini 155. De pauco sentimento domini e. 182 r. » 188 r. » 190 r. » 191 r. » 193 r. y> 195 V. » 197 v. » 199 r. » 201 V. » 203 V. » 205 r. » 207 V. V 209 r. » 211 r. y> 214 V. » 216 V. » 218 V. » 220 V. » 224 r. » 226 r. » 228 r. » 230 r. » 239 V. » 241 r. » 245 V. » 247 r. » 252 r. » 254 V. » 255 V. p 257 r. » 259 V. » 262 r. » 264 u. » 266 v. » 269 V. » 273 V. » 275 w. » 277 r. Le novelle sono dunque 155 e non 156, come dopo il Gamba ri- peterono tutti. Il Gamba ha evidentemente computato come no- vella anche il proemio. Da quanto ho detto risulta che il cod. Trivulziano è ben lungi dall'essere un ideale di correttezza. Il Gamba tuttavia, giusta- / XLVIII NOVELLE DI GIOVANNI SERGAMBI mente valutandone la grande inaportanza, pensò di farne fare una trascrizione, che agevolasse la lettura delle novelle ai meno pra- tici di scritture antiche. La copia da lui fatta eseguire trovasi pure in Trivulziana, divisa in due codici, che hanno i n^ 194 e 195, e preceduta da alcune osservazioni del Gamba, che concor- dano quasi compiutamente con quelle della lettera proemiale man- data innanzi alla sua edizione del 1816. Questa copia, sotto l'ap- parenza di una scrupolosità diplomatica eccessiva, ha mende non piccole. Il copista deve aver trascritto materialmente senza curarsi di capire; quindi ha preso dei granchi colossali, che contribuiscono a rendere alcune volte il testo, di per se oscuro, incomprensibile. Non di rado gli avvenne di saltare, non soltanto parole, ma incisi e righe intere. Della poca fedeltà di questa copia e quindi della edizione delle venti novelle , che è condotta su di essa, ebbe ad accorgersi poi il Gamba medesimo ed a confessarlo (1). Il che non toglie che, in mancanza di meglio, tutte le novelle non rica- vate dalla Cronaca, che sino ad oggi si conoscevano, all' infuori forse di quelle del Ghiron, rimontino alla copia predetta , e non già al ms. antico. Il D'Ancona in parecchi luoghi dovette confes- sare che il testo non correva: il Gamba, siccome era l'uso de' tempi suoi, non si peritò di porvi dentro le mani per raddrizzarlo a suo modo. Per quanto almeno è dato di affermare assolutamente in simili bisogne, il cod. Trivulziano 193 è l'unico antico delle novelle del Sercambi che sia pervenuto sino a noi. Se potè nascere la speranza di rintracciarne un secondo, essa non durò certamente a lungo. Ma un qualche fondamento alla speranza era pur dato dalla notizia che si ha di un secondo manoscritto, il ms. Baroni. (1) Cfr. quanto dice nella sua Bibliografia delle novelle italiane in prosa, Venezia, 1833, p. 54 e poi nei Testi di lingua, Venezia, 1839, p. 351, n" 1153. Vedansi anclie i risultati che ha dato la collazione col testo antico praticato per la novella De justa responsione, in Papanti, Dante, pp. 67 sgg. e 72. PREFAZIONE XLIX Bernardino Baroni fu uno di quelli immensi eruditi del secolo passato, che raccoglievano patrie memorie per tutta la vita, scri- vevano volumi su volumi e non pubblicavano nulla o quasi. Gli ottant'anni abbondanti (1694-1781), che gli furono concessi, egli impiegò tutti a vantaggio della storia lucchese. Aveva una libreria cospicua, ricca di parecchie migliaia di libri e di numerosi mano- scritti (1). Tra questi ve n'era uno che conteneva le novelle del Sercambi, di cui ci dà notizia il Baroni medesimo in una nota alle mss. Memorie degli scrittori e letterati lucchesi di A. P. Berti. Quivi così si esprime a proposito del Sercambi: « Oltre queste « (cioè le cronache) scrisse ancora ad imitazione del Decameron j « del Boccaccio cento novelle, raccontate da una brigata di uomini ! « e di donne, quali per fuggire la pestilenza che era in Lucca, ì '' 'noi conosciamo interamente, si vede manifesto l'influsso che sullo scrittore lucchese esercitò il Boccaccio. Non parlo della occasione del libro, della cornice tutta l)occaccesca; ma il Sercambi ha fatto proprie parecchie novelle del Decameron e talora le ha trascritte quasi alla lettera. La nov. 52 (Gamba, XIX) è quasi una trascri- zione di quella del re di Cipro trafitto da una donna di Guascogna (1) Gfr. Leandro Alherti, Isole appartenenti alla Italia, Venezia, 1588, pp. 99-100. La industria dei vetri, che rimontava a Venezia alla più aUa antichità, si spostò particolarmente verso Murano dopoché nel 1291 si proibi- rono i forni vetrari nella città, forse per paura degli incendi. A Murano peraltro esistevano già dei forni nel 1255 e nel sec. XIV i vetrai erano co- stituiti in corporazione. Ivi ebbero il massimo incoraggiamento per parte del governo, finché il 15 marzo l;i83 il Senato emanava una logge ut ars tam nobilis stet et permaneat in loco Murianii. Vedi la bella monografia di V. Lazari, Les verreries de Murano, in Gazette des beaux arts, voi. XI, 1861, a pp. :ì22-23. PREFAZIONE LIX (Decam., I, 9) ; la nov, 92 (Gamba, XIV) è un rifacimento della novella di Landolfo Eiiffolo (Demm., II, 4) ; la nov. 145 (Gamba, VII) è quella della Nonna de' Pulci {Decani., VI, 3); la nov. 142 0 ^^Jf^" (Gamba, Vili) è, dalla chiusa in fuori, quella di Tofano e della -x-^pj^^ ^■ Ghita {Decain., VII, 4); la nov. 120 (D'Ancona, X) corrisponde a i^^c^-^iiii^ ' quella di madonna Oretta {Decani., VI, 1); la nov. 81 riferisce la ^^^ ^ leggenda di S. Giuliano ospitaliere e della protezione da lui con- A-*.-^'^*^^' 'T cessa ai viandanti, quale è nel Decani., II, 2 (1); la nov. 99 è Ti/*^*^ quella di Masetto da Lamporecchio {Decani., Ili, 1); la nov. 103 A^fi-c:5< Supprema hominum ludicia quibus et anime subfragiis et teraporalis cure patrimonij post vite presentis exitum providetur etiam languente corpore dum tamen in mente presideat ractio legitime disponitur bine est Quod discretus et prudens ac Egregius vir lohannes quondam lacobi eer Cambij speciarius lucanus civis eger corpore tamen Sue mentis compos et sobrius recte et articulate loquens ludicium dei tiraens Nolensque intestatus dece- dere bonorum suorum dispositionem per suum nuncupativum testamentum sine scriptis in hunc modum facere procuravit videlicet,^ In primis quandocumque Eum mori contigerit Recomraendavit devotissime animam et spiritum eius omnipotenti deo Supplicans humilime prò remis- sione peccatorum Suorum et sue anime salute perpetua Corpus vero Suum voluit et mandavit sepelliri debere in Ecclesia Sancti Macthei lucane civitatis et quod in dieta Ecclesia ubi eius corpus erit sepultum voluit et mandavit quod per eius esequtores et buius sui testamenti expensis suorum heredum fiat unum sepulcrum cum uno lapide marmoreo supra Eum absque aliqua condictione et aliqua mercede inde solvenda alicui rectori diete Ecclesie Sed in casu quo Sic permictatur tunc et in dictum casum ludicavit et reliquit opere Ecclesie Sancti Macthei predicti florenos viginti et aliter non. Et in casu quo non permicteretur dictum corpus sepelliri in dieta Ecclesia et dictum sepulcrum fieri (absque aliqua mercede ut dictum est) tunc et eo casu voluit et mandavit sepelliri in sepolcro confratrum disciplinatorum Sancte Marie della Roza et ibi suam sepulturam elegit quod sepulcrum est con- structum in Ecclesia Sancte Marie della Roza et voluit et mandavit, eius corpus vestiri veste dictorum disciplinatorum et cum ea humari que vestis voluit et mandavit fieri expensis eius heredum. UnxiEK, Xovf.lle di G. Sercumht. v* LXVIII NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI Item Amore dei et prò salute anime Sue voluit et mandavit dari et ero- gari omnibus confratribus dictorum disciplinatorum qui confluent seu venient induti vestes diete sotietatis ad honorandum corpus dicti lohannis tempore eius exequiarum candelos cereos. Scilicet cuilibet eorum unum ponderis unciarum sex. Item Amore dei et prò salute anime sue ludicavit et Reliquit sotietati dictorum disciplinatorum quactuor cereos ponderis librarum vigintiquactuor inter omnes et voluit quod tempore dictarum exequiarum dicti cerei in astis diete sotietatis portentur accensi circa corpus predictum deinde debeant permanere in dieta Sotietate prò accendendo et inluminando corpus domini quando elevabitur in dieta Sotietate et oratorio diete Sotietatis. Item dictus lohannes testa tor voluit et mandavit quod quinque annis inci- piendis die Sui obitus et finiendis ut sequitur eius heredes et exequtores infrascripti faciant dici et celebrari quolibet Anno in die mortuorum unam missam in qualibet infrascriptarum Ecclesiarum Scilicet mortuorum et voluit dari et erogari cuilibet Sacerdoti qui sic dicent ad requisictionem dictorum heredum et exequtorum dieta die sex candelos foratos ponderis unciarum sex prò quolibet et libras sex candellarum de cera et voluit quod ad dictam missam retineantur accensi. Et ultra predicta voluit dari et ero- gari cuilibet presbitero seu sacerdoti dicenti dictam missam solidos viginti parvorum que Ecclesie in quibus voluit dici diete misse sunt hec videlicet Ecclesia Sancti Macthei de Luca. Ecclesia Sancte Marie della Roza. Ecclesia Sancti Georgij. Ecclesia Sancti Donati extra portam. Ecclesia Sancti Augu- stinì. Ecclesia Sancti Francisci. Ecclesia Sancti Pieri de Fibbialla. Ecclesia Sancti Andree de massagroza. Item prefatus lohannes testator amore dei et prò elemozina ludicavit et reliquit sotietati confratrum disciplinatorum Sancte Marie della Roza de luca florenos quactuor quolibet anno usque in quinque annis inclusive incipiendo die obitus sui quos quolibet anno voluit dari diete sotietati die lovis sancti prò expendendo in cena domini in dieta Sotietate et oratorio ipsius et re- fectione confratrum predietorum vel aliter prout dictis confratribus vide- bitur expendi. Item Amore dei et prò salute anime Sue et suorum mortuorum Iure legati de bonis suis ludicavit et reliquit infraseriptis Operis infrascriptarum Eccle- siarum infrascriptos cereos, infrascriptorum ponderum prò tenendo ad illu- minandum corpus domini quando elevabitur in ipsis Ecclesiis Videlicet. Opere Ecclesie Sancti Donati extra portam lucane civitatis duos cereos ponderis librarum decem. Opere Ecclesie Sancti Peregrini lucane civitatis duos cereos ponderis li- brarum decem. Opere Ecclesie Sancti Georgij duos cereos ponderis librarum decem. Opere Ecclesie Sancti Macthei cereos quactuor ponderis librarum viginti. Opere Ecclesie Sancti AUessandri majoris duos cereos ponderis librarum decem. Opere Ecclesie Sancti Sentii duos cereos ponderis librarum decem. Opere Ecclesie Sancti Ghristofori duos cereos ponderis librarum decem. DOCU.MENTO LXIX Opere et fabrice fratrum Sancii Francisci cereos quactuor ponderis li- hrarum viginti. Opere et fabrice Ecclesie Sancte Marie Servorum de luca cereos duos librarum decem. Opere et fabrice Sancte Marie carmelitarum de luca duos cereos librarum decem. Opere et fabrice Ecclesie fratrum Sancti PauJi de luca duos cereos ponderis librarum decem. Opere et fabrice Ecclesie Sancti Augustini de luca quactuor cereos pon- deris librarum viginti. Opere et fabrice Ecclesie Sancti Dominici fratrum predicatorum duos cereos ponderis librarum decem. Opere et fabrice Sancti Ponthiani duos cereos ponderis librarum decem. Opere Ecclesie de fibbialla quactuor cereos ponderis librarum viginti. Opere Ecclesie Sancti lacobi de massagroza quactuor cereos ponderis li- brarum viginti. Opere Ecclesie Sancti Pantaleonis de plebe ylicis duos cereos ponderis librarum decem. Opere Ecclesie Sancti Martini de petra sancta duos cereos ponderis librarum decem et Opere sancte Crucis de luca quactuor cereos ponderis librarum viginti. Item Amore dei et prò salute anime Sue et ob Reverentiam sancti lacobi apostoli voluit et mandavit prefatus lohannes testator quod intra duos Annos numerandos a die obitus sui mictatur unus ad vizitandum limina Sancti lacobi apostoli de gallisia cui voluit dari de suis bonis ipsius testatoris prò eius labore et prò expensis florenos viginti quinque. Item prefatus testator Amore dei et prò salute anime sue voluit et man- davit quod intra duos annos numerandos a die obitus sui mictatur unus Romam ad vizitandum loca Sancta ibidem existentia cui voluit et mandavit dari de suis bonis ipsius testatoris prò eius labore et prò expensis florenos decem. Item prefatus lohannes testator Iure legati ludicavit et Reliquit Domine Beatrici ipsius testatoris nepti et filie olim Bartholomei lacobi S. Cambij de Luca et uxori Tegrini quondam Ser Guillelmi Sabolini de luca duas suas ipsius testatoris domos sitas retro domos magnas ipsius et ubi habitat vide- licet legavit domum angularem que coheret a parte orientis curie dicti lohannis a meridie domui dicti lohannis et ipsam domum coherentem diete domui a septetmtrione et occidente curie dictorum filiorum alcherij vel si aliter confinetur et sunt posita luce seu aliter confinentur Gum hoc onere et condictione quod diete due domus In totum vel in partem non possint vendi alienari donari vel Insolutum adhipisci seu obligari alicui seu ali- quibus contra voluntatem Suorum heredum nisi ipsis heredibus et in casu quo dictis condictionibus et oneribus contra fieret voluit et mandavit quod presens legatum Evanescat et locum non habeat et ex nunc ipsum cassavit et revocavit In totum Et similiter cum dictis oneribus et condictio- nibus ludicavit et reliquit diete domine Beatrici terras possessiones et bona LXX NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI ipsius lohannis testatoris sita in comuni Gorsanici vicarie camajoris sub quibuscumque confinibus locis mensuris et qualitatibus reperiantur quos liceat mihi notario apponere et describere ad omnem mei voluntatem et prò ap- positis et descriptis haberi voluit et mandavit et sic prefatus testator mihi notario licentiam et parabolam dedit et concessit. Item prefatus Johannes testator Iure legati ludicavit et reliquit dominabus Beatrici Macthee et lohanne eius neptibus filiabus olim Bartholomei quondam lacobi Ser Cambi] in casu viduitatis ipsarum vel alicuius Earum ipsi tali vidue et viduis toto tempore viduitatis Redditum et habiturium in domo dicti testatoris que sibi ut dixit obvenit ex hereditate olim magistri Gilij Ser Gambij de luca que domus est sita in contrata Sancti Macthei Lucane civi- tatis cuius confines liceat mihi declarare et sic licentiam et parabolam michi dedit et concessit ad omnem petitionem et voluntatem predictarum dominarum vel alicuius earum. Item Cum nichil sit stabile sub sole et volens dictus lohannes testator providere quantum sibi possibile est ne diete domine Beatrix Macthea et lohanna vadant querendo aliena Suffragia vel aliqua Earum vadat Ideo ipse testator voluit et mandavit quod in casu quo predicte domine Rema- nerent vidue vel aliqua earum vidua remaneret Et prò duabus partibus amisisset dotes suas seu amisissent tunc in dictis casibus voluit quod illa talis sic vidua et dotes amiserit prò dictis duabus partibus habeat et habere debeat ab heredibus ipsius testatoris et super bonis suis victum et vestitum secundum facultatem eius hereditatis toto tempore eius viduytatis vivendo bene et honeste et non aliter Et sic in dictis casibus dictum victum et vestitum toto dicto tempore ludicavit et legavit eisdem suis neptibus. Item prefatus lohannes testator voluit et mandavit quod in casu quo Tho- muccius lohannetti de massagroza seu eius heredes vellent intra unum Annum numerandum a die mortis ipsius testatoris Emere ab heredibus ipsius testa- toris terras quas ipse lohannes emit ab ipso Thomuccio et patre suo prò tot denariis quot ipse lohannes expendidit in eisdem (ut dixit apparere per Instrumentum emptionis et ipsos denarios solvat) et affictum debitum re- tentum et non solutum reddat et solvat dictis heredibus (tunc et eo casu dicti heredes eius teneantur eidem Thomuccio vel eius heredibus vendere dictas terras Et in casu predicto amore dei dictus lohannnes testator de dicto pretio ludicavit et reliquit dicto Thomuccio et heredibus llorenos viginti. Item prefatus lohannes testator voluit et mandavit quod in casu quo Gui- duccius Pieri de massagroza vel eius heredes vellet seu vellent intra unum Annum numerandum a die mortis ipsius testatoris et finiendum ut sequitur emere ab heredibus ipsius testatoris terram seu terras quam seu quas ipse Guiduccius vendidit dicto lolianni prò simili pretio solvendo et reddendo ctiam integraliter affictum diete terre seu terrarum tunc et eo casu voluit dictus lohannes quod vendatur seu vendantur per eius heredes dicto Gui- duccio tunc et eo casu ludicavit et Reliquit dictus lohannes de dicto pretio cidcm Guiduccio florenos decem. Item prefatus lohannes testator amore dei et prò salute anime Sue Iure DOCUMENTO LXXl legati ludicavit et reliquit pauperibus domicellis nubilibus florenos centum dandos et rogandos per dictos eius heredes intra daos Annos inchoandos die mortis ipsius illi et illis prout eis videbitur et placebit in parvo et magno numero prout eis videbitur et placebit. Ita quod noluit quod dicti heredes valeant astringi ad solvendum dictam quantitatem florenorum centum vel Residuum quod restarent nisi elapsis dictis duobus Annis. Item prefatus lohannes testator amore dei et prò salute anime Sue voluit et mandavit dari et distribui intra duos annos incohandos die obitus ipsius testatoris pauperibus personis habitantibus in terra massagroze pannuni al- bagium extimationis et valoris in totum florenorum Triginta et pauperibus personis habitantDaus in terra fibbialle pannum albagium valoris florenorum viginti Ita quod intotum voluit quod ematur tanta quantitas panni albagij que valeat florenos quinquaginta et voluit dari et distribui prout videbitur eius heredibus et fideycommissariis et placebit Et prohibuit quod dicti eius heredes non possint astringi ad faciendum dictam distributionem nisi elapsis dictis duobus annis. Item prefatus lohannes testator prò veritatis manifestatione stipulatione solemni dixit et confessus fuit michi Dominico notarlo infrascripto ut per- sone publice officio publico presenti recipienti et stipulanti prò Domina Pina uxore dicti lohannis et Alia Gyomey quondam (1) de fibbialla et eius vice et nomine quod ipse habuit in dotem prò dote et nomine dotis ipsius Domine Pine multas quantitates terrarum et possessionum prediorum in una parte. Et quod de dictis terris vendidit tot et tantas pluribus et diversis personis manu plurium et diversorum notariorum ex quibus percepit florenos Octingentos et habuit de predictis prediis dotalibus et sic verum esse lu- ravit ad Sancta dei Evangelia tactis corporaliter scripturis in manibus mei notarij quos florenos Octingentos voluit et mandavit quod eius heredes sibi reddant et restituant sive in denariis sive arnensibus vel possessionibus ad omnera ipsius Domine Pine petitionem requisitionem et voluntatem et eos florenos Octingentos eidem Domine Pine iudicavit et Reliquit. Item prefatus lohannes testator dixit et stipulatione solemni confessus fuit mihi notarlo ut supra recipienti et stipulanti prò dieta Domina Pina et eius vice et nomine Quod medietas integra prò Indiviso terrarum et possessionum ac prediorum descriptorum et descriptorum in libro dicti lohannis ubi scripte sunt possessiones qui liber est Signatus >^ et apparent esse et fuisse empte per Gioneum patrera diete Domine Pine ac etiam apparent sibi obvenisse in parteni seu portionem a fratribus suis pertinet et spectat ad dictam Do- minam Pinam Et sic verum esse luravit ad Sancta dei Evangelia tactis corporaliter scripturis Quapropter dedit et concessit eidem domine Pine plenam llcentiam et auctoritatem et mihi notarlo ut supra recipienti et stipulanti prò ea dictas terras prò ipsa dimidia propria auctoritate et sine alterius ludicis vel oflìcialis auctoritate licentia vel decreto et proclamatione (1) Ciomeo di Betto Campori, secondo altro documento, veduto dal 3I«utoli, Op. cit. pag. IX. LXXII NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI dictorum heredum ac alterius persone intrandi apprehendendi et retinendi possessionem corporalem et eam dominarti Pinam in Dominam diete dimidie nomina^'it Et prohibuit ipsius testatoris heredibus ut aliquam molestiam non inferant diete domine Pine de dieta dimidia nec volenti inferro consentiant sed expresse contradicant. Item prefatus Johannes testator animadvertens quod domina Pina supra- scripta eius uxor semper in corde suo geret amorem circa animam ipsius testatoris et diligentiam ac caritatem habebit versus ipsius testatoris ac do- mine Pine nepotes Ideo Iure legati ludicavit et reliquit eidem domine Pine quo ad uxufructum et godimentum una cum eius heredibus toto tempore vite ipsius domine Pine ipsa vidua permanente et vitam vidualem servante et dotes suas non petierit domum seu palatium in qua seu quo nunc ipse testator et dieta domina Pina habitant sitam in centrata Sancti Macthei lucane civitatis cum omnibus arnensibus fulcimentis et guarnimentis pannis bonis et rebus in dieta domo seu palatio existentibus seu que reperientur tempore obitus dicti testatoris ad cautelam lubens volens et declarans quod dicti ipsius testatoris heredes sint uxufructuarij cum eadem Et prohibuit dictus testator in predictis omncm cautionem et promissionem de utendo et fruendo ad albitrium boni viri et quamlibet aliam cautionem cuiusque generis Et prohibuit ac remisit eidem domine Pine necessitatem conficiendi Inventarium de bonis et rebus in dieta domo existentibus et ab ipso onere Inventari.] conficiendi ipsam dominam Pinam prefatus testator liberavit et absolvit. Item prefatus lohannes testator Iure legati ludicavit et reliquit eidem Domine Pine sole ipsa vidua permanente et dotes suas non petente quo ad uxufructum et godimentum toto tempore vite ipsius domine Pine predium seu podere ipsius testatoris et omnes petias terrarum dicti testatoris perti- nentes ad dictum poderem situm in centrata sancte Anne de plageis extra portam cum omnibus suis massaritijs et hedificijs ac apparatibus Et pro- hibuit ac remisit ut supra Ac etiam dictus testator voluit et licentiam concessit diete domine Pine eundi ad Palatium ipsius testatoris situm in terra massagroze et ibidem morandi standi et habitandi ad eius beneplacidum semel et pluries et rursum et totiens quotiens voluerit et de fructibus de viridario dicti palatij prò se legendi et comedendi et exportandi absque alia prohibitione heredum vel alterius. Item prefatus lohannes testator voluit quod domine Beatrix Macthea et lohanna toto tempore Earum et cuiusque Earum vite possint et quelibet Earum possit ire stare et morari in dicto ipsius testatoris palatio sito in terra Massagroze semel et pluries et rursus et totiens quotiens voluerint vel aliqua Earum voluerit et de fructibus qui erunt in viridario dicti palatij legere prò ipsarum et cuiusque Earum consolatione absque aliqua prohibitione heredum vel alterius. Item Et Cum prefatus lohannes testator fiierit ut dixit tutor et curator olim Anthonij eius nepotis et filij olim Bartholomei lacobi Ser Gambi] de luca Et ut dixit circa dictam tutclam fucrit versatus et uxus bona et pura fide et non dolo ncque fraudo Et Cum de gestis per Eum circa dictam tu- DOCUMENTO LXXIII telam ut curarti retinuerit ut dixit computum et ractionem et de introytibus et exitubus in uno litro per ipsum deputato signato hoc signo 7^ et in Eo scripserit ut dixit mera et pura ventate Et sic verum esse luravit ad sancta Dei Evangelia tactis scripturis. Ideo prefatus lohannes testator voluit et mandavit quod in casu quo heredes dicti olim Anthonij velint adhibere plenani fidem dicto libro in omnibus Suis partibus et aprobent ipsum intotum et nil ulterius querant quam sit descriptum in dicto libro dicti heredes dicti testatoris occasione diete tutele et cure Quod tunc et eo casu ipsi heredes dicti olim Anthonij sint liberi et absoluti ab omni eo et hiis omnibus et singulis in quibus Ipse Anthonius reperiretur teneri dicto lohanni facto calculo super dicto libro de datis et receptis et similiter delegato facto per olim Bartholomeum lacobi suprascriptum dicto lohanni in eius testa- mento Et si per dictum librum reperiretur teneri dictus lohannes testator dicto Anthonio in aliquo voluit et mandavit dari solvi et restituì heredibus dicti olim Anthonij orane id in quo ipse lohannes reperiretur teneri et in casu quo heredes dicti olim Anthonij nollent seu aliquis Eorum nollet adhi- bere plenam fidem dicto libro in omnibus suis partibus et vellent inpingere ipsum lohannem fuisse versatum seu uxum circa dictam tutelam aliquo dolo seu fraude vel malitia seu negligentia vel non scripsisse pura et mera ventate in Eo libro tunc et in dictis casibus et quolibet Eorum dictus te- stator voluit et mandavit quod ab heredibus dicti olim Anthonij petatur et exigatur omne id quod restaret solvere ipse Anthonius et restituere per dictum librum facto calculo et similiter petatur et exigatur legatura pre- dictum factum per dictum Bartholomeum dicto lohanni Quia luris est qui malum sua culpa sentit sibi imputet et qui videt bonura et raalum eligit non est dignus gratie. Item prefatus lohannes testator prò veritatis manifestatione dixit et de- claravit quod in eius libris scripsit pura et mera veritate nulla mixta falsi- tate Et sic verum esse luravit ad Sancta Dei Evangelia tactis scripturis Ideo voluit et mandavit quod dictis eius libris adhibeatur piena fides tam in dando quam in recipiendo. Itera prefatus lohannes testator dixit et declaravit quod domina Marga- rita olim uxor magistri Gilij cuius domine Margarite dictus lohannes dixit se heredem legavit fratrìbus capitulo et conventui Sancti Augustini de luca florenos Triginta et nunquam fuerunt soluti Ideo voluit et mandavit quod de suis bonis ipsius testatoris dentur et solvantur dictis fratribus capitulo et conventui dictos florenos Triginta. Item dictus lohannes testator dixit quod ipse habet sotietatem in arte et exercitio spedarle cum Gabrielle Nerij de Senis lucano cive que sotietas ducitur et exercitatur in apotheca domus que olim fuit Bartholomei Vannis speciarij de luca posita in bracchio Sancte lucie versus archum. Et cum de Iure sotietas per mortem finiatur Ideo voluit et mandavit (juod post eius mortem dieta aptheca diete sotietatis et omnia bona et res eiusdem exti- mentur per duos eligendos concorditer per eiusdem lohannis heredes et dictum Gabriellem Et facta dieta extimatione voluit et mandavit quod LXXIV NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI portio dicti lohannis et ipsum tangens in dieta sotietate et apotheca ven- datur dicto Gabrielli prò ipsa existimatione in casu quo voluerit emere Et in dictum casum quo voluerit Emere et emerit seu non steterit per Eum quin non emat tunc in dictis casibus prefatus Johannes testator Iure legati ludicavit et reliquit dicto Gabrielli florenos Quadraginta de pretio diete eiusdem lohannis portionis. In omnibus autem aliis suis ipsius testatoris bonis mobilibus et immobilibus luribus et aetionibus quibuscumque tam presentibus quam futuris prefotus Johannes testator fecit Instituit et dimisit sibi universales heredes lanninum et Bartholomeum ipsius lohannis nepotes et filios olim Bartholomei lacobi Ser Gambij de Luca quos ipse lohannes ut dixit legiptimavit ut dixit con- tineri pubblico Instrumento manu Ser Laurentij Nucciorini Notarij de luca descripto quos lanninum et Bartholomeum fratres voluit dictus lohannes quod sibi subcedant Equalibus portionibus. Exequtores et fideycommissarios suos et huius sui testamenti et ultime voluntatis et contentorum in Eo et Ea prefatus lohannes testator fecit con- stituit et ordinavit dominam Pinam eius uxorem. Ser Marcum quondam Martini de luca notarium. lanninum et Bartholomeum fratres filios quondam Bartholomei Ser Gambij et queralibet Eorum eum auctoritate potestate et baylia quod dieta domina Pina eum uno ipsorum quem voluerit possit omnia suprascripta ludicia et legata exequtioni mandare et alia facere que ad dictum offieium spectant. Et in casu mortis ipsius domine Pine duo ipsorum tertio inscio et inrequisito possint omnia predicta facere et executioni man- dare in officio et prò officio dicti fideycommissariatus et sine ipsa domina Pina ipsa vivente nil fieri geri aut exequtioni mandari possit vel debeat quibus fideycommissariis et executoribus modo forma et baylia preditis dedit et concessit plenum liberum et generale mandatum ac speciale ubi et quotiens speciale exigeretur vel necesse fuerit eum piena libera et generali admini- stratione ac etiam speciale ubi et quotiens specialis exigeretur vel necesse fuerit. Et hanc dictus lohannes testator dixit et asseruit esse et esse velie suam ultimam voluntatem et suorum honorum disposictionem quam et que omnia et singula suprascripta et infrascripta valere voluit disposuit et mandavit Iure et vigore testamenti quodque si aliqua causa presenti vel futura Iure testamenti non valet vel valebit valere voluit disposuit et mandavit Iure et vigore codicillorum quodque si aliqua causa presenti vel futuro Iure codicillorum non valet vel valebit valere voluit disposuit et mandavit et robur firmi tatis habere omni alia via Iure et modo quibus melius ul- time defunetorum voluntates valere possunt vel tenere. Et prohibuit in prodi ctis Et quolibet Eorum legcm falcidiam et trebeliianam et quamlibet aliam legem lus et statutum que vel quod predictis vel alieni Eorum modo aliqiio obstare voi preiudicare possit Gassans eancellans et revocans omne aliud testamentum eodicillos et aliam ultimam voluntatem quamlibet per Eum abbine retro quomodolibet factum vel conditum manu tam Ser lannini Nocchi quam quorumeumque notariorum vel alterius et sub quibuscumque datalibus et verbis arrogatoriis seu derogatoriis facta reperiantur quorum DOCUMENTO LXXV verboruin dixit se penitere et noluit quod huic suo testamento vel ultime voluntati possint preiudicare vel obstare Et Rogavit dictus lohannes testator me Dominicum notarium infrascriptum ut de predictis omnibus conficerem publicum Instrumentum Actum luce in domo seu palatio habitationis dicti lohannis posita in contrata Sancii INIacthei Coram Urbano quondam Franchi de monte claro mercatore lucano cive Anthonio quondam locti de piastra olim pannarlo Bartholomeo quondam Nannis Pieri calthajolo et Francischo quondam henrici Giomucchi stiviliario omnibus licanis civibus testibus ad hec rogatis et vocatis Anno Nativitatis Domini Millesimo quadringentesimo vigesimoquarto Indictione Secunda die vigesimo primo mensis februarij. Ego Dominicus quondam henrici notarius suprascri- ptus de luca hec publice rogatus scripsi. NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI Benieb, Vovelle di G. Sercambi. PROEMIO Lo sommo e potente Dio, dal. quale tutti i beni derivano, ha la natura umana creata e fatta a sua somiglianza (1) acciò che tale umana natura la celestiale corte debbia possedere, se di peccato non è ripiena ; et quando per follia dessa del celeste pa- radiso è privata, non se ne de' dare la colpa se non ad essa umana natura et simile se gli dae di veritade per li nostri pec- cati commissi. Perocché moltissime volte s'è veduto per li nostri peccati Iddio avere conceduto alli spiriti angelichi et maligni podestà sopra di molti et a' corpi celesti, li quali mediante la potenzia di Dio hanno a guidare et condurre i corpi di sotto, cioè noi, e tutte le piante et bestie con tutte le cose demen- tate. Et spesso per alcuni peccati commissi è venuto fuoco et acque et sangue dal cielo per purgare et punire li malifattori, et molte città e paesi sommersi et arsi. Et di tutti i segni quali in nelle scritture antiche si trovano scritti e di quelli che tut- todì si veggono neuno ne vuole prendere esemplo, et non che da' vizii si vogliano astenere, ma con ogni sollecitudine s' inge- gnano con quanti modi sanno di fare male, et chi fare noi può insegna ad altri il modo di farlo. Et per questo modo quella creatura che Dio più fé" beata e che a sua similitudine la creò, (1) Ms.: ella naliira humana creata e fatta da lui a sua somiglianza. 7 4 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI più vituperosamente da Dio si parte. Et pertanto non è da me- ravigliarsi se alcuna volta la natura umana paté afllizioni di guerre e pestilenzie, fame, incendi, rubarie et storsioni, che se ^*^ da' peccati s'astenesse. Iddio le dare' quel bene che ha promesso, cioè in questo mondo ogni grazia et nell'altro la sua gloria. Ma perchè la natura umana al contrario del bene s'accosta et quello segue, ha disposto la potenzia di Dio mandare di que' segni che mandò a Faraone, acciò che partendoci da' vizii ci amendiamo. ^ Et noi duri et indurati i nostri cuori, come è_ quello di Faraone, spettando l'ultima sentenzia, in nelle pene (1) eterne ci farà col- locare. Et non è da meravigliarsi se ora in 1374 la moria è ve- nuta e neuna medicina può riparare, ne ricchezza, stato, ne altro argomento che prender si possa sia soflìciente a schifare ^ la mortOj^^altro che solo il bene, eh' è quello che da tutte pe- stilenzie scampa. Et quella è la medecina che salva l'anima e ;^ "1 corpo, et non prendendo la via di tal bene, necessaria cosa è d'andare in nella mala vita. Che accostandosi la prima (•S'ec) col malato e senza febbre la morte il giugnerà. Quine non bisogna essere gagliardo, quine non vale stato né (2) parenti che da tal colpo li possa difendere. Et essendo alquanti omini et donne, frati e preti et altri della città di Lucca, la moria e la pesti- \ lenzia nel contado, deliberarono, se piacere di Dio fusse, per alcun (3). -j et prima accostarsi con Dio [ler bene adoperare et da tutti vizii astenersi; et questo facendo la pestilenzia et li altri mali, che ora et per l'avvenire si spettano. Iddio per sua pietà da noi cesserà. Veduto adunque essi (4) omini et donne, frati et preti la pestilenzia multiplicare, prima ben disposti verso Iddio, penso- 7 roTio con un bello consenso passare tempo, tanto l'aire di Lucca fusse purificata, et per la Italia fare loro camino con ordine bello (1) Ms.: glorie. La mutazione mi parve richiesta dal senso. (2) Ms. : che. (3) Lacuna nel ms. (4) Ms. : essere. ^xJtM'4 ■4d %U PROEMIO -) et con onesti e santi modi. Et del mese di febbraio, un giorno di domenica, fatta dire una messa et tutti comunicatisi et fatto loro testamento, si raunarono in nella chiesa di Santa Maria del Corso, / parlando cose di Dio. Et levatosi in pie' uno excellentissimo omo et gran ricco nomato Aluisi, e' disse: Cari fratelli e a me maggiori, et voi care et venerabili donne, che d'ogni condizione sete qui s<; raunati per fuggire la morte del corpo et questa pestilenzia, prima che ad altro io ^■egna dirò, che poi che deliberati siemo per campare la vita et fuggire la peste, debiamo altrettanto (1) pensare di fuggire la morte dell'anima, la quale è più d'averne cara che lo corpo. Et acciò che l'uno et l'altro pericolo si fugga, è , di necessità seguire (2) la via di Dio et i suoi comandamenti, et con quelli savi modi, che si denno, guidare le nostre persone. Et questo fare non si può se prima tra noi non è persona a cui tutti portino riverenzia, obbidendolo in tutte le cose oneste, et lui come onestissimo non comandi se non cosa che sia piacere della brigata senza peccato. Et fatto questo tale, disponga il no- stro camino, la vita e '1 modo che tenere si de', s'i che senza lesione o male et senza vergogna salvi alla nostra città et alle nostre case possiamo lieti et allegri tornare, avendo lui a tutte le ore dato buoni esempli. — Ditto che Aluisi ebbe le ditte parole, subito la brigata fra loro disseno; Per certo in questa bri- gata miglior di lui non si potrebbe trovare. Et subito a vive voci disseno tutti: Noi vogliamo che Aluisi sia il preposto di questa brigata et lui preghiamo che tale officio accepti, disposti noi tutti, maschi e femmine, a obbedire il suo comandamento, i^ perocché in lui sentiamo tanta virtù, che altro che d'oneste cose ci richiederà, et per lo suo gran senno et lungo vedere sani col nome di Dio a Lucca ci condurrà. Aluisi, che ode la brigata, non potendo altro, disse: Carissimi fratelli et maggiori, et voi onestissime donne, io cognosco in questa (1) Ms.: e stando {2) Ms.: pregare. ^ )e-U/^«t«XAC • 9 6 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI brigata essere di quelli molto più savi et più intendenti et di maggior veduta di me, che tale officio farenno meglio in una ora che io in uno anno, et bene era che avesti altri eletto. Ma poi- ^ che a voi piace che io vostro preposto sia chiamato, sono pur u contento, pregando tutti che quello che comanderò sia ^obbedito. — Tutti dissero: Comandate e sarà fatto. Lo preposto disse: Prima che ad altro si vegna, bisogna che si faccia una borsa di dinari, acciò che in nelle cose necessarie siamo per li nostri dinari soccorsi. Subito misseno mani a' dinari, et fatto un monte di fiorini tre mila, in mano al preposto dati, dicendo: Quando questi saranno spesi, meltremo delli altri; lo preposto, vedendo la quantità de' dinari et la buona volontà di metter de' nuovi, disse: Omai stiamo allegri che la brigata ca- piterà bene. Avuto il preposto dinari, parlò alto dicendo : Omai che andare dobbiamo per salvare le persone, vi comando a tutti, omini e donne, mentre che abbiamo a fare il viaggio, nessuna disonesta cosa tra noi né tra altri si faccia, et quale avesse pensieri d'altro fare prima che in camino ci mettiamo si ritorni in Lucca, et se alcuno dinaro pagato avesse, vegna, che renduti gli saranno. La ])ngata, ciò udendo, rispuoseno tutti: 0 preposto, state certo che noi staremo con tanta onestà, mentre che il camino faremo, che ■i la moglie col marito né con altri userà et cosi per contrario in 1^ questo nostro viaggio non s'accosteranno per disonesto modo. Lo preposto, essendo certo che disonestà non si de' fare, or- dinò uno camarlingo leale, lo quale più tosto are' del suo messo a sostentamento della brigata, che di quel tesoro che il preposto gli diede n'avesse uno dinaro tolto. Et per questo modo la bri- gata SDcra d'esser delle necessità ben servita. Ordinalo il camarlingo, dispuose il preposlo che dui spenditori .^jfiA^jk^jtt fussero, l'uno al servigio delli omini et l'altro al servigio delle donne, et perché sempre tali offici si denno dare et attribuire a persone secondo quello che hanno a ministrare, dispuose il preposlo che al servigio delli omini fusse uno giovano spenditore, '^ ' savio et non d'avarizia jtieno, et al servigio delle donne fusse P.,i, PROEMIO uno omo di matura età e discreto in nello spendere, acciò che tutta la brigata di niente si potesse lamentare. Appresso ordinò che la mattina per alcuni de' preti della bri- gata fusse ditta la messa, alla quale volea che tutta la brigata vi fusse a udire, e la sera, senza ch'ella^vi fusse, dicesseno tutte S cJul te l'ore et compieta, acciò che loro (1) alcuna negligenza si possa y \JP^^^ imputare. "" ^ Fatto questo ordine, ordinò coloro che colli omini alla cena Z . e al desnare dovranno con diletto et canti di giostre et di mo- ralità cantare et ragionare, con alcuni ^Qmenti, et talotta colle ^ynb^ spade da schermire, per dare piacere a tutti. Et alcuni tra loro vi disputassero in nelle liberali scien^ie et questi eletti sono per 5 la brigata delli omini et prelati (2). j2. Altri ordinò che di leuti et stromenti dilettevoli, con voci piane j"" \ e basse et con voci piacevoli, canzonette d'amore et d'onestà di- cesseno alle donne. Et perchè ve n'avea d'età alcune, accasate et vidue (3), ordinò alcuni pargoletti saccenti col saltero sonare - e un salmo et una gloria, et quando s'udiva la messa, al levare (4) del nostro Signore, uno sanctus sàìictus dirsi, et per questo modo ^ volea che la mattina, quando si dicesse la messa, fusse sonato, eT i , al desnare et alla cena diversamente, secondo le condizioni delli omini, fusse lo suono, et cosi delle donne. Appresso ordinò che 5Tb (^ tali stromenti et sonanti dopo il desnare e la cena contentassero la brigata di suoni et diletto senza vanagloria, et tutto ordina- ^1 tamente misse in effetto. Dipoi, rivoltosi lo preposto alla brigata, parlando per figura / b^pJLi disse ^olui il quale senza cagióne ha di molte ingiurie soste- | ' ^fi^^vyi^ ^ nute et a lui senza colpa sono state fatte, comando che in questo ~ nostro viag«i{) debbia essere autore et fattore di questo libro et A (1) Ms. : per loro. (2) Piccola lacuna nel ms. (3) !Mi è sembrato di ricostruire cosi questo passo certo guasto nel ms., che dice: Et perche venavea date alcune oblig agone et achasata et vedue. C/^Z^ (4) Ms.: et allevare. 3 7 8 NOVELLE DI. GIOVANNI SERCAMBI di quello che ogni di gli comanderò. Et acciò che non si possa scusare che a lui per me non si sia stato per tutte le volte co- mandato et anco per levarlo, se alcuno pensiero di vendetta avesse, canterò (1) uno sonetto, in nel quale lo suo proprio nome col soprannome ritroverà. Et pertanto io comando senz' altro < dire che ogni volta io dirò: Autore, di' la tal cosa; lui senz'altro J segua (2) la mia intenzione. Et parlando alto disse : Già trovo che si die' pace Pompeo, Immaginando il grave tradimento, Omicidio crudele e violento, Volendo ciò Cesare e Tolomeo. Amò Ecuba quel reo Nativo TTAntenor il cui nome sia spento, (3) / . ^ ^ Nascoso su l'aitar con gran passione Il convertir ringraziando Deo. ^Sotto color di pace ancora Giuda El nostro salvator Cristo tradio. Radendo se di vita in morte cruda. Considerando ciò, dommi pace io. Avendo sempre l'anima mia cruda Mossa a vendetta, cancello il pensier mio. Ben dico che la lingua colla mente Insieme non diffbrma in leal gente. Et udiindo ciascuno della brigata lo sonetto piacevole et neuno potendo intendere di chi (4) il preposto parlava, salvo colui, il quale comprendendo le parole et versi del sonetto vi si trovò per nome et soprannome, senz'altro dire comprese che lui dovoa essere autore di questo libro et senz'altro parlare si stava come li altri cheto. (1) Ms.: contro^ (2) Ms.: schusa. (i) ì versi che non tornano e i non sensi e la niiiiican/.ì di rimo esatte Hono nell'originale. (4; Ma^-cAe.'' DE SAPIENTIA [Triv., no 1]. DE SAPIENTIA. Narrasi che uno mercadante della Tana nomato Aluisi, omo ricchissimo, avendo tre figliuoli, l'uno nomato Arduigi, l'altro Scandaleo, lo minore Manasse, djvenne che '1 ditto Aluisi infer. - ■ '^^'^ mando et cognoscendo dover abbandonare questo mondo, divisi? ? ^y lo SUO tesoro, et prima tre pietre preziose di summa ciascuna di ^j r^;^^ ducati tre mila nascose in un luogo secreto et incirca ducati cento \^nti mila si riserbò in una cassa, e senza alquante pos- j^ sessioni et arnesi. Et venendo peggiorando et prossimo alla morte, )^'^^.-.js chiamò questi tre suoi figli, alli quali comandò e disse che prima , che morisse volea che loro promettessero che mai non tocche- %K«.rebbono li ditti gioielli e ne chiari la valsuta (1). Appresso fé venire dinanti di sé li ditti ducati cento venti mila et quelli S ilivise per terzo, assegnandone a ciascuno quaranta mila. Et questo latto, il ditto suo figliuolo maggióre nomato Arduigi giurò et prò- /; j5 misejòsservare, et simile sacramento fece Scandaleo et appresso <^^J?j^'' Manasse, suo figliuolo minore. Auto il preditto Aluisi tali pro- missióni (et) sacramenti, subito quelli benedisse, et da indi a pochi g;j6rni passò di questa vita. Al cui corpo i figliuoli feron grande ^onore secondo li costumi de" raercadanti del paese, et stando li preditti fratelli senza fare alcuna mercanzia, ma continuo in sul godere et darsi piacere in cene et in desnari, in femmine et in cavalli et altri piacevoli diletti, in tanto che non molto^durò To/r^^ — "■' ' /^ jt/ che il minore fratello, (t^h Manasse, consumo quasi la somma /■ de ducati quaranta mila della sua parte et li altri fratelli avean consumato più delle tre parti della loro parte, avendo sempre ■ speranza che '1 gioiello de ducati trenta mila fusse in loro sus- sidio. Consumato il ditto Manasse i suol ducati, senza richieder alcun^ de' suoi fratelli, andò al luogo ov'erano li gioielli e di quine ne trasse uno et a mercatanti veneziani venuti alla Tana ^ lo vendea secretamente ducati trenta mila, e teneali (2) per sé, cc-<^ . iion si toccassero se tutti ^iT prima jion fussero contenti, dicendo: Noi abbiamo consumato tutti quelli denari che nostro padre ci die' et simile pensiamo che tu abbi i tuoi consumati, pregan- dolo che sia contento che ciascuno prenda il suo gioiello per poter con quello venire a onore. Ai quali il ditto Manasse ri- spose: Io non voglio acconsentire, però io veggo chea me vor- reste tollero il mio gioiello; ma se sete contenti che io abbia la mia parte di quelli gioielli, sono contento. Al quale li du' fra- telli con sacramento lo promisero et così se n'andarono al luogo dove il loro padre avea ditto. Et quine cercando trovonno due gioielli, dove il padre avea ditto di tre. Et come questo fu veduto, Manasse disse : Ben lo dico io che voi m'avete ingannato e però veniste a me a dirmi che volevate il gioiello, perchè n'avete tolto uno. Et però vi dico, sia come si vuole, io arò uno di questi due perchè mi tocca in parte. Rispuose Arduigi magmtór fratello et disse: Di vero dobbiamo credere, che nostro padre non disse mai bugia, che veramente i gioielli denno esser tre. Et se noi volessimo dire altri che noi tali gioielli ha tolti, dico non esser -r^ • vero. Et prima(jDer)Dhè neuna persona del mondo lo sapesse se non noi, appresso, se alcuno li avesse trovati, egli li avreljlJe tutti e tre portati via e non ne n' are' lassato veruno: et per- tanto io conchiudo di vero che uno di noi è stato quello che ha preso il gioiello. Et perchè noi siamo fratelli et dobbiamci amare insieme et non corrucciarcì, vi dirò mio parere, et quando l'arò -^■--. _ ditto potrete /prendere quello fet»reigli^ vi parrà. Et cominpib ^ (D a dire: Fratelli miei, voi sapete che il Cali signore del Mangi ■ — fne grande amico di nostro padre e il più savio omo che sia in nella legge di Macometto. Se paresse a voi (che a me pare) che (i) Ms.: a>7dnfi. J^ 1^^'^^^^^^^^ "M^ iX M^^^^t >7) P DE SAriEXTIA C^ M • XI noi questa questione del gioiello reraettessimo in lui, et (dij quello ne dichiara ciascuno s^ contento? Et tanto che abbiamo da lui 'i'^i4 la dichiarazione, questi du' gioielli non si tocchino et lascinsi qui stare. Il quale dire pia,0(ìue a' fratelli, et allora ri^uoseno li 5 gioielli dove il padre li avea messi et deliberonno di caminare ^ verso il Mangi. Et prima che si mossero dalla Tana ordinarono 1 di vivere sempre insieme et a uno scotto eUmai tra loro non ^^^1 sarà alcuna quistione tra via per cagioi^del gioiello, et cosìnel / ^}j^ <^ ritorno osserveranno (1) quello che il Gali dirà. Et così promesso, ^ e' mossonsi dalla Tana del mese di aprile forniti di vettovaglia et d'altre cose bisognevoli alla loro vita, perchè più di quaranta giornate hanno a caminare prima che siano in nel Mangi. Et caminando, già passato aprile, dilungatisi dalla Tana più di venti giornate, divenne che Arduigi, fratello maggióre, disse a' fratelli : Fratelli miei, accorgetevi voi che per questa pianura è passato una ca»^mella che non ha se non l'occhio manco? Li fratelli rispuoseno: A che te n'accorgi? Lui disse: Bene me n'accorgo io, et taccio. Et mentre che i preditti caminano , essendo al- quanto caldo per voler mangiare et riposarsi sotto a uno arboro . ^t quine mangiando, Scandaleo, fratello m§/zano, disse : Fratelli miei, io vi dirò che in questo luogo s'è posto a giacere una caprrtnella carica di mele et d'aceto. I fratelli disseno: Come lo sai? Lui disse che cosi era. Et mangiato che ebberp, volendo y}^ caminare, Manasse disse: Per certo qui è stata una cammella j^' senza coda. I fratelli disseno: Come lo sai? Disse: La coda non aveva. Et messisi a caminare, perchè presso al Mangi erano a M ^^S'^f^Sl una giornata, et caminando scontrarono uno vetturale, il quale li domandò se loro aveano veduto una cagrfmella carica. Disse Arduigi: La tua ca;3?fmella era d'uno occhio meno. Disse il vet- ^ / ■' t turale: Si. Arduigi disse: Non la vidi mai. Disse Scandaleo: La \s^»4d^^ tua carrlmella era carica di mele et d'aceto. Lo vetturale disse: , Si. Scandaleo disse: Non vidi a mia vita. Manasse parlando y^'^^i^' disse (2): La tua cammella era senza coda. Lo vetturale disse: Voi avete detto tutti la verità. Manasse disse: Io non l'ho ve- duta; va, cercala. Lo vetturale, avendo udito costoro e tutti i (1) Ms. : osserveremo, ma forse non è punto errore , giacché il repentino passaggio oàl'T^feriraènto indiretto al diretto dei discorsi è frequente in queste novelle, come per molti esempi si vedrà. (2) Ms. : dicendo. 12 NOVELLE DI (ilOVANNI SERCAMBI u iJ^f^l secni, disse: Per certo voi me l'avete rubata; ma io farò che lU)^,-. 0- a me la restituirete con ogni danno et interesse./Et cosi [si] misse r^ìn camino con questi tre fratelli e insieme giunsero al Mangi. H^i-t^v^'tuoXS^lLo vetturale subitojia fatto richiedere i ditti fratelli dinanti al ^~A^^ signore del Mangi (l). Et allora domandò la sua catinella con L. ogni danno et interesse-,' narrando i segni che a lui per loro ili erano stati contati. Il Cali, ciò udendo, disse a' ditti che si di- /] fendino, li quali con sacramento giuravano la ditta canimella j 1] non avere mai veduta, posto che noi abbiamo contati i segni (2). 1/ Ai quali il Gali disse: Se non dite le ragioni evidenti dei segni dati, voi (gìmendrete ogni danno e interesse. Arduigi, che prima avea ditto la ca^mella esser con l'occhio manco, disse: Signore, Ì^Xy? ,^— — -— ~-^jassando tra^u^prati d'erbaet^vedendo l'orme di cantinella et - vedendo^ìie solo da l'unò^éTlati l'erba era morsa, stimai tal cat- inella avere meno un occhio, perocché l'uso dei canimelli è che l'uno boccone prende da l'uno de' lati e l'altro aa l'altro. Et questo fu quello .gh^jlissi^ della cai^mella. Scandaleo disse: "^ ^ Signore, essendo noi sotto un arboro pósti per riposo, vedendo quine essere rannate in sul terreno alquante mosche da l'uno / de' lati et d'altra parte mostioni, stimai quine essere stata una - ) caijAmella caricata di mele e d'aceto, perocché al mele traggono / "/^ le mosche et all'aceto traggono i mostioni, e per questo modo t. éVi dissi: ma ch'io mai la vedessi non lo^ crediate. Manasse, il quale avea ditto non avere coda, disse: Perchè le capJ^melle l„^ poste a giacere, volendo orinare, fanno colla coda una fossa^nella ^ rena et quine orinano, et poi colla coda ricoprono colla rena "t: illorina], et io vendendo l'orina essere sparsa per la rena, stimai "" la caji^mella non avere coda, et altro mai non sentii. Udito il Cali le belle ragioni assegnate per quelli tre fratelli, giudiró fC esser vero quello che aveano detto et al vetturale comando ^ andasse a ritrovare la cosa sua, diliberando coloro. Et veduto Z^i^tBi.-- ^ i^ Cali la bella apparen;|ia de' giovani et la sottile interpretazione^ ^ '"" della quistione, venutoli dinanti, dimandandoli di qual paese erano e la ragione perchè erano venuti desiderava sapere. Al quale, come ordinato aveano li tre fratelli, [dissero] che Arduigi mag- ^itre fratello fusse quello che rispondesse. Et fatta la debita re- fi) ]\ls. : al Marufi singore. (2) K questo uno rìci passaggi dal discorso indiretto al diretto, cui ccnnai a p. 11, n. 1. 1 iu^CiC^' 4 -J*. DI-: SAPIENTIA l:i j veren^ia, in questo modo rispuose: Magnifico signore et polente (1), ^ savio et amatore di verità et de' vostri amici, quello Maumetto che voi adorate vi conservi felice et lungo tempo. Noi siamo ^ tre fratelli nati della buona memoria di .^lisi della Tana, li f^LpL^/Si quali volendo ubidire il comandamento di nostro padre, ci siamo sy dirigati dinanli alla vostra magnifica signoria et prudenj^ia, _s, acciò che voi in tutte scienzie ammaestrato debbiate cognoscei; Jt. et terminare alcuno dubbio tra noi nato, pensando che quello ne direte sera tutto vero et buono giudizio, per noi non .£op- l,u^£»£> porrà. Et di questo sommamente vi preghiamo, cognoscendo noi j^-^^j non essere soflìcienti a dovervi ripremiare in alc;i^na cosa, ma -n, pregando il vostro et nostro Iddio che vi dia lunga vita. —r^'Lo G^lì, avendo inteso costoro essere figliuoli di Aluisi della Tana, f^(^i//S^ '' il quale era stato grande suo amico, con grande amore venuto * _, a' ditti fratelli, volentieri accettò volere la loro qnistione difinire. — j>^ Et per amore del loro padre piacqueg^i che la sera dovessero ^ essere con lui ed invito^i dicendo: Io voglio che stasera torniate in nel mio albergo i>er amor del vostro padre ed eziandio per _$^ la vostr^ persoijg;', che meritate ogni bene per la vostra pru $ denjia. Ma prima che ad altro vegnamo, io vo' sapere^ la qui- stione che volete che io finisca et termini tra voi.^ t— .' Arduigi 'T-.-v^ tv>e. rispuose: La nostra quistione sta in que-^to punto. Nostro padre, il quale mai non disse iDÙgia, ci disse che avea in uno luogo se- creto misso tre "gioielTi/etjdi valsuta ciaschiduno di ducati trenta mila, et che quelli mai non si toc^ssero per noi, se di concordia tutti e_ tre non eravamo, et cosi lo promettemmo. Et lui ci die sì:^ ^$ la benedi^one et passò. Da poi noi, per la gioventù non corretta , [7" sfrenati_(2) il mobile lassato al/i3Ìamo consumato, et volendo ^" puoner mano a' gioielli nascosti, di concordia andammo là u" / nostro padre avea disegnato, et non trovandovi che du' gioielli, abbiamo stimato che noi lo terzo abbiamo preso. Pare a ciascuno de' miei fratelli io doverlo avere preso et a me i)are loro averlo preso, et questa è la nostra quistione. ( — ) Udito il CàFi la loro "^ '^ i' quistione, fu molto più contento d'averli invitati, stimando, costoro faranno quistione di tal gioiello, et io intenerendo quello che tra loro diranno potrò meglio senten^are, diliberando mettere costoro ?_ in una camera, nella quale avea una colonna in mezzo murata, — S^ t^vPo sogi^o. Venuta l'ora della cena, i preditti fratelli posti a mensa in nella ditta camera, il G^li entrato in nella colonna, Manasse, vedendo tale colonna in nella ditta camera et non parendo a lui la ditta colonna necessaria in si^'atto luogo, stimò subito quella il Cali avere fatta per poter saper/ quello che in tal Z camera si fam, stimando il CaU in quella dentro essere. Et '^ mentre che a taula stavano, venute le vivande et mangiando (1), dopo alquanto tempo disse Arduigi: Fratelli miei, di vero questa carne che il Cali n'ha dato questa sera a mangjsire fu allevata a latte di ca^na. Li fratelli, ciò udendo, disseno: A che te ne a^corgi?(E' rispuose: Ben me ne accorgo io. Lo Gali, che tutto ode, comincio a ridere di tali^^parole, spettando udire più oltra. E passato alquanto, Scandaleo disse: Fratelli miei, io mi sono a^fcorto che questo vino che il Cali ci ha dato è nato dove si sotterrano i corpi morti. I fratelli disseno; Ben hai sottile gusto a ciò sapere. Lo Gali, udendo, disse fra sé: Costoro hanno nuovo pensieri ; stando a ascoltare sentirò della loro quistione. Manasse, avendo udito il parlare de' fratelli, dispuose narrare il suo pen- sieri et disse: Fratelli miei, voi avete ditto l'uno della carne et l'altro del vino, et io vi vo' dire che veramente questo Gali, I _ , che n'ha qui invitati et fattoci ^nore, è bastardo. Disseno i u'a- ^(^U/ telli: Mal di', e che puoi tu sapere di tal cosa? Rispuose: Ben lo sò"Iò?t^Lo Gali, come udio dire essere bastardo, subito prese .-\A-8*i>^" pensieri voler tutto sapere et partissi della colonna et di pre- sente mandò per lo suo siniscfilco, al quale disse: Che carne hai tu dato stasera a quelli forestieri? Disse: Io diedi loro uno agnello, il quale ci donò Nieri nostro vicino. Lo Cali mandò subito per lo ditto Nieri e volse sapere di quello agnello. Lui rispuose: Avendo una pecora pregna et parturendooino a^nello^ (1) Ms.: \Huiginand&. 'KevAUi^^vJU ^ DE SAPIENTIA 15 morio la ditta pecora, et io avendo una cagna, che avea fatto i cagnuoli, questo agnello feci allevare a latte di tal ca^na. Il Gali, sentendo questo, stimo sé essere bastardo, et subito mandò per lo bottiglieri dicendo di qual vino avea dato a' forestieri, Rispuose: Di quel vino di quella vmna dove si soppelliscono i corpi morti. Lo (^li tenne per certo lui essere bastardo, vedendo i due aver ditto il vero, et mandò per la madre et a lei disse di cui figliuolo era. La madre disse: Se' figliuolo del Gali vecchio. Lui replicando disse: Di vero non sono,- ditelo presto. La madre disse : Di vero tu se' figlio del conte di Ra- gugia. — Dunque sono io bastardo ? — La madre disse : Sie. — Ritornato il ^ali in nella sua camera, parendogli la notte mille anni, si posò. Levato il sole, il C^ali mandò per li tre fratelli e venuti, disse al maggiore quale era il suo ragibnamento alla cena della carne. Arduigi disse che veramente quella carne era allevata a latte di ca^na. Disse il (^li: Che ne vedesti? Ri- spuose : Perchè di tal carne l^mo non se ne vede mai sasfìo, et ^ «J 6-, vedendo io avej^ mang^to presso a uno quello, stimai così. Lo ^ (^li disse: Tu hai ditto il vero. Et poi disse: E tu che dicesti del vino, che potesti comprendere? Rispuose Scandaleo: Si^Tjore, ^/ rf tf-AC^ noi della Tana abbiamo buone teste, di che io stimai tale vino essere nato dove si soppelliscono corpi morti, perchè natural- (/^ mente il corpo deiypmo è grave ed alla testa dà impaccio. Lo ^ (J^li sig^jDre rispuose : E così trovo. Et a Manasse disse: 0 tu che dicesti che io era bastardo, che scieniia hai apparato che j_ le cose fatte innanti al tuo nascimento possi sapere? Manasse rispuose: Se permetti dirò. Disse il Gali: Io permetto. Manasse disse: Stimando io tu doverci stare a vedere et a udire, sti- mando non essere atto di buono ^omo, ma di bastardo, ma sti- mandoti a udire e^vedere, stimai tu essere bastardo; il quale 0^ dire ti prego mi perdoni. Disse il (^li: Per certo tut\i avete ^ ben giudicato; ma acciò che della vostra quistione io vi dia buona assoluzione, prima che ad altro io v^nà, vogU'o dirvi 't 0/ una novella et dimandarvi d'alcune cose. Arduigi disse: Si^nore^ dite. Il Qali disse: Una bellissima g^vana, nata d'un gentile conte a et maritala a uno gentile^mo, ebbe a passare (i) per lo terreno M\^c--i.n di tre gióvani come voi sete, ciascuno potente a tenere il passo. Stimando tu, Arduigi, essere il primo signore là u' tal gr'ovana "T ' (1) Ms. : et a passare. 16 NOA-ELLE DI (JIOVANNI SERCAMBI t ■^ accompagnata a marito n'ò menata, et passa per lo tuo terreno; oLt^jyvuM. i tuoi famigli quella conducono a te dinanti : che faresti d'essa? y^ja^.^A/irfi Et, Scandaleo,-gas^. per lo tuo terreno, è presa dalle t^ brigate ^J^K,^^ y^^^ condotta in tua for|a: che faresti di tale giovana? Et tu, Ma- ^^^* '^ nasse, la donna ditta t'è rapresentata bella et pulcella, et hai di lei tutto tuo dominio, dimando che ne faresti? — Arduigi risponde che tale i?iovana fare' accompagnai]9'~pér tutto il suo terreno sicura et sen/a villania ìarterTìèTSnsentire' che altri ne ^ — / y facesse. Scandaleo disse che avuta tale vgibvana quella usare' e ^^ prendere' bene piacere et dapoi^norevóTmente ne la mandare' al suo marito. Manasse disse: Di vero tenete.^Calì, quando a me fusse presentata, io ne farei mia volontà, et dapoi vorrei che tutti i miei famigli l'avesseno et che sempre tra loro si tenesse questa, senza mandamela. Udito tal cosa, il CJali subito disse: Et J(yl io giudico che (tu], Manasse, abbia auto il gioiello, et non^tuoi '^ fratelli. Manasse disse: Tu di' il vero. Lo Cali disse: Come l'hai così tosto confessato? Rispuose Manasse: Come confessasti tu (1) ch'eri bastardo. — E dato tale giudizio, i ditti fratelli preseno H^HMQ "^ c^imiato dal Cali et ritornorono in verso la Tana di buona con- f^i cordia, dando l'uno dei^ gioielli a Arduigi et l'altro a Scandaleo. ^ y Et fattone dinari, dati tutti e tre alla mercanta, avarizzando ^ vissero (2) onorevolmente, senza gittare più ne fare/ male spese, lassando li atti giovanili. / (1) 'Ms.-.mto^ (2) Ms. : et vivendo. DE SI.MPLICITATE 17 2. [Triv., nn 2]. DE SIMPLIGITATE. t*^' Z"*^ ^^!Jldc^'^Ì^ ^ 'kjK- In nella città di Lucca in nella contrada di San Gristofano fu uno pellicciaio, omo materiale et grosso di pasta in tutti i suoi fatti, nomato Ganfo, salvo che alla sua bottega assai guardingo e sottile. Divenne che il ditto Ganfo, infirmò d'alcuna malaria et fu da'medici lodato il bagno a Gorsena essergli utile, pi^idosto che le medicine ; di che disposto il ditto Ganfo d'andare al Éagno, >*^ chiese alla mogpfe, nomata monna Teodora, denari per portare (1) fi^vfifiM^ al ba^o et vivere. La donna sua moglyfe gli die' dieci lire di — x' sestini dicendogli : Fa piccole spese. Ganfo, messosi la via tra' pie ^ et caminato pianamente, pervenne al bagno senza avere beuto et mangfeto altro che un poco di acqua et quella bevve alla Lima, che volendo passare la ditta apqua, non volendo montare in sul ponte, si mise per l'acqua. Et lui debile et 1' acqua grossa, quasi Jie'(2) affogò; et in questo modo Ganfo avea beuto uno A^ poco d'acqua. Ganfo al bagno, andando a veder lui le persone \ si bagnavano, vedendovi dentro centinaia di^mini nudi, disse fra sé medesimo: Or come mi cognoscerò tra costoro? per certo io mi smagrirò con costoro, se io non mi segno di qualche segno. Et pensò mettersi in sulla spalla ritta luna croce di paglia, di- cendo: Mentre io arò la croce in sulla spalla, io serò desso. Et come ordinò misse in effetto, che la mattina rinvegnente il ditto Ganfo nudo colla croce in sulla spalla ritta entroe in nelb^no. Et quine stando, guardandosi la spalla et veduta la croce, dicea: Ben sono dbsso. Dimorando alquanto et facendogli alle spalle freddo, et r acqua galleggiava, tirandosi a basso, la croce della spalla se gli levò dalla spalla et a uno fiorentino, che allato a lui era presso, la ditta croce sulla spalla si puose. Ganfo, guardando se et non vedendo la croce, voltandosi la vide a quel fiorentino; subito trasse a lui dicendo: Tu sei io et io son tu. Il fiorentino, non sapendo quello volesse dire, disse: Va via. Ganfo replicando fte u^^ulM^ (1) Ms.: portare. . (2) Ms.: non. ce^v^^r^ Renieb, Novelle di 0. Sercambi. 18 NOVELLE DI GIOVANNI SERGAMBI disse: Tu sei io et io son tu. Lo fiorentino, parendogli costui cA^ ■■■ fusse mentegatto, disse : Va via, tu se' morto. Ganfo, come ode '" dire: Tu se^orto, subito uscio del bagho et missesi i panni senza 5/ MfS^f< parlare né mangiare né bere [e^prese] a caminare venendo verso / Lucca. Et quantunqua ne scontrava che lui salutassero, a neuno ^ •c\\- rispondea. Venuto a Lucca et g)junto alla sua casa, motina Te per lo caminar/ senta aver mangjato né beuto, si per la paura, 'Vrf la donna giudicò esser morto. Et subito gridando, scapigliandosi, diceva (1) Ganfo suo marito esser morto. Li vicini traggono a confortare la scpnsolata di sì buono marito, dando consiglio che Ganfo sia soppellito. Et cosìe si misse in ordine. Venuta la bara et quine messo Ganfo, lui stando cheto et come morto /cK-^/j^ si lassa menare, la chiercia (2) rannata et venuta colla croce a casa, et ricevuta la cera,(andando con Ganfo alla chiesa per quello soppellire. Et mentre che Ganfo era così portato, una ^ "t fantes(ja nomata Ve^ssa domandò, quello era: fugli ditto che ^i Ganfo era morto. Come Vetjessa questo udio, incomind^ò a gri- S>ì((JL ^^^^ ^^ disse: Maledetta sia l'anima di Ganfo, che in quel ma- ■ — i ?'- ledette punto gli diedi un mio pelliccione a racconc/are, che ^ mai non Io potei avere. Et questo dicea spesso. Ganfo, che più ,^ volte avea avuto parole con Vetessa, sentendola gridare, paren- dogli che Vetessa dicesse male, parlò alto e disse: Vetessa, Ve- tessa, s'io fusse vivo come son morto, io ti risponderei bene. / la) Alle quali parole quelli che portavano la bara lassarono ■ ca- dere in terra, dubitando fusse spirito fantasmo, et tutto Ganfo si macolò. I chierici traendo a lui e le persone d'intorno e ve- dendolo vivo disseno: 0 che mala ventura hai tu, Ganfo, che ti volei far sotterrare vivo per morto? Ganfo, vedendosi intorno li parenti et vicini, disse loro la novella del bagno. Li preti se n'andarono colla cera anta et Ganfo fu rimenato in casa, et con- fortato divenne sano e la sua arte esercitò. (1) Ms.: dicmdO: Q . ( (2) Ms.: chieria. cX^/JO^y^'^"^^ DE MALVAGITATE ET HALITI A 19 3. [Triv., n» 3]. DE MALVAGITATE ET MALITIA. Magnifico preposto et voi omini e donne desiderosi di udire, u i essendo Ganfo pellicciaio grosso et materiale, niente di meno alla u-'j^ ''- sua bottega era sottile. Et faciendo l'arte sua in una bottega a '< San Gristoiano di Lucca, uno fiorentino nomato ZanobL avendo C/^cSo(.^(^^ preso a pigine lo solaro dove stava Ganfo a bottega, pensando ^ ^ '^-^..^ il ditto Zanobi che per fare dispiacere al ditto Ganfo la bottega dovesse abbandonare acciò che lui: l'avesse per potervi l'arte rt ,- *v.*-,.vi sua delle scarpe fare, et avendo sentito il modo che Ganfo avea ^ tenuto quando disse essere morto, pensò: Io potrò con costui """"f^ fare ogni dispiacere et come mattqT me lasciarà et crederà ogni cosa che io gli faccia (1). Et fatto tale fondamento, diliberò 0 Zanob^oo'iii di du' volte coU'orina sua bagnare le pelli di Ganfo et cominciò più presto potea, che alla scala dove Zanobi^ mon- q , 7 tava fé' uno pertuso, dove Zanobi^ metteva il suo marcifaccio et « i^ quine orinava,-in tanto che tutte pelli bagnava. Et cosi s'in- .^7_d**W (yi gggnava di ritener l'orina per potej;^ le pelli di Ganfo tener jl ^/~"~ fresche, che Qgni volta che venia a orinare quell'era il suo luogo. Ganfo, che ogni mattina , trovava le sue pelli bagnate , laraen- . . / tandosi di .Zanobi perche di sopra gli stava, e' gli disse (2) che -^ L facea male a gittare ra«E!;qua in sulle sue pelli. Zanobi, dicendo Vut^ che topi sono quelli che bagnano le pelli, et non sua a^qua, do- .^^ leasi (3) che per le pelli di Ganfo non potea vivere in casa, tanti topi n'aveano allettati. A, 9,ui Ganfo disse: 0 veramente io ^ ritrovo una gatta, che questi topi piglferà, o io abbandonerò ©questa bottega. Zanobi, udendo dire che abbandonerà^ la bottega .4. se la gatta non prendesse i topi, sapendo il fatto, sollecitamente più che di prima orinava in sulle pelli, avendo^ fatto uno pertugio, l»^ ^J!*^ ^ 0 dove Zanobi. com' è ditto, raettea marcifaccio. E di di quello A A ^ì (1) Ho cercato interpretare, ma il testo corre poco. Il ms. veramente dice: et come inatto non lassiera et credino cosa che io li faccia. (2) Ms.: et dimando. ^~^ (3) Ms.: dol'enàosi Zanobi. — , , y 20 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI *" ricopria per modo, che Ganfo né altri accorger se ne j^oiea.7hAé Ganfo, posto che fusse di grossa materia, con uno sottile inge^nio, ' come sogliono fare alcuna volta 1 matti, stimò lo bagnare le sue >u,p «^ pelli non esser .de'topi (1), et dispuose quello di certo vedere. Et ' fy fatto vista di chiudercla bottega, dentro vi si nascose, per lo ,^,^, luogo dov'erano bagnate le sue pelli si misse a riguardare. Ve- ' o nutà la sera, Zanobi. com'era sua usanza, si puose il marcifaccio ^ r per lo pertugio, pendente molto a similitudine d*^ (2) ogni tristo (JZ^ cane a gran coda. Ganfo, che questo vede, niente dice, ma come savio raffrena la furia e a suo tempo delibera manifestare il ^ e suo senno contro la mattia diJZànobi^.Et poco stante Ganfo se q n' andò a posare. E la mattina, eh' era uno sabbato, dolendosi- 4 ch'e' topi gli guastavano le pelli, disse: Di vero se la gatta che io ci mettrò stasera non prenderà li topi che non mi lassano le mie. pelli asciutte, io mi partirò della bottega e provedronne un'altra. Ztinobi, che tutto ode, pensa in tutto '1 dì non orinare et potere la sera bs^gnare compiutamente le pelli di jgfenfo. Ganfo. che s'era accorto del tratto, andò alla pescheria e quine trovò a^ un luccio, grosso di più di libbre venti et quello comprò. Fugli Z ditto quello volea fare di quel luccio così grosso: lui rispuose: L'opere (3) che monna Teodora mia dolce mogUfe. fece a Dio et la orazione de'frati mi fenno risuscitare; et pertanto io voglio che Pr- quelli godano, et cosi si diliberò da coloro che gli dimandavano ridendosi di lui. Giunto a casa, Ganfo disse alla donna che con- ciasse quel luccio, salvo la testa, che la volea portare a frate o Zanobi, ch'era molto santo: la donna quello credè et conciò il A ì resto. Et . Ganfo quella testa ne porta secretamente alla sua bot- •7 tega, senza che altri se ne accorgesse. Zanobi c^l^olaro, avendo -' il giórno molto beuto et ritenuta 1' orina per poTer le pelli di Ganfo guastare, giunse con grande volontà alla scala et aperto il buco misse il marcifaccio gruso et cominciò a orinare. Ganfo, ( ([uesto vedendo, apprestò la testa del luccio e '1 marcifaccio prese, «x. e strettamente colle mani serrò (4) la testa, in tanto che Zanobj^'O credette che fusse la gatta, et allettando la gatta con dolci pa- role, Ganfo dimostrando esser gatta, dicendo q,miaic, amiau. (1) ìAs.-.Ci^topi. (2) Ms.: de. clvjr. (3) Ms.: lo perche. (4) Ms.: serata. 4 DE MALVAGITATE ET MALITIA 21 stringendo la testa del luccio,^ ^nobi<| non potendo più sostenere per lo dolore, e' fu costretto a dover gridare. Li vicini, venendo . o et trovando Zanobi. col marcifaccio giù della scala, stimado la gatta di Ganfo averlo preso, biasimarono (1) Zanobi^ del vitupei^o tfi che avea fatto a G-anfo, avendo sempre aóìrmato Zanobi^ che i ^ topi eran quelli che le pelli bagnavano, et disseno tutti al ditto g - .'Zanobi : Se male non gH è, avvenuto, e' l'^a bene comprato. -t-c^Zanobi, che per lo dolore era quasi finito, f, non potendo par- /f .calare, stimorono i vicini Zanobi morire. Et deliberorono andare' Y/£, % a casa di Ganfo/ per aprir/ la bottega et per levare la gatta ~"/^^^ dal marcifaccio. Ganfo, sentito questo, venne presto acciò che non vi fusse trovato, lassò et aperse la testa d^' luccio. _2anobi_ i /L- e tramortito fu portato in sul letto et chiesto il prete et confes- ^ \aX4- sandqsi pel fallo commesso, chiedendo a Ganfo perdono, in pochi / giorni passò di questa vita. Di che Ganfo per amy5enda secreta- U q- fY\^ mente ogni dì per la sua anima diceva una avemaria. ' (1) Ms.: et biasimando. 22 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI 4. [Trlv., no i]. èuy %■ DE MAGNA PRUDENTI A. C\ e Lo re Costanzo di PortjJ^allo, avendo preso per donna la l. figliuola def re di Tunisi nomata Galiana, bellissima e §;if)vana ) Ms.: la. DE MAGNA PRUDENTIA 31 quello che a me bisogna e di mia condizione, [dirollo] in appresso nel mio ragionamento; (esaudite], vi supplico, la mia domanda, et se questo promettete, dirò. Lo re di nuovo giura e promette di tutto fare. Allora, mutato parlare, disse: Carissimo re et a me signore. Voi siete senza donna, et onesta et savia bisognare' al vostro magnifico stato, et non di quelle che disonestamente viveno, come già la provaste. Et pertanto io vi chieggo che vi piaccia prendere Calidonia figliuola vergine di messer Aluisi Salviati, di Italia nata, per vostra sposa et moglie legittima. Et acciò che possiate esser certo della sua bellezza et bontà, vi dico io sono quella che vo' che vostra sposa sia. Et gittatosi il mantello d'addosso e il cappuccio di capo, rimase in si fatta roba luccicante come il sole. Lo re, questo vedendo, mille anni parendogli d'averla contenta, con uno anello in presenzia di tutti la sposò, et la festa fu inestimabile, lodando il suo senno. Lo re, tenendosi il più contento omo del mondo, dispose (1) il padre di Calidonia conte, e insieme vissero lungo tempo. (1) Ms.: disponendo. 32 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI 5. [Triv., no 5]. DE SUxMMA JUSTITIA. Fu in Milano città di Lombardia al tempo di messer Bernabò - una donna ostiatrice, ovvero balia da levare fanciulli, nomata monna Ambrogia, la quale avea una sua figliuola di tredici anni nomata Gateruzza, bellissima et savia donzella, cui monna Am- brogia in ogni luogo la conducea seco per non ricevere beffe. Et massimamente la conducea in casa di madonna la reina, donna di messer Bernabò, che molto spesso la reina quella facea ve- nire, prendendo della detta Gateruzza molto piacere. Divenne che un die uno cameriere di corte nomato messer Mafflolo s' inna- morò di costei, et pensò con certo modo la ditta Gateruzza pren- dere et di lei fare sua volontà. Et come pensò misse in effetto. Ghè ritornata in casa la ditta Gateruzza, non essendovi la ^ madre, quella raptò et condussela alla casa sua e quine facen- done suo volere; monna Ambrogia, non trovando la figliuola là in casa, dolendosi di tal cosa et lamentandosi, madonna la reina, la quale subito lo senti, a messer Bernabò [lo] dice. Messer Ber- nabò fé' mandare molti bandi sotto gravi pene si dovesse render la ditta Gateruzza. Et mentre tali bandi funno osservati (che più di venti giorni passarono e sempre messer Bernabò mandò bandi) divenne che, essendo messer Mafìiolo sazio della Gateruzza, che molti^sstniiiJTOlla.avea provato cavalleriaconjeii parendogli tempo di rimandarla, speraìnds'dàppoi a ogni sua volontà po- terla avere, e' chiamò a sé Gateruzza dicendo: Io voglio che ti torni con tua madre, et acciò che meglio possiate vivere, [et] se caso venisse che ti volessi maritare possi, ti dono ([uesti cento fiorini, ma a persona del mondo non manifestare là u' se'stata. Et questo ditto, subito la prese basciandola e uiiaL^yolta la_danza amorosa^lijece, et con cento fiorini ne la mandò prometten- "dòglì gran fatti. Tornata Gateruzza a casa, la madre, vedendola, cominciò a gridare: Ohimè, Gateruzza dolce figliuola, dove se' stata? Et questo dicea si alto che tutta la vicinanza sentia il gridare della madre. Gateruzza, che già sentito avea la dolcezza dell'omo, disse : Madre mia, state cheta, che colui che mi prese m'ha dato fiorini cento, li quali con questi mi potete maritare. La madre, non curando tali parole, ma di continuo gridando, tanto che all' orecchie di messer Bernabò et di madonna |la| reina fu venuto, et subito la donna richiesta a madonna llal DE SUMMA JUSTITIA 33 reina venisse con Cateruzza, lei si mosse e alla corte n'andò, là u' messer Bernabò con madonna la reina era. Venuta la madre con la figliuola, messer Bernabò volse sapere chi l'avea rapita. Fu ditto che messer Mafliolo suo cortigiano l'avea rapita et per forcia^ di casa cavata et seco tenuta più di vinti di e di lei avere ^ preso suo contentamento. Messer Bernabò, ciò sentendo, subito fé' richiedere messer Maffiolo, il quale andò dinanti a messer Bernabò sperando che altro volesse, e quine veduta Cateruzza e la madre et madonna la reina con altre donne, dubitò forte et pensò potersi scusare. A cui messer Bernabò disse: Messer Maffìolo, come avete voi disservito Cateruzza? Rispuose messer Mafflolo: Io Ilio ben^ contentata.^ Messer Bernabò, rivoltosi verso la madre di Gatèruzzj et alla (1) figliuola, disse : Udite ch'e' dice che v'ha ben conten- tata? La madre e Cateruzza disseno: Signore, non è la verità; non siamo né saremo mai contente, se voi non fuste quello che contentare ci facesse. Alle quali parole messer Bernabò, rivoltosi verso messer Maffiolo dicendogli se volea che lui accordasse questi fatti, rispuose messer Mafflolo di sì. Et simile si rivolse a Cateruzza et alla madre e tali parole disse loro: elleno rispuo- seno di sì. Allora messer Bernabò stimò che messer Maffiolo avea di valsente fiorini sei mila, et chiamato uno cancelliere fé' fare carta che messer Mafflolo prenda Cateruzza per moglie e che lui la dotava fiorini sei mila, et simile che Cateruzza prenda per marito messer Maffiolo. Et rogato il contratto, rivolsesi a messer Mafflolo dicendo s'è contento. Lui disse sì. Et poi rivol- tosi a Cateruzza dicendogli se ella era contenta, avendo Cate- ruzza assaggiato quello uccello, posto che forzatamente vi fusse condutta, gli piacque [et] disse di si. Et contente le parti, messer Bernabò [dissej : Ora si ha a contentare me. E voltosi verso Maf- fiolo dissegli (2): Come hai avuto tanto ardimento sotto la mia signoria a rapir le pulcelle et donne altrui? Et se' stato sì pre- suntuoso che a' miei bandi non hai ubbidito. Maffiolo disse: La volontà bestiale m'indusse a fare quello che io feci. Messer Ber- nabò disse: Come bestiale te ne farò portar la pena. Et subito per lo podestà gli fece tagliare la testa. Et la ditta Cateruzza a uno suo cortigiano gentile e povero la maritò con assegnargli quello ch'era stato di messer Mafflolo. Et per questo modo messer Bernabò usò somma giustizia. (1) Ms.: e della. (2) Ms.: dicendogli. Re.ntkk, XovelU di 0. Sercainbi 34 NOVELLE DI GIOVANNI SERGAMBI 6. [Triv., no 6]. DE JUSTITIA ET CRUDELTÀ Un conte di Frignano nomato lo conte Lambrusco da Rodello, omo più tosto a rubare che a offerire pmclmaie], avendo sotto la sua giurisdizione uno buono omo mercadante nomato Guàspare, ricco et savio, il quale avendo d'una sua donna [nomata Onesta], assai giovana di anni trenta, avuto una bellissima fanciulla, questa (1) prima il ditto Guàspare morisse pervenne all' età di tredici anni, avendo imparato a trarre seta di filugelli, facen- done l'anno gran quantità. Guàspare ammalando moria, lassando la donna di trenta anni et la figliuola di trecici. Stimando^ lui né la moglie né la figliuola dover stare senza marito, pensò di dividere il suo a metà [tra la moglie e la] figliuola, se vera- mente r una senza 1' altra maritare non si dovesse, et in caso che la moglie si maritasse et non la figliuola, niente avesse, et così della figliuola. Et passato di questa vita, la donna savia one- stissimamente colla figliuola si stava, facendo loro vita et guada - gnandoo^Si dicea Guàspare non esser morto al modo che si tenea Onesta in casa. Divenne un giorno che la fanciulla, la quale per vezzo gli fu posto nome Nanna, andando per uno mazzo di seta a un luogo dove la traevano, et passando presso della casa d'un donzello del conte nomato Arduigi, il predetto Arduigi quella raptò, e '1 mazzo della seta, che valea più di fiorini cento, gli tolse et violentemente la sfregiò, in tanto che tutto il vicinato lo sentio. Madonna Onesta sua madre, ciò sentendo, richiese alquanti suo' parenti et se n' andò a casa del conte, narrando (2) quello che Arduigi suo famiglio avea fatto della figliuola. Il ditto conte udendo qui ne mandò Onesta et alcuno suo parente; licenziatili parenti, sotto specie di fare ragione, amando Onesta e quelli parenti las- sando la donna, lo conte riguardando disse: Il vostro nicchio che portate di sotto fu fatto perchè il romano dentro vi si metta. Et messogli le mani addosso et gittatala in terra, con ponergli (1) Ms.: la quale che. (2) Ms.: narrato. DE JUSTITIA ET CRUDELTÀ 35 la mano alla gola, di lei ebbe suo contentamento due volte. Fatto questo, lo preditto conte Lambrusco mandò per Arduigi suo donzello dicendo che menasse la Nanna seco. Arduigi, trat- tosi, a malgrado della Nanna, sua sfrenata volontà, al conte n'andò e la Nanna colla seta ch'avea seco. Lo conte, ciò vedendo, disse: Madonna Onesta et voi Nanna, questi vostri nicchi non si vorrebbono lassare senza romano dentro. Come i' ho il mio romano messo in nel nicchio di madonna Onesta, el mio donzello l'ha misso in nel nicchio di Nanna. Et pertanto per l'affanno che Arduigi ha durato d'avere aperto la prima volta il nicchio della Nanna, voglio che questa seta gli rimagna. Et perchè io non fui il primo che il nicchio di madonna Onesta apersi, non vo' niente: et per questo modo mantenne giustizia. Andatosene le donne a casa, et i loro parenti questo sapendo et non potendo altro fare, con preghi divotissimi ogni giorno pregavano Iddio che, poiché il conte ha contrafatto a giustizia, che lui giudichi il diritto. Et non molto appresso, essendo il ditto conte andato alla caccia et con lui molti famigli e in fra li altri Arduigi, divenne che facendosi mal tempo una saetta percosse il ditto conte e il ditto Arduigi et alcuni altri. Et così malamente finirono. Senten- \ dosi tal morte, subito fu stimato [il] peccato commesso in nella donna Onesta e nella figliuola li ha sì condutti. Li parenti delle donne confortandole a prender marito, a uno che avea uno suo figliuolo madonna Onesta si maritò, e la Nanna diede al figliuolo, e visseno insieme in concordia e buon tempo. 36 NOVELLE DI GIOVANNI SERGAMRI 7. [Triv., no 8]. DE SIMPLIGI JUVANO. Uno mercadante da Bologna nomato Felice, ricco e gran maestra ^ di mercanzia, avendo molti lavori di seta, cioè zendadi et veli, fatti, et non vedendo quelli in Italia poter spacciare, pensò di mandarli oltramonti. Avendo uno suo fattore più tosto per an- titesim che per altro nomato Ugolino Schiarini, comandogli cHè~ talTmercature spacciasse al prezzo a lui dato a contanti, et se caso fusse che a contanti spacciare non le potesse, le spacciasse a baratto, salvo che non barattasse le mercanzie a cose che putessero. Ugolino disse: Io ho buono odore, non potre' essere ingannato. Pensando guadagnare un grande tesoro, si misse in camino, et camino tanto, che giunse a Bruxelle con tutte queste robe, et come fu giunto, gli funno intorno molti messetti, o vuoi dire sensali, dicendo se alcuna mercanzia avesse che vo- lesse vendere. Ugolino, come poco ammaestrato, disse di sì, e disse ch'egli avea di comandamento di non venderla se non a baratto, sicuramente che non barattasse a cosa che putisse. Li sensali, scorto costui, ristrettisi insieme, disseno: Costui è v/ di Bologna che vendeno il senno, tanto che a loro poco ne ri- mane; pertanto noi possiamo con costui fare bono guadagno, poiché dice le sue mercanzie vendere a dinari contanti o a ba- ratto, sicuramente che baratto non sia cosa putente. Et pertanto uno di loro nomato Zazzara sensale disse: Se volete lassare fare a me, io farò questo mercato, et a voi, cioè al Mosca e a Or- landuccio, darò la terza parte del guadagno. Li du' furono con- tenti che Zazzara facesse il mercato. Partitisi, Zazzara scogno- sciuto se n' andò a Ugolino e dissegli s* egli avea moscato da vendere. Ugolino disse no; ma che volontieri lo cognoscerebbe, però che a Bologna era molto caro. Zazzara subito andò et ar- . recò alquanto sterco di cane involto in uno zendado e disse: Ecco il moscato. Ugolino, quello al naso accostatosi, disse : E bene del buono? volentieri lo comprare' o lo baratterò' colla mia mercanzia. Zazzara subito andò a Ugolino e disse: Di vero questo è del buono. Et partitosi da lui, mutatosi veste, con buona quantità del moscato a Ugolino ritornò dicendogli: Tu DE SIMPLICI JUVANO 37 se' mercadante, hai tu mercanzia arrecato et di quanto va- lore? Ugolino rispuose: Io abbo arrecato di molti veli e zen- dadi la valuta di più di fiorini mille cinquecento. Zazzara dice: Vuo' li tu vendere? Ugolino dice di sì, o barattare. Zazzara dice se barattare vuole a moscato. Ugolino disse : Sì, io lo vo' vedere, che altra volta ne viddi et piacquemi molto. Zaz- zara spiegò una scatola coperta di zendado et piena di sterco di cane et al naso sei puose dicendo: Odi come ne viene odore. Ugolino dice: Per certo egli è del buono: che vuoi della libbra? Rispuose Zazzara : Tanto voglio della libbra quanto tu vuo' della posta dello zendado, intendo la posta libbre vinte et così de' veli. Ugolino, parendogli buona derrata, steo contento, salvo che volea contati fiorini trecento. Fu contento del mercato, et pagato li di- nari et preso la mercanzia et in una scatola suggellata gli diede il moscato dicendo che mai quella non aprisse fino che non fusse a Bologna, perocché perdere' l'odore, et molto meno che non vuo- lessi vendere. Ugolino contento si partìo da Bruxelle et cami- nando verso Analdi, arrivò una sera a uno castello de uno conte, et essendo sera, costui addomandando alloggio, fu per la donna del conte ricevuto lì. Parendogli forestiero et assai bello et parendogli mercadante, lo invitò ad albergo. Ugolino, che gli parea essere a Bologna, accettò. La donna disse unde egli era et che andava facendo et che portava. Ugolino rispuose: Io sono da_Bologna ,ove si compra il senno, et ho fiorini trecento et una scatola di moscato, la quale ho abbarattata a miei zendadi. La con- tessa, udendo costui essere straniero, et essendo desiderosa di quelli denari et moscato, et anche piacendole il giovano^ pensò lui poter la notte godere, et acquistare li dinari e '1 moscato. Et fatto questo pensieri, che '1 conte non era in nel castello, subito fece lui da se venire et dissegli che vorre' che gli co- stasse che la notte fuss3 da una così alta contessa in nel letto rice- vuto. Rispuose Ugolino: Fiorini trecento et parte del mio moscato. La donna disse: U' sono li fiorini? Ugolino, aperta la borsa, in mano glieli puose. La contessa, quelli avuti, parendole tempo, lo misse in camera et quine in nel letto spogliatasi et Ugolino con lei, preseno diletto saziando la contessa suo appetito. Et Ugolino credendo quine rimanere come si sforzava di compiacerla, tanto che, essendo die, la contessa levatasi et fatto levare Ugolino, gli disse: Vanne, che se il conte ten trovasse, saresti morto. Ugolino, che anco il sonno avea in nelli occhi, montato a ca- vallo, col suo moscato, senza dinari, si misse in via et camino 38 NOVELLE DI GIOVANNI SERGAMBI _v6rso Parigi per ritornare a Bologna. Uscitogli il sonno, veden- dosi senza dinari et andando pensando come potea spender in nel camino, sopraggiunse il conte marito di quella con cui Ugo- lino avea dormito, et vedendolo malanconoso disse: 0 giovano, che vai pensando? Lo giovano disse: Per mia fé' io hoe gia- • cinto stanotte con una contessa in uno castello et hoe avuto di lei mio talento et ella di me, et tutti li miei dinari ho dati et non vi è comodo che io possa a Bologna ritornare. Lo conte disse: Tanto quanto dura lo mio terreno ti darò dinari, dapoi ne pregarai altri et aperse la borsa e diegli uno franco. Et partitosi il conte, tornò a casa dicendo [che avea incontrato uno j giovano che avea moscato. La contessa] (1) disse al conte: Poiché dite lui aver moscato, piacciavi almeno per fiorini trecento da lui comprarmene, che sapete quanto tempo me n'avete udito chie- dere. Lo conte, desideroso di saziare la volontà della donna, subito ^ prese i fiorini trecento et trovò il giovano chiedendogli il mo- ' scato. Ugolino, che dinari non avea, disse: Messere, sarà fatto, ' et prese la quarta parte del moscato et diello (2) al conte. Lo conte, portatolo alla contessa, disse: Donna, il moscato che hai desiderato lungo tempo, ora hai avuto, quanto a me pare che la mercanzia di che hai li fiorini trecento guadagnati olirava come fa questo moscato che hai comprato. La donna, pensando che lo conte se ne fusse accorto, a niente rispuose. Ugolino, tor- nato con quelli trecento fiorini et col moscato comprato, giunse a Bologna al suo maestro Felice dandogli li fiorini che avanzati gli erano, dicendo che veramente in nella parte d'oltramonti si fa grandi guadagni, mostrando il baratto fatto del moscato, af- fermando che molto s'era guardato di barattare a cosa putente. Felice dice: 'V'è questo moscato? Et come intendente delle mer- y canzie cognoye che quello era sterco di cane, affermandogli che lui avea passato il suo comandamento, et cosi protestandogli volse che Ugolino rifacesse l'ammenda de' veli et delli zendadi, et così fece. (1) Qui fu certamente lasciata una riga o più nel ms. ; a ciò ho cercato di sopperire. Il codice ha: torno a casa dicendo il gooano nomato disse al conte poiché dite. (2) Ms.: datolo. DE ALTRO ET SIMPLICI MERCADANTE 39 8. 4- . i .„,. >. ■ ^ ' [Triv., n" 9]. DE ALTRO ET SIMPLICI MERGADANTE. Nella città di Lucca anticamente s'usava il giorno d'ogni santi mangiare moltissime oche. Et non parea esser omo chi il di non . avea oche. Divenne che uno macellaio nomato Figliuccio si mosse '^ìaìJIa^^^ da Lucca con lire sessanta di quattrini senesi per andare a Siena et comprare oche per la ditta festa; e giunto a Siena del mese di ottobre et andato in nel campo di Siena, accostandosi a uno che gli parea che dovesse essere mercadante, nomato Besso, il ditto Figliuccio lo domandò se fusse mercadante d'oche. A cui Besso die d'occhio parendogli strano et disse: Sì, et che n'avea gran quantitade. Figliuccio disse quello volea del paio. Besso disse: Soldi vinti senesi. Figliuccio disse: Vuo' me ne dare paia ses- santa per lire cinquanta che io ho arrecato ? Besso disse : Poiché se' piacevole, io te le vo'dare: dammi li dinari. Figliuccio, acco- statosi a una banca, innomerò li dinari presente Besso et in una borsa li mise et disse: Andiamo per l'oche. Besso, menatolo fuori della porta, una gran torma d'oche salvatiche gli mostrò dicen- dogli : Va et tonno paja sessanta et più uno paro che vo' te lo godi colla donna tua. Figliuccio, datogli la borsa delli denari et tagliato alcun salci per poter l'ale dell'oche legare et scalzatosi, si misse in nell' acqua. L' oche pianamente si tiravano in fra l'acqua. Figliuccio seguendo senza pigliare l'oche, discostandosi Figliuccio, che fino alle brache s'avea bagnato, disse: Alle vagnela_ di Dio! queste sono oche salvatiche. Besso, come lo vide entrare in nell'acqua, die volta et in Siena tornò; et mutatosi di panni co' dinari s' andò prendendo piacere. Figliuccio, che vede non poter avere alcun' oca, rivoltossi pensando dire a Besso che i suoi dinari gli renda. Non vedendolo, dubitò, et subito calzatosi tornò in Siena et in campo fu venuto dicendo a chi trovava se avea veduto Besso mercadante d' oche. A cui fu ditto: Va, cercalo. Figliuccio, vedendosi gabbare, si partìo del campo et per Siena cominciò a cercare se vedesse Besso. Et così an- andado quasi a sera, una donna nomata Monna Gese, vedendo Figliuccio andare pensando, stimò costui esser forestieri. Et chiamatolo disse: Unde se' tu? Figliuccio disse: Io sono da 40 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI Lucca . Monna Gese disse : Or che vai pensando ? Figli uccio disse: Uno mercadante d' oche m' ha ingannato et hammi tolto lire cinquanta di quattrini senesi et non me ne sono rimaste che diece. La donna disse: Male ha fatto che ma" altrettale come tu [credo] si possa trovare. Figliuccio volendosi partire, monna Gese [dissej: Ornai è sera et io per amor di Lucca vo' che stasera alberghi meco Figliuccio, avendo veduto Monna Gese vestita onesta et in nella faccia con uno velo avvolto, parendogli la Maddalena, disse : Madonna, volentieri, che almeno quel poco che m'è rimaso non mi fie tolto in casa vostra. Monna Gese disse: Quello sera fatto a te che ad altri che capitati ci sono. Figliuccio entrato in casa, la donna chiusi li usci, et cenato insieme, la sera venuta, monna Gese disse: In questa camera ti dormi et perchè non v' ha luogo comune, porrà' ti in su questa finestra quando volessi l'agio del corpo [fare]. Et uscita fuori di camera, Figliuccio, chiuso l'uscio dentro, credendo stare sicuro, si spogliò di tutti i panni, et scalzo rimaso in camicia et in mutande, si montò in sulla finestra per poter il suo agio fare. Monna Gese per altro uscio secreto era entrata in nella camera. Come lo vide in sul palco, subito percosse la finestra dandogli per lo petto et in nel cjiiasso l'ebbe gittato. Figliuccio volendo gridare. Monna Gese disse : Se tu gridi io t'ammazzo. Figliuccio sentendosi mer- doso et in istretto luogo, avendo paura di morire, non fiatò, ma per lo chiasso si misse ad andare, tanto che fu in nella via maestra; là u' sotto una tenda si puose. La donna, chiusa la fi V nestra, le lire dieci e la scarsella , panni et calze, ogni cosa si prese. Et stando Figliuccio in tal maniera, desiderando morire o che la famiglia il pigliasse, per poter contare quello che a lui era stato fatto, non dormendo vide passare alcuno. Figliuccio, credendo fusse la guardia, disse: 0 chi va là? Colui udendo, ac- costandosi, vide Figliuccio in camicia e disse: Chi se' tu? Figliuccio disse: Io sono uno da Lucca che sono stato rubato, dicendo il modo. Vedendo colui la forma di Figliuccio, disse: Io sono uno ladro et vo' cercando qualche compagno che vegna meco. Ri- spuose Figliuccio: Io voglio esser tuo compagno, et più tosto puoi mi mena a qualche bottega a rubare. Disse il ladro: Io hoe pen- sato che oggi mono in questa città il vescovo, al cui essequio mi trovai, et vidilo soppellire con molte anella d'oro, et con una mHola in capo piena di perle et molte fregiature d'oro, con uno cordone di perle. Ma ben mi penso che i calonaci lo verranno spogliare in sul mattino. Rispuose Figliuccio: Per Dio andiamo DE ALTRO ET SIMPLICI MERGADANTE 41 tosto, che noi siamo i primi che lo spogliamo. Lo ladro disse: Andiamo. Et mossosi, e Figliuccio dirieto a lui, tanto che giunti furono al duomo di Santa Maria. Lo ladro, entrato per una fi- nestrella, Figliuccio dirieto, funno in chiesa, et acceso una can- dela al monimento n' andonno. Et perchè la pietra era grande, amendu' vi misseno le mani et alzato alquanto, disse lo ladro: Chi entrerà dentro? Figliuccio disse: Sostieni la pietra che non caggia et io intro. Lo ladro contento, Figliuccio dentro intrò et subito, preso il cordone, quello si misse sopra la camicia, et posto le mani alle mani del vescovo, li guanti con tutte ranelle si misse in seno, et poi levatagli la mitola di testa se la misse in seno. Et così andando, ogni gioiello si mettea in seno. Et mentre che tali cose si faceano, apparve un grande splendore in nella chiesa, che i calonaci avendo cenato venivano a spogliare il vescovo co' torchi accesTet croci e 'ncenso, salmi et latanie. Vedendo questo il ladro, avendo paura, senza altro dire a Figliuccio la pietra lassò ca- dere. Figliuccio in nel sepolcro rinchiuso, non però che alcun spiraglio (li lume non ci fusse, per la finestra il ladro si fuggio. Figliuccio, sentitosi coperto, stimò quine essere la sua fine; ma poi ricordandosi che il ladro gli avea ditto che i calonaci do- veano venire, stimò che i calonaci fusseno quelli che aveano messo paura al ladro. Et diliberò stare cheto et veder quello che i calonaci fare doveano, avendo tutti li gioielli in seno. Ve- nuti li calonaci al monimento con orazioni et lumi, aperto il monimento e la pietra messa in terra e ditto: Chi sarà quello che dentro entrarà ?, uno chiericastro piìi tosto giovano di senno, che di tempo, disse: Io. E gittatosi bocconi, e' le gambe dentro misse per volersi in nel monimento calare. Figliuccio, veduto le gambe, subito quelle prese, stringendole per modo che el chierico sentio et di paura quasi morio, gridando : Soccorretemi. Li calonici et li altri chierici, che quine erano, di paura tutti sbi- gottiti si fuggirono. Li lumi si spensero, la croce per terra caduta, le gambe percosse in nelle banche che quasi se le ruppeno, non cessando in fine che in nelle loro camere funno enserrati la paura loro. Lo chiericastro avendo molto gridato et [essendo] tramortito per paura, Figliuccio, che sente fatto silenzio in nella chiesa, del monimento uscio, et all'uscio della chiesa se n'andò et quello aperse et di fuori in uno fienile si puose a dormire spettando il giorno. Lo chiericastro risentito et libero le gambe, il più tosto poteo alle camere de' calonaci se n' andò, dicendo ch'egli erano stati troppo presuntuosi ad andare in chiesa che non 42 NOy.ELLE DI GIOVANNI SERGAMBI era ancora mattino. Et se male ce n'è avvenuto, noi l'abbiara bene comprato et ancora, ora che '1 monimento è aperto, altri rubasse il vescovo, fare' molto bene. Et cosi si feano ritorno. Figliuccio, veduto la mattina il sole, prese uno anello et a uno orafo lo vendeo per quello poteo et di quelli dinari si vestio. Et con gioie ritornò a Lucca, et quine vendute, compròe case et posses- sioni, et fece buona bottega et visse a onore. DE VITUPERIO PIETATIS 43 9. [Triv., n" 11]. DE VITUPERIO PIETATIS Nella città di Lucca in nella contrada di san Paolino era uno tentore nomato Vanni, lo quale avea una sua donna onesta assai i giovana nomata madonna Margarita, la quale si dilettava volon- ^ tieri di udire la parola di Dio et molto usava la chiesa di san Paolino. Divenne che facendo alla chiesa ditta ogni giorno suo viaggio, uno prete in tal chiesa nomato prete Anflrone [le disse]: 0 cuore del mio culo, come mi fai morire lo cuore et crescer I la verga! parlami. La donna, udendo tali parole, disse: Oggimai non è più domenica, et pensò andare a san Piero Macaruolo, quine presso a vinti braccia, in nella quale [chiesa] uno cap- pellano di san Paolino, chiamato prete Fonseca, officiava. Inva- ghendosi di costei, come sola a san Piero la vide venire, disse: Anima mia, ti prego che tu mi presti la tua borsora al mio v chierco che sotto mi sta. Madonna Margarita senza parlare di • quella chiesa uscio dicendo: Omai in nella parocchia mia non posso usare, et pensò andare a udire l'officio in santa Maria Fi- licorbi. Qui ne viene et così la mattina seguente se n'andò a santa Maria. Prete Ronchetta di santo Angelo, che quine era cappellano, vedendo la donna venire in chiesa, subito pensò dirle il suo pen- sieri et preso tempo disse: Donna, io ti vorrei roncare; et altre parole disoneste le disse. Le quali la donna, incorporato tutto, stimò volerla a Vanni suo marito contare la mena di ditti preti, et subito ritornata a casa a Vanni disse quello~che da' ditti preti avea ricevuto di villania. Vanni, che malcontento era di tai cose, cognoscendo la sua donna netta, disse: Io voglio pagare costoro secondo hanno meritato, dicendo: Margarita, ora si vedrà il tuo onore e '1 mio vorrai mantenere. La donna disse che sì, se ne dovesse morire. Vanni disse: Farai che domenica vadi a san Paolino, et come prete Anflrone niente ti dice, ascoltalo, et digli che tu sei contenta che la sera vegna a te in sulle tre, di- cendogli che io sia ito di fuori, et dato l'ordine con lui, te n'an- drai a san Piero Macaruolo et a prete Fonseca dirai il simile, et poi a prete Ronchetta farai lo somigliante. Et venuto 1' ora della sera, ciascuno metterai in fondaco et cenerete, et cenato 44 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI farai in tre bigoncioni tre bagni, l'uno giallo, l'altro rosso, l'altro azzurro, facendoli lavare tutti a, un colpo, et quando sentirai romore faralli entrare cosi nudi in nella botte et tu tira il tem- pano a te. La donna disse di fare tutto. Et la mattina a~cia- "scun de'ditti preti die 1' ordine che la sera venissero, non sa- pendo l'uno dell'altro. Passato il giorno, la donna fé' fare da cena, et sonato le tre, prete Anfirone fu lo primo che dentro entrò. La donna lo misse in fondaco, et poco stante prete Fonseca fu tenuto. La donna lo misse quine u' era prete Anfirone, et tro- vandosi insieme disseno: Ora ci siamo amendue, e ciascun disse il modo adoperato (1). Et poco dimorò che prete Ronchetta fu venuto, et chiuso l'uscio lo menò in nel fondaco, dove tutti tre ricognosciutisi, la donna disse: Poiché tutti tre m'avete richiesta d'amore, io non vedea più atto tempo a potervi tutti tre servire se non stasera, et pertanto state contenti che per tutti ce n'ha, et dapoi in negli altri giorni potrà ciaschun di voi prendere di me piacere. Li preti contenti, parendo loro un dì mille che fus- seno alle prese, la donna apparecchiato li buoni capponi, attinto il vino, di brigata cenarono et cenato la donna disse: Prima che noi andiamo a letto vo' che tutti noi ci laviamo. Li preti con- tenti, spogliati nudi, a ciascuno apparecchiò il suo bagno caldo et così dentro in nelle tino li misse. La donna, per dare più fede alla cosa, simile si spogliò et in nell' acqua calda si lavò. Et mentre che lavati funno, subito l' uscio fu picchiato. La donna di subito vestitasi della camicia disse: Preti, entrate in celesta botte fine che io vegga chi si è. Li preti cosi nudi in nella botte entrarono et aperto l'uscio Vanni disse: Or che vuol dire che cosi in camicia se' in bottega? La donna disse: Io era per andare a dormire, et ditto questo subito n' andò alla botte et 1' usciolo trasse a se dicendo: Io non voglio che Vanni vi vegga et fine che starà in fondaco, [starete] ser- rati cosi. Veduto Vanni li preti in nella botte, subito la stan- ghetta vi mise, acciò che aprire non la potessero. Et disse alla donna: E' mi conviene stasera un poco lavorare, perchè domat- tina mi conviene andare altrove. La donna disse: Or non andasti oggi? Vanni disse: No. Li preti tutto ciò che diceano udiano. La donna disse: E' sere' meglio che tu n' andassi a dormire et io rimarrò a fare bollire il vagello fine che arai un poco dor- (1) Ms.: delloniato. DE VITUPERIO PIETATIS 45 mito. Vanni dice: Poiché tu sei spogliata, vanne a letto et io farò alquanto et poi ti chiamerò. La donna dice : Fa ciò che vuoi. Li preti dicono l'uno all'altro: Per certo la donna ci volea pur ser- vire et hacci servito et vedete quanto sottilmente n' ha voluto mandare Vanni a letto: ma non ci diamo pensieri, che a mezza notte ella ritornerà. Et sì andò Vanni in bottega e facendo suoi fatti, chiamò certi suoi garzoni che di contra stavano, et quelli venuti, tutta notte li fé' lavorare, e Vanni alquanto in bottega dormio fino al giorno. Vanni mandò alla piazza per sei portatori et quando funno venuti disse a'suoi garzoni et a certi suoi amici che parte n'an- dasse all'uscio della chiesa di santo Paolino et parte all' uscio della chiesa di santa Maria Filicorbi et qualunque persona trafflgurata venisse che quelli prendesseno fine che tornava. Messe le poste. Vanni disse a quelli portatori che volea che portassero quella botte in piazza di san Michele. Li portatori, legata la botte, non sapendo i preti niente di quello che Vanni volea fare, sentendo dimenare la botte, stavano cheti dubi- tando morire. Legata la botte, li portatori portatala in piazza, di presente Vanni prese una scure venendo tagliando li legami de'cerchi, le persone facendo cerchio, stimando Vanni esser im- pazzato. Et poco stante da'cerchi slegata la botte, andata in uno fascio, li preti l'uno rosso, 1' altro giallo, 1' altro azzurro fine a' capelli, nudi fuggendo per la piazza, le persone tennero loro dirieto. Li preti, non sapendo u' poter fuggire, si drizzonno verso le loro chiese, et volendo prete Anflrone et prete Fonseca en- trare in san Paolino et prete Ronchetta in santa Maria, le guardie poste, vedendo costoro, subito quelli presono, et venuto Vanni e li altri vicini disseno: Costoro sono li nostri buoni preti che sono tornati da Gerusalem da' perdoni. Et pertanto è bene che con questa santità si presentino a messer lo vescovo, et così fu- rono per li vicini menati a messer lo vescovo. Lo vescovo, ve- dendoli et avendo notizia chi erano, subito li fece mettere in prigione et privati del beneficio, d' altri migliori preti le chiese sijrifqrmaro et quelli preti cosi nudi funno tenuti tanto cEé^ caldo della loro disonestà fu loro uscito d' addosso, et mandati fuori di Lucca come cattivi finirono loro vite. 4t) NOVELLE DI GIOVANNI SERGAMBI 10. [Triv., u° 13]. DE MULIERE ADULTERA Uno nomato ser Gola da Spoleto, del quale altra volta avete udito contare in nella novella dell'omo giustiziato a Perugia, lo quale ser Gola avendo una sua donna bella nomata Ma- telda et avendo veduto i modi tenuti da quella di Perugia, tor- nato a Spoleto, pensò di provare la moglie se il bene che a lui dimostrava di volere era fermo come in apparenza dicea. Et era stato alquanti dì in Spoleto con lei, un giorno fìngen- dosi d'esser malato disse: Matelda, per certo l'aere di Perugia et l'affanno che io vi portai all'officio m'ha condulto a tale che veramente io mi morrò. Matelda, che ode ser Gola, piangendo disse: 0 marito mio, come farà la trista tua donna se mo- rissi? per certo io m' ucciderei; et tale era il duolo che Ma- telda facea di quello che ser Gola gli avea ditto, che parea che gh fusse morto, mettendo guai inesprimibili. Ser Gola disse: Donna, qui bisogna altro che piangere, però mentre che arò vita in corpo ti prego m'ajuti in quello si può. La donna disse: Ohimè, marito mio et diletto mio, che mai altri non cognovi, or non debbo languire udendoti (1) cosi dire? per certo non me posso tenere, tanto è l' amore e la lealtà che t'ho portato et porto. Ser Gola disse: El me pare cognoscere; nondimeno ora ti prego mi soccorri che uno argomento mi facci, forsi Iddio vorrà che io al presente non muoja. La donna quasi transita strinse le pugna dandosi per lo petto et alquanto stata dicendo: 0 ser Gola mio, quanto la morte tua mi nuoce che piuttosto vorrei morire che tu!, ser Gola disse: La morte è durissima e molto scura a vedere. La donna disse: Ser Gola mio, non dite più che ogni volta per voi muojo. Ser Gola raffermando che crede che lei l'amasse, ma che subito ordini d'avere ceci per fare uno jr^o- mento, tanto lo disse, che madonna Matilda si mosse et ajidò fuori di Spoleto per alcuni ceci a uno orto, et mentrechè fuori andò ser Gola prese un gallo, il quale Matelda se l'avea notri- (1) Ms.: vedendoli. DE MOLIÈRE ADULTERA 47 cato, et era si domestico che sempre per casa andava dirieto a Matelda. Et preso questo gallo, subito lo pelò et sotto una cassa lo raisse sotto il letto, et riposesi ser Gola in nel letto facendo vista di dormire, tanto che la moglie tornò. Et giunta la moglie in casa et andata al letto, vedendolo colli occhi serrati, disse: Oggimai sarò mia donna. Et stata alquanto sbaigliando, misse uno strido gridando: Soccorretemi. La donna che quine era, pian- gendo disse: 0 tu se Vivo? Ser Gola disse: Donna, io m'ho so- gnato che la morte deVenire a me in forma di un uccello pelato et de' mi uccidere e portare via. La donna piagnolente dicea: 0 morte, portami me et ser Gola lassa. Et questo disse molte volte. Ser Gola disse: Donna, prima che io muoia io mi vorrei confessare dal nostro sere. Madonna Matelda disse: logli andrò a dire l'ambasciata. Et molto cerchiandosi, se n'andò a uno luogo della camera u' era uno specchio specchiandosi et conciandosi come se dovesse andare a nozze. Ser Gola, che avea sentita la voce et aveala veduta specchiare, preso di Matelda sospetto, pensò tutto vedere senza dire alcuna cosa. Goncia la donna, col mantello usci (1) di casa per andare al sere, il quale avea nome Pistello, et tal nome gli fu dato perchè era bene ammassariziato da far pestare salsa in neh' altrui mortaio. Ser Gola, conie la donna fu uscita di casa, lui per un altro uscio dalla parte dirieto uscio, et prima che la donna fusse a casa del sere, ser Gola vi fu dentro entrato et quine segretamente si nascose. Venuta Matelda a casa del prete Pistello, senza pregare ne chiamare, incontrata una scaletta, al prete se n' andòe. Prete Pistello disse perch' era venuta, meravigliandosi, dicendo: Sta- notte non fosti? et ora che vieni? che sai che stanotte pas- sata io pestai nel tuo mortaio tre volte la salsa, et anco sai che ogni giorno che ser Cola è stato a officio io t'ho cantato alcuna volta una messa et una cavata; ora che vuoi? Disse Matelda: Se fusse tempo, prima che altro vi dica, vorrei che una volta pestaste la salsa in nel mio mortaio. Il prete disse che le dovea bastare quella salsa che avea avuta la notte almeno per tre di. Ser Gola che hae veduta la donna montare cosi liberamente, disse fra sé: Gostei n'è stata altra volta, et udendo le parole di prete Pistello et di Matelda disse: Ornai potrò navigare a buon tempo, poiché Matelda fa dire si spesso tante messe et tanti ca- (1) Ms. : uscita. 48 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMKl vati. El sentio rainbasciata che Matelda dice ai prete, la quale, poiché vide che prete Pistello non volea fare salsa, disse: Ser Gola vuol morire et prima che morisse vuol essere confesso. Lo prete disse: Vattene e di' che s'apparecchi et io verrò. Uditogli confessare ser Gola la moglie, subito se n'andò a casa, aspettando Matelda. Venuta Matelda all' uscio, ser Gola alzò un poco la testa dov'era il gallo pelato. La donna giunta in ca- mera, ser Gola disse: Donna, la morte è venuta poi ti partisti et hammene voluto più volte portare, senonchè io gli ho ditto che io mi volea prima confessare, me n' ha reportato, et però sollecita il sere che vegna. La donna dice: Ser Gola, dite alla morte che ne porti prima me et voi lassi. Ser Gola disse che sollecitasse il sere. La donna fattasi in sull'uscio, prete Pistello giunge et entra in camera segnando a ser Gola. Sollecitandolo ser Gola disse: Ben vegna il santo prete, et posesi a sedere al lato a ser Gola in presenzia della moglie e disse che peccato avea. Ser Gola disse: Io ho tanti peccati che io non ve li potrei mai dire, ma io vi so ben dire che se non fusse che la donna- mia v'ha fatto dire delle messe e delle cavate per li miei pec- cati, io sarei dannato. Disse lo prete: Ghe altro peccato hai? Disse ser Gola: Avendo io gran voglia di mangiare, non avendo salsa, per vostra grazia più volte avete a Matelda prestato il vostro pistello e lei in nel suo mortaio ha fatto spesso la salsa, che m'ha tutto allegrato. Ma ben vorrei, prete Pistello, noi v'a- .vesse renduto quando glie l'avete prestato, perch'e' vale assai, e questo è il terzo peccato dell' avarizia. Lo prete disse: 0 altro peccato hai? Ser Gola disse: Si, che la donna mia che tanto m' ama che vorre'morire prima di me, et questo è sommo peccato ch'io hoe, et ditto questo mostrando di stranutire si voltò e levò tutta la testa d'addosso al gallo et ritornò al prete dicendo: Da- temi la soluzione. Lo prete, postogli la mano al capo, lo gallo accostatosi alla donna, la donna spaurando si mosse, lo gallo dirieto. Ella credendo fusse la morte dicea: Portane lui et non me, et voleasi fuggire. Lo gallo direto, che non sapea la donna che fare, dicendo: Portane lui et non me; ser Gola, che tutto sapea et udia, disse al prete: Andate a Matelda che mi pare che abbia paura. Lo prete andò a lei dicendo : Gostui è morto, omai faremo a nostro modo. Disseta donna: Or non vedete qui la morte? Lo prete subito si fug^io di casa stimando ser Gola dover passare. La donna venuta in camera per paura dicendo: Ser Gola, non voler che io muoia che sai che le messe e le cavate che io ho DE MULIERE ADULTERA 49 dette per te t'ha libero dall'inferno, ser Gola disse ; Per premio di ciò io ucciderò la morte. Et prese uno bastone, et una basto- nata dava a Matelda, l'altra al gallo, dando alla donna assai forte, tanto che la morte fue uccisa. La donna secura disse : Or perchè m'avete dato? Ser Gola disse: Perchè già era incorporata colei et così t'ho scampata et altro non gli disse. RsiiiEB, Novelle di 6. Sercainbi 50 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI 11. [Triv., n» 14]. DE BONO FATTO. In nel contado di Milano fu uno contadino assai sofficiente, il quale avea uno suo figliuolo nomato Pincaruolo, bello del corpo, et morendo il padre del ditto Pincaruolo lassò la donna sua no- mata madonna Buona, et lei lassò donna in casa con questo suo figliuolo, avendo già anni dodici. La ditta madonna Buona disse : Pincaruolo figliuol mio, tuo padre è morto et a noi ci converrà vivere con quello che '1 tuo padre n'ha lassato. Et pertanto, fi- gliuolo mio, ritiromi a fare alcuna volta delle legna et a Milano portarle et col nostro asino ci potremo passare, come i nostri vicini. Pincaruolo disse: Madre, io farò quello vi piacerà. Et co- minciò a fare delle legna et a Milano le portava e i denari re- cava alla madre, et così seguio più tempo. Avvenne uno giorno che essendo molto ingrossate l'acque et Pincaruolo volendo fare legna in uno ontaneto, l'asino essendo carico, non potendone uscire de' colpi dati et del fango et anco per lo poco aver man- giato, l'asino convenne morire. Morto che Pincaruolo vide l'asino, pensò di scorzarlo et il cuoio apportare a Milano a vendere, et come pensò fé'. Et auto li dinari del cuoio, subito ritornò alla madre dicendo: Ecco i dinari del cuoio dell'asino nostro. La madre volse sapere in che modo l'asino morto era. Pincaruolo gliel disse. La madre disse: Figliuolo mio, non te ne dare ma- linconia, noi aremo un altro asino. Standosi la sera la donna con pensieri dell'asino perduto et Pincaruolo, se n'andarono a dormire. La mattina Pincaruolo disse: Madre, io voglio andare a vedere che è dell'asino nostro. La madre disse: Non te ne curare, che bene aiemo dinari. A cui Pincaruolo disse: Io andrò pure a vedere, et mossosi andò al luogo dove l'asino morto avea lassato. Et vedutovi molti uccelli intorno, disse : Se io avessi uno di quelli uccelli, io sarei ricco. Et subito prese delle pietre et chiamatoli se n'andò all'asino, pensando intrare in nel corpo del- l'asino, et come li corbi venissero per li piedi prenderne uno. Et come pensò misse in effetto, che chiamato i corbi et entrato in corpo all'asino, li corbi venuti, Pincaruolo un ne prese. Et di la testa uscio fuori dell'asino et quello legò con uno cordone DE BONO FATTO 51 che aveva, et fu tanta l'allegrezza ch'avea, che non si ricordò di ritornare alla madre, ma missesi in camino verso ponente. La sera arrivò in una villa di lungi da Milano quindici miglia, et venendo la notte si risteo a casa di uno contadino. Quine essendo la donna del contadino et ricercando Pincaruolo albergo la sera con quel suo uccello, la donna disse: E' non ci è (1) lo mio marito, ma aspettalo et egli v'albergherà. Pincaruolo aspettò avendo gran fame et puosesi all'uscio della casa a posarsi et mentre che in tale stato stava, la donna subito d'una pentra cavò "^ uno cappone cotto et in una tovaglia lo 'nvolse et misse in nel- l'arcile. Et poi trasse di du' testi una grosta di pollastro et quella ,. misse in una cassetta. Riposta la grosta, aperse uno forno et di quello trasse una fogaccia incaciata et simile quella in nell'ar- ^ Cile misse. Pincaruolo~fa vista di non vedere; la donna pensa che '1 giovano non s'accorga di nulla. Et poco stante lo marito della donna nomato Bartolo chiamò la donna sua, chiamata Sofia: Chi è questo giovano? Disse: Parmi persona che vorre' che sta- sera noi l'albergassimo; et però, se se' contento, io te ne prego. Bartolo disse: E' mi piace, e misse il giovano in casa, et chiuso l'uscio et acceso il lume si misse Bartolo a taula per cenare, et y disse al giovano che cenasse con lui. Pincaruolo, ch'avea già fame, credendo mangiare di quelle cose che la donna avea ri- posto, fu contento et a taula si pose col corbo in braccio. La donna arrecò a Bartolo et al compagno un pan migliato et al- quante fave fredde et due capidagli con alquante fronde di porro. Bartolo, che tutto '1 dì aveva vangato uno campo presso a casa, avendo fame, mangiò, et simile il giovano, parendo loro un pre- ^ sutto. La donna, attinto il vino, alcuno boccone si misse in bocca, et così cenarono di brigata. Et poi Bartolo disse al giovano: Va, ^ posati in cotesto tettuccio, et lui con la donna se n'andarono a dormire in nel loro letto. Pincaruolo avendo veduto che di quelle cose che la donna avea riposto niente se n'era toccato, stimò per certo la donna essere di cattiva condizione. Et pensò nuovo ^ modo d'appalesare quelle cose a Bartolo, per poter mangiare meglio che mangiato non avea. Et stato alquanto, il giovano strinse (2) il pie al corbo, tale che '1 corbo cominciò a grac- chiare. Pincaruolo gridava (:3) che stesse cheto, dicendo: Tu fai (1) Ms.: non essere. (2) Ms.: si misse. (3) Ms. : gridando. 52 NOVELLE DI GIOVANNI SERGAMBl male a svegliare questo buono omo e la donna, che sai quanto onore stasera ci hanno fatto. Bartolo, udendolo gridare, al gio- vano disse: Che (1) volea dire? Lo giovano disse: Questo mio uccello dice che e' vorre' di quella grosta di pollastri che è in nella cassa. Bartolo subito levatosi et andato alla cassa trovò la grosta de' pollastri. Chiamato lo giovano, lo fé' levare, et preso del pane quella grosta mangionno, dandone alquanta al corbo. Par- lando lo marito diceva (2): Sofìa mi tratta a questo modo et me dà pane migliato et fave, et per sé con qualche prete si gode le groste de' pollastri. La donna, questo udendo, maladice la ve- nuta del giovano. Mangiato ch'ebbe, Bartolo ritornò a letto e niente dice alla moglie. Et stato per lo ispazio di due ore, Pin- caruolo di nuovo fa gridare lo corbo con parole alte, biasimando il corbo; alle cui grida Bartolo disse che voleva dire. Lo giovano dice che non voleva dir altro se non di quel cappone et di quella fogaccia che è in nell'arcile gli fusse dato. Bartolo, ciò udendo, uscito del letto, all'arcile se n'andò, et quine trovò uno cappone et una buona fogaccia. Bartolo, chiamato il giovano, attinto del vino, quella fogaccia et cappone mangionno e allo corbo ne denno, mormorando la doiina di quello avea sentito. Bartolo disse a Pincaruolo: Deh piacciati dirmi che cosa è questo uccello. Pin- caruolo disse: Egli è uno indivino, che tutto ciò che si facesse di dì e di notte indivina. Ora lo credo, disse Bartolo, a quello ho ve- duto, et però ti prego che questo mi cedi. Disse il giovano: E' vale tutto il tesoro. Disse Bartolo: Io ti vo' dare fiorini cinque- cento et uno paio de' miei buoi et tu mi da' questo indivino. Lo giovano disse: Poiché stasera m'avete ricevuto, io sono contento, ma tanto vi vo' dire che se per avventura uno omo gli pisciasse in capo, subito morire', altrimente morir non puote. Bartolo disse: Io farò una pertica tanto alta con uno spago lungo, che persona non gli potre' in capo pisciare. Lo giovano dice che bene ha pensato. Madonna Sofia, che ha udito tutto, cheta sta fino al giorno. Lo giorno venuto, Pincaruolo si parte co" de- nari et co' buoi et camina verso ponente. Bartolo concia la per- tica e lo indivino, et prese sue vacche in nel campo presso a casa, andò a lavorare. La donna rimase trista e sconsolata in (1) Ms. : elio. (2) Veramente il ms. ha: parlando lo corbo dicendo, m& è una confusione. 11 fiorilo non parlava se non per finzione di Pincaruolo. DE BONO FATTO 53 casa. Sopravvenne prete Rustico, prete della chiesa, et disse: Sofìa, come godiamo? Sofia disse: Male. Lo prete disse: Perchè? Sofia disse tutta la convenenzia della grosta e del cappone et della fogaccia et del giovano et dello indivino, dicendo che Bar- tolo l'avea comprato fiorini cinquecento et uno paio di buoi et che mai quel fatto non potevano più fare. Dice prete Rustico: 0 perchè n'abbiamo lo 'ndivino? Or non si può lo 'ndivino fare morire? Madonna Sofia disse: Sì, se altri gli pisciasse addosso. Lo prete disse: Cotesto farò io bene. La donna disse: Come? Lo prete disse : Io monterò in sul tetto, tu picchia sotto e sopra il capo dello ndivino, et io scoprirò del tetto et quine metterò il mio compagno et pisciando ucciderò lo indivino. La donna disse: Faccia (1) Iddio vel cresca et ingrossi il vostro compagno, che bene avete pensato. Lo prete montato in sul tetto, madonna Sofia con pertica picchia il tetto, il prete sente e discuopre il tetto et per le tempie mette il suo compagno assai presso e co- mincia a pisciare sopra lo 'ndivino. Lo corbo, che naturalmente traggo alla carogna, come sentio l'odore della carogna del prete, subito alzati gli occhi verso il tetto, vedendo il compagno di prete Rustico, stimando Jusse carogna cora'_era, subito volando colli artigli e collìéccó^ tale "carogna prese. Lo prete, sentendosi per la coda preso, subito cominciò a gridare. Bartolo, che in nel campo era a lavorare, alzati li occhi al grido, vide prete Ru- stico in sulla sua casa gridare. Partissi et a casa n'andò; quine vi vide il suo indivino tenere stretta la carogna del prete. Bar- tolo gridando: Indivino, tieni forte; prete Rùstfco, udendo Bar- tolo, per lo dolore et per la paura del morire dicea : 0 Bartolo, io mi ti raccomando. Bartolo, gridando allo 'ndivino, dicea : Tiello forte. Lo prete, avendo pena grande, disse: 0 Bartolo, io t'im- prometto, se allo 'ndivino mi fai lassare, che mai in questa casa non entro, et più io ti vo' dare fiorini trecento et uno cavallo et una guascappa nuova et tu mi fa lassare. Bartolo, udendo ciò che prete Rustico ha ditto, disse ch'era contento. E presa la corda dello 'ndivino et stiratolo per modo che tutta la carogna del prete isquarciò, che poi non molto tempo visse, venuto prete Rustico in casa et dato a Bartolo fiorini trecento e lo cavallo et la guascappa et quasi morto andatosene, Bartolo montò in sul ■cavallo, et co' fiorini trecento et con la guascappa si misse et (d) Ms.: fare. y 54 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI ./ u-*^'- andò per quella via dove Pincaruolo era andato. Et trovatola disse: Quel tuo indivino [ha fatto] quello dicei, et tutta gli contò la novella del prete. Et poi disse: Giovano, lo^non ti pagai bene; ora ti do questo cavallo et fiorini trecento, ma io ti prego che i buoi mi cedi et questa guascappa mi rimanga. Pincaruolo disse: Io sono contento. Et prese li denari e '1 cavallo, et rendeo i buoi, et accomandònsi a Dio. Pincaruolo montato a cavallo con fiorini otto cento dice fra sé medesimo: Io posso essere un gran signore, et poi ch'io sono a cavallo et ho tanti be' denari, da qui inanti mi potrò fare chiamare Torre et non Pincaruolo. Et camino verso Troia in Campagna, et tanto fu lo suo camino, che giunse, pas- sato l'alpe de Briga, in sulla pianura di Campagna. Et come passò per la pianura, vide uno il quale stava (1) alzato per modo che correre volesse. Torre fermandosi, non vedendo alcuno con lui, disse: Che fa costui? Et approssimandosi a lui disse che facea. A cui rispuose: Aspetto di prendere uno cavriolo. Disse Torre: 0 tu non hai cani né reti; come pensi alcuna cosa pren- dere? Rispuose: Io lo prendrò col corso. Torre meravigliandosi disse: Come può questo essere? — Se aspetti, lo vedrai. — Et poco stante uno cavriolo uscio del bosco. Colui gli tenne drieto et in pochi passi l'ebbe preso et a Torre l'appresenta dicendo: Vedi se io corro. Rispuose Torre: Di vero tu corri molto bene, et dicoti, se vuoi meco venire, io ti darò fiorini cento e la spesa, et se niente avanzo arai la tua parte, ma pregoti che mi dlchi il nome tuo. Rispuose: Io sono chiamato Rondelle, et sono con- tento teco venire, et tu mi dà fiorini cento. Torre, aperta la borsa, fiorini cento gli die. Rondelle si misse in camino con lui. Dilungati alquanto. Torre vide uno giacer in terra et disse a Rondelle: Colui de' esser morto. Rondelle disse: Io andrò a ve- dere. Subito fu a lui et vide ch'era vivo. Toito andò a lui et vide che tenea l'orecchio in terra. Disse Torre: Che fai? Colui rispuose: Sento nascere la grimigna. Torre meravigliandosi noi credea. Lui disse: Io vi senfi' quando diceste: Colui è morto. Torre disse se con lui andare volea, domandandolo del suo nome, il quale disse: Io ho nome Sentimento et sono contento avendo alcuno pregio. Torre gli offerse fiorini cento. Sentimento li prese et insieme caminaro. Caminato alquanto, vide uno che stava con uno balestro teso con uno bulcone. Torre disse quello facea. Ri- fi) Ms. : stando. DE BONO FATTO 55 spuose: Aspetto prendere alcuno uccello per desinare. — Or come lo potresti mai prendere, se qui non sono arbori dove li uccelli posare si possino? Disse: Se aspetti, vedrai quello che non credi. Et poco stante una rondina volando per l'aria, colui ba- lestrando la diede a' pie di Torre. Veduto Torre la virtù di costui, pensò di lui con li altri avere buona compagnia. Et domandandolo del nome, offrendogli fiorini cento, se con lui volesse andare, quegli (1) disse lui esser chiamato Diritto, che era contento seco andare, et presi fiorini cento, con lui et con li altri si misse in camino. Accostandosi verso Parigi a una giornata, vide uno il quale avea dinanti da sé uno mulino senz'acqua e senza vento. Torre disse: Deh che fae colui? Et andati a lui lo dimandonno quello facea. Rispuose: Macino grano col mio soffio. Torre disse: Ben aresti buon fiato se macinassi grano. Lui disse: La prova tosto veder ne potrai. Et messo stala tre di grano in nella tre- raoggia, dato un soffio alla macina, la macina non restò di volger tanto che stala tre di grano fur macinati. Torre, vedendo la sua bontà, gli disse se con lui andar volea et che a lui come alli altri dare' fiorini cento, et come avea nome. Colui rispuose : Io ho nome lo Spazza et sono contento avendo fiorini cento. Torre subito gli die fiorini cento et con lui n'andò. Avuto Torre li quattro compagni, et approssimandosi verso Parigi, sentio dire che re Filippo avea una sua figliuola nomata Drusiana, giovana da marito ; ma che la costuma era quale la vincesse di correre averla per isposa et chi fusse perdente morire. Et molti già aveano perso a correre con lei e tutti erano stati morti perchè ella li avanzava. Torre, sentendo questo, ristrettosi con Rondello, disse se lui volea esser quello che con Drusiana corresse et che lui mettere' la testa all'incontra. Disse Rondello: Messere, non dubitate, che se volasse la vincerò et voi arete di lei vostro piacere. Piacque a Torre il bel parlare e la buona profferta che Rondello avea fatta. Voltatosi alli altri tre dicendo: A voi che ve ne pare?, disse lo Spazza: Signore nostro, poiché desideri avere la figliuola del re Filippo, la quale è corrente e bella, ti dico che securo me ne prometto di farla [tua], che se Rondello non corresse tanto, lei io la riterrò col fiato, che largamente potrà giungere al luogo ordinato prima di lei, et per questo modo arai Drusiana. A Torre piacendo disse: 0 voi altri che ff^ (1) Ms. : il quale. 56 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI dite? Dissero Sentimento e Diritto che loro staranno a vedere co' loro argomenti et se bisogno sarà adopreranno per lui quello bisognava. Rimaso Torre contento et avuto la impromessa, giunli a Parigi, smontati all'albergo et vestitisi et li altri onorevolmente riposati alquanti die, Torre se n'andò a corte del re Filippo di- cendo che lui era venuto per essere suo genero, offerendosi a tenere la costuma. Il re disse che gli piaceva et ordinata la giornata, è dato l'ordine, mettendo Torre in prigione, con carico che se colui che menato avea a correre con Drusiana perdea, gli fusse la testa tagliata. La domenica ordinata che correre si debbia, ciascuno [presto] esser debbia per correre et tali per vedere, Rondelle [fu] presto dinanti al re, domandando che ca- mino fare doveano. A cui lo re disse : Vi moverete con uno fia- schetto di cuoio per uno et correrete fino a San Dionigi, et quale prima tornerà col fiasco pieno d'acqua delia fonte di San Dionigi ara vinto, et qual rimanesse arieto sarà perdente. Udito Rondello tal cosa, subito disse: Omai fate dare la mossa. Lo Spazza fat- tosi in sulla strada con Sentimento e con Diritto, aspettando che la mossa si desse, ordinata la mossa et data, la damigella cor- rendo, Rondello, che di leggerezza passava ogni animale, subito fu giunto a San Dionigi e '1 fiasco dell'acqua della fonte empio et a dirieto tornando, trovò Drusiana al mezzo il camino. La quale fattasi inanti, a Rondello disse: Giovano, omai veggo che hai vinto, che per certo ti dico che bene hai il tuo e mio si- gnore servito. Et pertanto senza molto affanno si può un poco riposare. Rondello, udendo le dolci parole, si puose a sedere con Drusiana et tanto fanno le dolce canzone che Drusiana dice, che lo fece addormentare. Et come vide che dormia, gli cavò il fiasco pieno dell'acqua di sotto il capo e il vuoto vi misse, et tornata in dirieto verso Parigi se ne venne correndo. Lo Spazza, vedendo Drusiana venire, disse : Male sta. Et fattosegli incontra, soffiando la mandava in dirieto. et come inanti venia, lo Spazza la rivoltava di diece tanti adrieto, et per questo la ritenne al- cuno tempo. Vedendo che Rondello non venia, lo Spazza disse: Per certo costui s'è morto. Disse Sentimento: Io saprò tosto sua condizione. Et posto l'orecchia in terra, sentio che Rondello dormia et disse: E' dorme. Disse Diritto: Quanto vi può essere |fin] ove dorme? et da qual parte della strada s'è posto a dormire? Disse Sentimento: Tre miglia et è a man dritta della strada. Diritto tende il balestro et veduto un bulcione percosse il fiasco che Rondello avea sotto il capo. Et svegliandosi, et veduto il bui- DE BONO FATTO 57 Clone e '1 fiasco voito, pensò: Io sono stato ingannato. Ma spe- rando che Spazza ritenesse la giovana, subito prese il fiaschette et a San Dionigi ritornato, empiette il fiasco dell'acqua, et dato volta, in poco dire giunse a Parigi prima che la donna. Et per questo modo Torre fu scampato et libero della prigione. Lo re Filippo, fatto sposar la figliuola et fatta la festa grande. Torre ebbe parte del reame di Francia (1). Li compagni. Rondelle, Spazza, Diritto et Sentimento, fé' conti di alcuni paesi, et vissero lungo tempo. Domando a voi, donne et omini, chi ha miglior ragioni dell'acquisto di Drusiana, o Torre, o Rondelle, o Spazza, 0 Sentimento, o Diritto? Et questo mi direte domani, quando saremo levati per andare a nostro camino. (1) Qui ho alquanto modificata la dicitura ingarbugliata del codice. 58 NOVELLE DI GIOVANNI SERGAMBl 12. [Triv., no 18]. DE NOVO MODO FURANDI. A Parigi, città di gran nome et di gran giustizia, in nella quale la corte de' re di Francia si tiene, fu uno ladro nome Ghupin, lo quale di continuo di dì et di notte si mettea a invo- lare così le piccole cose come le grandi, non avendo paura de la giustizia. Et dimorando molto tempo per tal modo, vedendo non poter uscire del fango, pensò di voler tenere modi da diventare ricco tosto. E '1 modo che questo Ghupin pensò, si fu fra sé di- cendo, molti omini per furti et per altre ragioni erano ogni settimana impiccati al giubbetto di Parigi et erano appiccati con belli vestimenti et alcuna volta con cintore d'ariento, di che questo Ghupin dispuose di furare le vesti di quelli appiccati fussero, fino alla camicia, pensando che tante fussero et di sì gran valuta, che tosto sare' ricco. Fatto tal pensieri, un giorno il giustizieri di Parigi menando al giubbetto più di venti persone, tra' quali erano alcuni cavalieri li quali erano stati a rubare le strade et altri rubare botteghe et cosi in un modo et così in uno altro assai orrevoli di vestimenti, coi quali il giustizieri li le' appiccare ; veduto Ghupin l'impiccati et ben vestiti, si mosse et andò al giubbetto, et quine spogliossi in camicia et montato in sulle forche, tutti li ditti appiccati ispogliò et poi rivestitosi tutte le robe che furate avea ne portò, aspettando che de' nuovi vi s'appiccassero. Et non molti dì steo che di nuovo circa dieci il giustiziere ne menò al giubbetto per impiccare, et vedendo li primi esser nudi in camicia, meravigliandosi chi quelli avea spo- gliati et non potendo sapere tale cosa, delibiròe pensare qualche modo di trovare quel ladro che li altri rubava. Et feceli con- durre al giubbetto et impiccati, et ritornò con dare ordine di man- darvi alcuni a vedere et così fece. Ghupin, che stava attento, veduto quelli che di nuovo erano impiccati, subito se n'andò al giubbetto, et spogliatosi in camicia et concio uno nastro alla forca con uno nodo di sotto pendente, incominciò a spogliare, et quando s'ebbe tutti spogliati, vide dalla lunga alcuni venire, li quali lo giustiziere li mandava alla guardia per vedere chi era quello che i ladri appiccati spogliava. Et tali vidieno in quel punto uiio sopra le forche e spronando verso il giubbetto per giungerlo, Ghupin, che [ha| veduto coloro di trotto venire al giubbetto, quel nodo del capestro co' denti prese e tra li appic- DE NOVO MODO FURANDI 59 cati nudi si misse pendente colle mani dirieto. Li guardiani giunti al giubbetto et non vedendovi persona, che slimavano tutti essere impiccati, et vedendoli tutti in camicia, si raaravi- glionno forte come colui che da lungi l'aveano veduto non aveano trovato et si tirorono arieto e fatto ritornorono al giustiziere. Lo giustiziere pensò trovare altro modo. Ghupin, partiti coloro, subito presi li [vestimenti] de' ladri, si partio, et quelli nascosti, sperando ogni giorno tener questi modi, [steo attendendo. Stando] Ghupin in Parigi, et vedendo tre menare al giubbetto, li quali aveano assai [poveri vestimenti] (1), salvo che uno di loro avea una scarsella di stima di grossi due, disse : Cotesta scarsella sarà mia, et simile cotesti panni, posti che tristi sieno, me li terròe. Lo giustizieri secretamente, senza dimostrare a persona quello che volea fare, innumerò tutti quelli ch'erano al giubbetto, per vedere chi era quello che spogliava l'impiccati et [ordinò che] se trovassero essere stati spogliati rimangano tutti a guardia, salvo che a lui mandino uno. Et quelli, udita l'ambasciata, usci- rono fuori di Parigi, et quando videro lo giubbetto, videro uno sopra le forche per lo modo di prima. Ghupin, che già avea spo^ gliati et erasi per partire, veduti coloro che al giubbetto veniano, subito co' denti s'attaccò al nodo del capestro, lassandosi pendere come di prima tra quelli impiccati. La brigata giunta et non potendo vedere il ladro, vedendo quelli tre spogliati, subito man- darono uno al giustizieri. Lo giustizieri venne al giubbetto. Ve- dendo ogni persona spogliala, cominciò a nomerare l'impiccati e trovò che uno ve n'era più che non dovea essere. Subito co- mandò a uno sergente che con una lancia forasse all'impiccati li piedi et disse forte. Lo sergente cosi fé', andando ferendo le piante de' piedi alii impiccali e neuno sentimento aveano. Ve- nendo a Ghupin et percotendolo in nelle piante colla lancia, sentendoli forte, tirò in su le gambe. Lo giustizieri, ciò vedendo, disse: Questo è quello ladro che i ladri più volte ha rubati. Et fatto montare uno sergente in sifl giubbetto, trovò Ghupin che teneva in bocca quel nodo, et fattogli lassare, lo giustizieri disse : 0 Ghupin, non t'è valuto lo tuo ingegno et come tu t'hai eletto il luogo, così ti rimarrai. Et quine con uno laccio al collo in quel luogo lo fé' impiccare per la gola. Et per questo modo fu poi salvo il giubbetto, che più l'impiccali non furono spogliati. (1) Tre lacune nel ms., cui ho cercato rimediare seguendo il senso e te- nendo calcolo degli spazi lasciati in bianco. 60 NOVELLE DI GIOVANNI SERGAMBI 13. [Triv., n° 20]. DE FURTO EXTRA. NATURA. Nella città di Pisa fu uno nomato Zacheo , il quale volendo trovare modo di rubare, allevato uno cagnolo col quale di notte andava per Pisa rubando, moltissime botteghe strafisse. Et tanto crebbe la fama de' furti in Pisa, che tutti officiali di ciò si ma- ravigliavano, mettendo molte guardie di notte per più luoghi, non potendo trovare chi ciò facea: e acciò che non vada la nostra novella più inanti dico il modo che tale ladro facea. El modo era questo, che lui andava con grimaldelli et entrava in nella bot- tega l'un giorno e l'altro, e il cagnolo suo stava di fuori andando in qua et in là, et se vedea o sentiva (1) né famiglia né altro, tornava all'uscio, dove Zacheo suo signore era, a fiutare, et graf- fiava l'uscio, et allora Zacheo stava dentro cheto, e come vedea partita la famiglia o chi fusse, el cane grattava una volta e poi andava in qua et in là calcando la strada e Zacheo rubava a sicurtà. Et se sentia niuno, il cane tornava all'uscio e graffiava et questo facea tante volte quante genti passava. Et questa era la maniera che Zacheo tenea a rubare et con grande securtà vi si mettea, et mai non trovò che il cagnolo gli fallisse , et per questo modo molto avea rubato. Era questo Zacheo balestrieri, ovvero venditore di balestre et nondimeno ladro et delle cose che facea ne facea buona la sua bottega. Divenne una notte, che non potendo furare quello pensava, perchè in nella bottega dove volea entrare erano dentro certi che lavoravano, venendo presso la loggia della Signoria, furò uno balestro et alla sua bottega nel portò. La mattina il soldato, che si trovò meno lo balestro, va cercando et pensa : Chi l'ara tx)lto l'ara portato a vendere al ba- lestrieri. Et andato a Zacheo dicendogli : Sarebbe venuto niuno a vendere uno mio balestro che stanotte mi fu rubato?, Zacheo disse (che lui era stato che '1 furò) disse: No, ma se verrà io gli riterrò lo balestro, sicché tu l'arai. Lo soldato, non avendo sua intenzione, andò alli altri balestrieri se il suo balestro ritrovare (1) Ms. : sentisse. DE FURTO EXTRA NATURA 61 potesse, et non trovandolo, stati alquanti dì, fu de necessità do- verne un altro comperare. Zacheo , che quello balestro furato avea, l'avoa appiccato insieme con altri in nella sua bottega, non sapendo a chi tolto l'avesse ; posto che quel soldato fusse venuto a ricordarlo, nondimeno Zacheo sempre tal balestro in bottega tenea. E venendo quel soldato con alcuni compagni per comprare uno balestro per non perder soldo, Zacheo mostrandonegli molti da vendere, lo soldato, guardando alle pertiche, vide uno balestro che parea il suo, et presolo in mano et raffigurandolo, disse: Zacheo, questo è '1 mio balestro. Zacheo disse: Deh va, anfani , tu ? Questo balestro comprai già fu molti giorni. Lo soldato disse: Tu lo potresti averne comprato da chi tu vuoi, io ti dico questo balestro è mio e fummi furato non è molti giorni. Disse Zacheo: Se ti fu furato il tuo balestro, tu non arai il mio in suo scambio; 9 va per Gamalto (1), villaneggiandolo di parole. Lo soldato, che quine avèanpér sua compagnia alcuni, disse loro che ponessero mente in quel balestro e partitosi alla Signoria se n'andò dicendogli tutto ciò che del suo balestro era seguito, dal principio che andò a lui negando che neuno balestro avea da persona comprato ad /\ ora che (2) dice quel balestro avere comprato più mesi fa. Et io ; vi darò testimonianza che non è anco tre dì che io lo avea ed j a me alla guardia fu tolto. La Signoria subito ebbe sospetto di ^ Zacheo, et subito mandò per lui e fé' venire il balestro, e fatto il soldato la prova del suo balestro e '1 giorno che a lui fu tolto, disse : Zacheo, unde avesti questo balestro? Et Zacheo dicea che più mesi l'avea tenuto in bottega et che l'avea comprato et non sapea da chi. La Signoria, parendogli menzogna, lo mise alla colla. v\ Zacheo, senza molto tormento, confessò lui essere stato quello che j il balestro avea furato e più confessò li furti fatti col cane et el modo tenea e a chi. Tutto rinvennero, [et] veduto la verità, il predetto Zacheo col cagnolo fue appiccato per la gola a un paio di forche insieme, et per questo modo finio la persona di Zacheo ladro et così possi ogni ladro la sua vita finire. (1) Proprio COSI nel nis., ma c>he cosa sia io non ì<^ so. (2) Ms. : el ora dice. l^' 62 » NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI 14. I r [Triv., n» 22]. DE INGANNO E FALSITATE. Intervenne in nella città di Lucca, donde la brigata si partio, che venendovi uno da Racanato nomato Ghisello, vestito a modo ^ di mercadante con una guarnacca senza mantello, e con una ^ cintura di seta et uno carnieri di seta, e posato allo albergo, dimandando chi erano i migliori conoscitori di pietre preziose che in Lucca fusseno, fugli detto l'uno esser Tommasino Gagnoli e l'altro Pietro Pagani, amendui banchieri. E fattosegli insegnare al fante dell'oste, mostrò loro un ditale di bellissime anella et di gran pregio, come sono baiassi, rubini, diamanti, zaffiri, smeraldi ^y et alcuna perla, dicendo lui volere quelle anella vendere. Et il primo, cui tali anella mostrò, fue Tommasino, perchè a lui era ditto esser il migliore cognoscitore di là (1). Tommasino ," veg- gendo quelle anella bellissime, disse quello ne volea. Ghisello disse : Io ne vo' mille fiorini. Tommasino disse volergli dare fio- rini seicento, e dopo molte profferte Tommasino ne proferse fiorini settecento, e Ghisello non scendendo meno che ottocento si partio et a Pietro le mostrò. Et in quel medesimo modo funno le profferte di Pietro et lo scendere di Ghisello come avea fatto a Tommasino, et non firmatosi partio. Ghisello prese il suo ditale et in nel car- nieri che allato avea lo misse, et per la piazza se ne andava di- portando in qua et in là. Tommasino, vedendo che a Pietro avea mostrate le anella, s'accostò a lui e disse : Pietro, che ti pare di quelle anella? Pietro disse : Elle sono molto belle. Disse Tom- masino: Io non posso con lui avere patto neuno et honegli voluto dare fiorini settecento, non ha voluto meno di ottocento, e però io ti dico forsi farai meglio di me et se vói tenere alterata, cioè a jnezzo, ti dico che in fine in fiorini settecencinquanta li pigliare'. Di vero noi guadagneremo fiorini dugencinquanta. Le rechi e io sono contento le prendi per me e per te. Disse Pietro : E io cosi farò. Andatene a desinare et paja non ve ne curiate, e lassate fare a me. Tommasino si partio dal banco: Pietro rimase al suo (1) M9.:,éiìm DE INGANNO E FALSITATE 63 banco. Vedendo G-hisello in piazza non esser persona e a' banchi non esser che Pietro, accostatosi a Pietro, [questi] disse: Deh ven- dimi quelle anella. Ghisello mise mano al carnieri e cavolle fuori e disse: Io ve ne vo' fare pratica e dirovvi che vagliono più di mille fiorini, ma per bisogno di dinari, che ne vo' comprare drappi, io ve ne farò piacere. Pietro disse : Deh datemele per fiorini settecento. Ghisello disse non volerne meno di fiorini ot- tocento. Ghisello mise ranella in nel carnieri et scese giù in via. Pietro gli offerse fiorini settecencinquanta. Ghisello disse: Poiché siete piacevole compratore, io sono contento, e mise mano in car- nieri e trassene uno ditale d'una fazione del primo d'anella con- traffatte, salvo le perle. Pietro, non stimando falsitii, prese il ditale et in nella cassa lo puone e dagli fiorini settecencinquanta. Ghi- sello, ch'avea il cavallo sellato, tramutatosi di panni, montato a cavallo è cavalcato via. Tornato Tommasino da mangiare, disse a Pietro quello avea fatto. Pietro disse : Io l'hoc avute per fiorini settecencinquanta. Tommasino disse : Bene hai fatto, noi guada- gneremo fiorini mille, mostrale qua. Pietro apre la cassa e '1 ditale mette in mano a Tommasino. Come Tommasino lo ha in mano, co- gnosce le pietre esser artefatte di vetro et disse : Questa mercanzia sera pur tua, perocché queste non sono le pietre che io avea ve- duto. Pietro subito prese l'anella et conobbe le pietre esser false. Dassi delle mani in nel capo e muovesi per trovare Ghisello, ma poco gli valse, che Ghisello era partito, per la qualcosa il ditto Pietro povero stentò poi la sua vita. Iddio, che non vuole che il male rimanga impunito, dispuose Ghisello andare a Vinegia avendo cugnati del cugno di Vinegia ducati d'ottone dorati in grande quantità. Et andato a una che vendea fregi e oro, mercadando di fregi e oro per somma di ducati mille, e pesati e legati tali fregi, disse Ghisello: Andiamo alla taula, che io voglio annome- rarvi li ducati, acciocché l'abbiate buoni. La donna v'andò et rìu- raerò ducati mille et quelli ligò in una borsa rossa et com'era li sugellò, presente la donna. Disse : Andiamo allaToTTega per l'oro e fregi. La donna giunta alla bottega, dati i fregi e l'oro, Ghi- sello gli dà una borsa simile a quella di ducati, piena di mille ducati d'ottone. Et partitosi, la dolina aperse questa borsa et in s' uno tappeto innomerava questi ducati, credendo che fusseno quelli che la taula avea ditto ch'erano nuovi e buoni. Avea questa donna uno figlio grande. Tornando a bottega, la madre gli disse quello l'avea venduto et come ella avea ben guadagnato e che aveva avuti ducati nuovi. Il figlio disse : Madre, bene sta, u' sono 64 NOVELLE DI GIOVANNI SERGAMBI questi ducati ? La madre, dandogli la borsa, il figlio aprendola, vide ducati luccicanti; parendogli fuori di usanza, ne prese uno et in s'una taula lo gittò, quello sonando. Disse : Madre mia, questi sono falsi e saremo a pericolo, se a noi fusseno trovati, e siamo disfatti. La madre volse gridare per lo danno avuto. Lo figlio, come savio, disse: Madre, lassate fare a me; e subito con quelli nuovi ducati se n'andò alla Signoria, dicendo il caso avvenuto alla madre e mostrò li ducati. La Signoria di Vinegia disse se la madre lo cognoscesse. Lo figlio rispuose : Bene ha ditto quello ricognoscere'. La Signoria consigliò al giovano che a persona del mondo non dicesse né dolessesi di quello che a lui era stato fatto, ma sempre a tutti (1) rispondesse esser ben pagato, perocché colui , non sentendo dolere , verrà. Lo giovano si ritorna alla madre e tutto gli narrò ciò che la Signoria l'ha ditto et cosi ce- latamente si sta la cosa più di un' anno. E Ghisello, non avendo sentito il lamentare , pensò di nuovo fare il tratto ; e venuto a Vinegia, pervenne alla donna domandando fregi. La donna subito disse: Ben vegnate; voi mi faceste subito pagamento altra volta che io vi darò quello volete. Et prese in fatti et mostratoli oro e fregi in quantità, facendo mercato. Vede questo, vede quello. Intanto venne il figliuolo. Vedendo tanti fregi e oro disse : Madre mia, che vuol dir questo? La madre disse: Questo mercadante comprò di me per ducati mille et femmi subito pagamento, che io sono disposta a servirlo bene. Lo figlio, che intese, disse: Così si vuol fare. Et partitosi e' andonne alla Signoria narrando il fatto. La Signoria mandò fanti e quello prese, e menato al dugio e a' signori di notte, cercatolo , gli trovonno addosso di quelli ducati falsi gran quantità, et anco di buoni tanti che poteo con- tentar la donna. E confessato il suo peccato, in una palandra i ditti ducati falsi furono cuciti et con essa indosso fu arso et per questo modo Ghisello fini. (1) Ms.: a nessuno. DE SUMMA AVARITIA 65 15. [Triv., n" 23]. DE SUMMA AVARITIA. [Fu] in nella città di Firenza uno ch'era nomato messer Ber- toldo Adiraari, omo ricco, ma tanto misero e scarso, che non che volesse altrui ritenere a cortesia, ma in nella sua propria fa- miglia se n'andavano a dormire con fame, tanta miseria in lui regnava, e più che da sera senza lume volea si cenasse, et se pur lume s'avea si facea accendere una lucerna , e quando se n'erano andati a dormire, la lucerna si spegneva per non consu- mare l'olio. Avea questo messer Bertoldo uno famiglio nomato Rospo, al quale dava il mese di salario fiorini mezzo et la spesa. Gom' è ditto, stando per tal maniera, lo ditto messer Bertoldo , per la cattiva vita che facea, et anco perchè era vecchio, am- malò. Et tale malattia portò lungo tempo senza volersi medicare per avarizia, tantoché la malattia s'aggravò per modo, che del letto levare non si potea. Vedendo la donna sua et altri parenti messer Bertoldo ammalato, disseno che voleano che maestro Tom- maso del Garbo lo venisse a vedere. Messer Bertoldo volea, ma per lo spendere dicea: Io non ho bisogno. Li parenti, cognoscendo che messer Bertoldo lo dicea più per avarizia che per altro, de- liberonno pure che lo maestro lo venisse a vedere. E così maestro Tommaso lo venne a visitare et cognoscendo la malattia, disse : Se costui non è un poco purgato e poi confortato di buoni cibi, egli è morto. La donna e i parenti disseno che tutto ordinasse alla bottega e che si pagare', et a lui farenno quello si conve- nisse senza farlo asentire a messer Bertoldo, però che prima e' v sere' voluto morire che spendere. Lo maestro partitosi e ordinato alcuno sciloppo, la sera Rospo famiglio andava per esso; con ^ aver ordinato alcuni cristei simplici, che dovean seguire (1) al v prender lo sciloppo. Divenne, la seconda sera va per lo sciloppo, lo speziale, avendo molto che fare, non poteo lo sciloppo dare fine che la grossa fu sonata. Sentendo Rospo la grossa, disse : -^ Or come n' andrò senza lume? Disse lo speziale: Se vuoi una (1) Ms.: e cosi seguio. Rrkiek, Novelli di 0. Serrambi. 66 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI candela, noi la scriveremo a te, però che messer Bertoldo n'ha mandato a dire che a lui non si scriva niente se non lo sciloppo e la medicina et che altra cosa non si pagare'. Rospo rispose: Io non ho tanto salario che io voglia questo fare , ma voi mi avete troppo tenuto et da voi non rimane che io non sia preso. Lo speciale gli die una poca di candela. Rospo se n'andò a casa e diliberò di arrecàreTd sciloppo. Passato quel dì, messer Bertoldo s'avea fatto uno argomento; per lo aver mangiato dapprima molto frascarne, se gli era ingenerato in corpo molti vermi, di che il ditto argomento ne mandò fuori molti e grossi. Lo fante, spaz- zando la camera dove messer Bertoldo avea fatto il suo agio, divenne che uno di quelli vermi, involtolato nella polvere , in uno cantone della sala fu lassato. Rospo , che di quello niente sapea, veduto quel verme in sala, stimò fusse una candela [et] quello si mise nella scarsella dicendo : ()mai potrò di notte con lume tornare. E passato alcuni dì che lo sciloppo fu preso, alcuna volta maestro Tommaso venendo a vedere messer Bertoldo e tastandogli il polso et avendo sentito che neuna confezione avea voluto per avarizia che si comprasse, disse: Se per nettare costui non prende una medicina, che la materia corrotta che ha in corpo ne meni fuori e poi si rinnovi di buoni cibi, costui è morto. La donna e i parenti disseno che lui ordinasse la medicina et che poi quelle (1) cose si comperenno per suo conforto; et dato uno fiorino a maestro Tommaso, lo maestro ordinò la medicina per la notte. Rospo, che mandato era a lo speciale per la medicina, vedendo lo speciale molto affannato a fare medicine , disse : Io posso un poco indugiare, perchè io ho una candela , che se la grossa sonasse tra via, la potrò accendere. E aspettando la me- dicina , essendo quasi presso alla grossa , la medicina fu fatta. Rospo la prese, e come fu fuori della bottega la grossa cominciò a sonare. Rospo , che ha la speranza della candela , che crede avere in nella scarsella, camina, et perchè la casa di messer Bertoldo era molto di lungi dalla bottega dello speciale, la grossa fìnio. Rospo, messosi mano in nella scarsella e trattone quello verme in iscambio di candela, per volerla accendere s'accostò a una che vendea frutta dicendo : Madonna , accendetemi questa candela. La tricca disse: Volentieri, et accostò il suo lume. Rospo prende quello verme, et parendogli che il lucignolo non si ve- (1) Ms.: delle. DE SOMMA AVARITIA 67 desse, co' denti vi de' di bocca, et uno poco ne levòe e poi al lume l'accostòe. La tricca, vedendo che si rodea , disse: Per certo cotesta candela è di cattiva cera. Rospo, pensando per terra o per acqua fusse quello che la facea stridere , di nuovo ne prese un bocconcello e quello menandoselo per bocca, come alcuna volta si suol fare, che chi vuole accendere una candela co' denti ne leva un poco et quello poco mastica, stimando questo sarà buono a turare la botte. Così Rospo pensa del pezzuole ha levato e volendo accendere il resto, quanto più l'accostava al lume tanto più stridea, tirandosi arieto. La tricca, parendogli una meraviglia che quella candela a tanto quanto era stata tenuta al lume non s'era appresa, disse: Dalla a me. Rospo aperse la mano et alla tricca diede quel verme, credendo fusse candela. La tricca, che altro verme s'avea già trovato in mano , al tasto disse : 0 Rospo, come tu se' stato sciocco a avere preso per candela et fat- tone il saggio du' volte colla bocca , et non hai ancora cogno- sciuto che cosa è questo. Rospo, che sempre masticava, credendo fusse cera, disse: 0 che è? La tricca disse: Questo è uno verme 0 vuoi dire mignatto, e mostròlogli aperto. Rospo, che sempre ma- sticava e sapea u' trovato l'avea, sputando et vergognandosi , di rabbia il bicchiere della medicina di messer Bertoldo percosse al muro dicendo: Poiché sono così stato trattato, lui non berrà la medicina. La tricca disse : Or che vuol dire? Rospo disse tutto il modo di messer Bertoldo. La tricca, avendo pietà di lui (1), perchè vede Rospo giovano, disse: Perchè non sii preso, vo' che stasera stii qui, che se tu n'andassi potresti esser preso. Rospo steo con- tento. La tricca gli dimostrò, essendo in nel letto, il modo perchè cognobbe quel verme, dandogli la mostra del suo, tenendolo in mano. Rospo disse: Per certo, madonna, voi siete molto inten- dente ; e così dimoronno. Messer Bertoldo, non prendendo la me- dicina, per la malattia grave et li umori multiplicati sopraggiun- gendogli alcuni dolori, la mattina maestro Tommaso venuto a casa e dimandato della medicina. Rospo disse : La medicina menò cinque volte. Maestro Tommaso disse: Se presa l'ha, egli è gua- rito. Rospo disse: Io così credo. E mentre che tali parole diceano, sentiano gridare e piangere. Maestro Tommaso, che volea salire la scala, disse: Per certo egli è morto. Disse Rospo: Io il (1) Ms. : di se. 68 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI credo sendochè voi diceste (1) Maestro Tommaso si partio. Rospo giunto in sala, la donna disse: La n^^dicina che non arre- casti ha morto messer Bertoldo. Disse Rospo : Anzi l'ha morto la sua avarizia, che so quanto messo se ha del mio per volerlo fare vivo, e la nostra tricca di contra la lo sa che più di cinque rughieri ho speso per salvare il mio mestro. La donna non in- tese il motto; ordinò che messer Bertoldo fusse soppellito, et la roba rimase a persone godenti et lui per una candela d'avarizia si lassò morire. (1) Qui certo nel ms. fu saltata una riga, quantunque non appaia este- riormente. DE PLAGIBILI SENTENTIA 69 16. [Triv., n« 25]. DE PLAGIBILI SENTENTIA. Nella città di Pisa fu una gentilissima donna e contessa, lo ^ ^" ^^*^' cui nome fu madonna Bambacaia de' conti da Montescudaio ' , donna d'una profonda vertù et .onestà del suo corpo, alla quale f omini ^Fdonne andavano perrisposta d^alcune questioni e d'altre cose. Or perchè la brigata et voi, preposto, vi siete in uno di- lettevole luogo posti a riposare et fuggire (1) l'aere cattivo di Bolsena, per rinfrescamento dirò alcuna bella novella e sentenzia per la ditta madonna Bambacaia assoluta et narrata. Et però (2) prego ogni persona a cui più diletta che quella legna a mente, incominciando prima dalle donzellette, le quali pungendo loro la lattuga per necessità, possano ad esemplo conoscere il vero ^ dal falso. — Tre giovanotte, essendo in uno prato come noi ora stiamo, mosseno tra loro una questione. Il tinore di tale que- stione fu in questo modo, che l'una disse di che fare' meglio per le donne lo pincoro djU'uomo, et qual meglio dicesse fusse chia- ^ » mata sopra l'altre maestra. E ' posta la questione, la primata Dolcibene disse: Io per me lo vorrei di ferro, perchè non si potesse mai rompere; con questo sare' molto duro, e taceo. La seconda, nomata Perla, chiesta: Io lo vorrei d'osso d'avolio, però che sere' pulito e non mi raflfreddere' l'uccello insaziabile, e più non disse. La terza, ch'è '1 suo nome Garacosa, disse: Io vorre' quell'uccello di nerbo. Ditta la loro volontà, e non avendo tra loro chi assolvere la sappia, disposero andare a monna Bamba- ! ^ caia acciò che ella, come maestra, sappia a loro dichiarire qual ■ 1 de' essere di loro maestra. Andatene a monna Bambacaia et ' esposte loro questioni, madonna Bambacaia, intese ch'ebbe tutte le giovane, rivoltasi a tutte, volse sapere il perchè Dolcibene lo voleva di ferro. Dolcibene disse : Perchè il ferro è duro et mai rompere non si può. Rispuose madonna Bambacaia : La tua speranza è falsa, però che il ferro essendo freddo per sua natura, rafrigera quel membro che vuol di continuo stare caldo et per (1) Ms.: fugito. (2) Ms.: quella. 70 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI lo stare caldo desidera sempre stare coperto; ti dico non dèi essere cliiamata maestra. E poi a Perla disse che assegnasse la sua ragione. Perla rispuose: Perchè l'osso è molto duro et è pulito, et questo vuole la nostra volontà. Madonna Bambacaia disse: Lo tuo pensieri non è buono, però che naturalmente Tosso non ha sentimento et è arido, e la natura femminile desidera cosa fruttifera ; et per questo non morti maestra essere chiamata. A Garacosa disse che mostrasse della sua questione la verità. Garacosa rispuose: Perchè '1 nerbo è alquanto sensibile et è uno membro assai domestico et è boccone che la nostra bocca, che sempre desidera avere in bocca qualche cosa, può quello con- durre in che luogo vuole. Madonna Bambacaia, udendo assai bella ragione, ma non anco efficace (1), disse: Di vero io ti darei il maestrato di costoro, se avessi detto compiutamente, ma perchè hai in alcuna cosa fallito, sono contenta che prendi tu lo primo onore. E voltossi a tutte et disse: Io lo vorrei di grugno di porco, che quanto più rumica, più diventa caloroso. Le giovane, udito madonna Bambacaia, dissero : Di vero per le donne fare* se fusse di grugno di porco, et partironsi. (1) Ms. : anno eficacia. DE ASTUZIA IN JUVANO 71 17. [Triv., no 28] DE ASTUZIA IN JUVANO. Nella città di Genova fu uno messer Adorno Spinola, il qual avea uno suo figliuolo et non più, il quale avea nome Andriolo. Era questo Andriolo, per vezzi che il padre gli portava assai mal nodrito, nondimeno per natura era savio, e non volendo intender a mercanzia nò ad altro esercizio di guadagno, ma in sul vagheggiare e spendere la sua opera, di che il padre ne portava gran dolore, considerato lui esser di tempo e ricco e di buona casa et non avere altro figliuolo. Per amore noi casti- gava et di malinconia era pieno, vedendo il figliuolo isviato e a noun bene riducersi. E stando per tal maniera lo ditto Andriolo, vedendo un àT una giovana vedova bella quanto il sole nomata madonna Chiara delli Adorni, ricca e di buono parentado, e pia- cendogli, s'innamorò di lei. Madonna Chiara, ch-e di ciò non s'è accorta, ma onestamente lo dì delle feste con una sua fante alla perdonanza n'andava e '1 giorno del lavoro si stava onestamente in casa. Andriolo, avendo già sentito il colpo dell'amore di costei, dove madonna Chiara andava^ lui drieto. E '1 giorno che in casa stava sempre davanti tutto '1 giorno facea residenza con onesto modo, né perciò madonna Chiara s'accorgea che Andriolo gli volesse bene. Avendo dimorato molto tempo Andriolo in tal ma- niera, e dalla donna mai non ebbe un bello isguardo, pensò fra suo cuore dicendo: Se io avessi dinari, io la vorrei avere, poichè l'amore ci è, non che avale. E come pensò, diliberò per uno onesto modo dal padre avere dinari. E più tosto che poteo disse al padre: 0 padre, mi cognosco che è fatto beffe di me, perocché io sto come un tristo a non fare nulla, e considerato io quanto è la vostra alta fama in Genova, almeno per rispetto di voi, che ornai sete vecchio, mi dovrei sottomettere a qualche bontà per fare tacere le genti, che aranno mal parlato di me. Padi^e mio, in quanto a voi piacesse, io mi vorrei dispuonere a navigare e farei bene, ma tanto vi vo' dire che non vo' compagnia se non a mio modo e vo' una nave nuova che sia fatta per me, in sulla quale vo' andare. Lo padre, che ode le belle ragioni che il fi- gliuolo gli dice, e vedendolo disposto a ben fare, disse : 0 figliuolo / 72 NOVELLE DI GIOVANNI SERGAMBI mio, poiché io veggo che hai mutato pensieri, io farò tutto e sono contento che una nave per te solo si faccia dicendogli: seimila fiorini metto da parte per fare uno legno e quattromila fio- rini per fornire il naviglio. Et però che ora vuoi cominciare, io li darò a tale banchieri che per in fine alla somma ditta ti dia, e così gli fé' promettere. Andriolo contento, pensando venire alla ^ intenzione sua d'avere madonna Chiara, lo padre contentissimo, jì stimando lo mio figliuolo vorrà far bene ; preso Andriolo fiorini If mille dal banco, e' lo dì seguente venne (i) dinanti alla sua inna- morata et tanto dimorò che la fante uscio di casa. Andriolo gli tenne drieto et da parte la tirò dicendogli : Io ti vorrei dire al- cuna imbasciata. La fante, che lo vede bellissimo, disse: Che vuoi? Andriolo disse: Io amo madonna Chiara sopra tutte le cose del mondo e se tu puoi fare che io gli baci il piede, io le vo' dare fiorini mille, de' quali voglio che venticinque ne siano tuoi. Di questo ti serò molto tenuto, et perchè sappia il modo che io terrò, ti dico, io verrò in casa et di pie la scala sia la donna col piede nudo, e basciato, di subito me n'uscirò fuori et mai persona noi saprà. La fante, che ode li fiorini mille che dare vuole et che a lei ne viene fiorini venticinque, et perchè lo vede bello et anco non crede molto gran fatto, gli disse che molto volentieri farà l'ambasciata. E pensa tutto accordare e a lui dice, che quine dove è l'aspetti. E partitosi, la fante è tor- nata in casa rendendo l'ambasciata a che la donna l'avea man- data, et poi cominciò a dire: Madonna, ben vi dico che uno ^ bellissimo giovano m'ha ditto alcune cose, le quali, per l'amore che io vi porto, non lasserei che io non ve le dicesse. La donna disse: Che novelle saranno queste? La fante disse: Quel gio- vano nomato Andriolo Spinola m'ha ditto che molto v'ama et che vi prega che vi piaccia, poiché tanto v'ama, di lasciargli basciare il vostro piede, promettendovi dare fiorini mille e di quelli vuole che io n'abbia venticinque. E più dice che vuole venire di sera et voi starete in pie di scala et basciato che lui l'ara, darà volta, et che andranne et che mai a persona noi dirà. Madonna Chiara, che ode quello che la fante gli ha ditto, disse: Come mi di' tu tale parole? Or come acconsentirei che a me toccasse il piede che sono di si alto parentado et gio- vana et onesta, e sai che io ho tanti dinari? Per certo noi (1) Ms. : venendo. DE ASTUZIA IN JUVANO 73 farei mai. La fante disse: Madonna, la vostra persona è bella e chi v'ama bello, voi gentile e lui, voi ricca e lui vi dona fio- rini mille, li quali porrete sopra li altri e tanti n'arete di più, poiché vi promette a neuno appalesarlo. La donna ridendo disse: Che faresti tu, se fussi in mio luogo? Rispuose la fante: Io lo servirei allegramente, perocché naturalmente la donna fu fatta per servir l'omo e massimamente chi l'ama, e però assiguratevi e prendete quelli belli fiorini che dare yi vuole. Ma ben vi dico che se acconsentire' che quella sua bocca pia- cente baci il vostro disiato piede, che vi piaccia nettarlo et in s'uno guanciale di seta lo tegnate, che paia che voi amate le vostre cose, et con uno lume, sicché chiaro possiate vedere li fiorini che v'arreca, li quali prima che '1 piede vi baci ve li farete dare e metteteli in un bacino d'argento e dapoi che si sarà partito daretene a me fiorini venticinque. La donna, che già gl'era venuto il desiderio, non fé' molto contrasto e disse alla fante: Poiché a te pare, e tu mi di' che è bello giovano, ti dico che vadi a lui, e digli che io sono contenta che stasera di notte vegna, per modo che altri non se n'accorga et arrechi i dinari, et ammae- stralo che a veruno appalesi la cosa. La fante, avuta la risposta che disiava, tornò a Andriolo dicendogli tutto l'accordo. Andriolo contento, la fante ritornata et fatto un bagnuolo al piede [di] madonna Chiara, et apparecchiato il guanciale di seta dorato et uno torchio acceso et preso uno bacino d'argento, aspettando la sera, Andriolo, che stava attento, venuta la sera e notte, andò a casa di madonna Chiara e contento dentro trovolla in pie di scala col pie in sul guainciale, che parea un pezzo di nieve. Andriolo, versato li fiorini in nel bacino, inginocchiandosi colle mani prese quel piede et la bocca vi puose dicendo: 0 cuore del corpo mio, io mi ti raccomando. Basciato il piede, fece reverenza a madonna Chiara, e dato volta, di casa uscio. La fante chiuso l'uscio, e la donna col bacino dei dinari se n'andò in camera, et quine, no- merati li fiorini, trovò essere mille nuovi, de' quali alla fante ne die venticinque, dicendo : Credi che questo giovano sia stato uno matto ad avermi dati tanti dinari per sì piccola cosa ? La fante disse : Or vedesti mai più onesto et più bello giovano? e vedete come reverentemente si partio, che sarenno stati di molti che non si sarenno voluti partire. La donna disse: Per certo, o egli è troppo ricco 0 egli é stolto, o gli é impazzato di me, tanto ben mi vuole. La fante disse: Per certo io credo che vi porta tanto amore, che ogni cosa fare'. E ditte tra loro con molte risa molte ciancie, ^K A/r^ LC' 74 NOVELLE DI GIOVANNI SERGAMBI e infra l'altre ciancie che vi si disse fu, che la fante disse: Io gli darei volentieri questi venticinque fiorini se egli stanotte giacesse meco. La donna disse: E tu li aresti bene incettati; e partitesi andorono a letto. Stato alquanti dì, Andriolo disse al padre: Mes- sere, io ho speso quelli mille fiorini, ch'ebbi dal banco, in fare tagliare il più bello legname che mai si vedesse e però a me bisogna per maestri fiorini du' mila. Lo padre disse : Prendili a tua posta. A.ndriolo la mattina rinvegnente se n'andò con fiorini du' mila al luogo dove la fante di madonna Chiara trovò et a lei disse, che se madonna vuole io le baci la coscia io gli vo' dare fio- rini du' mila, de' quali a te ne tribuisca cinquanta e quel modo terrò che altra volta feci. La fante, desiderosa di servirlo, tornò a casa et a madonna Chiara tutto disse. La donna disse: Or non vedi tu che costui va prendendo la mia persona a passi lenti ? per certo non vo'. Disse la fante : Per Dio non dite, che se acconsentite ve ne loderete d'aver compiaciuto così bel giovano. Madonna Chiara, che già le parea esser certa di quello che il giovano dopo tal fare le chiedere', venendogli già il sangue riscaldando, disse alla fante: Se pensi che lui faccia come altra volta fece, sono con- tenta che stasera vegna. La fante andò a Andriolo e tutto gli raccontò. Andriolo contento aspetta la sera. La donna, fattosi il >^ftjiy^^ . bagno a tutta la gamba, fino al pennuto (1) e '1 torchio acceso e col bacino, tenendo la gamba tutta scoperta e la coscia in su uno piumaccio di seta, come fu notte Andriolo entrò dentro et i dinari versati in nel bacino, inginocchiossi (2) dicendo : Ma- donna, voi siete tutto il mio conforto. Abbracciato la gamba e la coscia, distendendosi sopra, la coscia basciò, e levatosi disse: Madonna, a Dio ve raccomando, e partissi. La fante chiuso l'uscio et intra te in camera, li dinari partirono e la donna disse: Per certo Andriolo mi pare onesto giovano et di vero egli non è stolto e se non mi fusse vergogna io l'amerei. La fante disse: Mai non si biasmò chi amasse, e questo ditto andonno a dormire. Andriolo tornò al padre dopo alquanti giorni dicendo: La nave cominciasi a fare, e chiesto fiorini tre mila e autoli, tornò al luogo dove la fante trovò, e dopo molte parole Andriolo disse che se la donna voleva che lui gli basciasse la bocca che quelli tre mila fiorini volea a le' (lare, de' quali cento ne serbasse per lei. La fante narrò a (1) QfwV-lt^l -111!^. (2) Ms. : inf /inocchiandosi. J DE ASTUZIA IN JUVANO 75 madonna Chiara la cosa. La donna disse: Io penso che il mele della sua bocca sera tanto che a me si' di necessità di quello saziare il mio appetito, ma bene dubito non si sappia queste cose. La fante disse che non dottasse. La donna, mandato la ^ fante fuori a render l'ambasciata a Andriolo, specchiandosi e' /j videsi in nella faccia come rosa venire. Disse: Per cerTò"9opo giiésto^bàscTo, che penso sia molto dolce, io non serò più dura a dinegargli cosa che voglia. Et fattasi tutta bella col liscio e / bambacello, mettendosi in bocca alcuna noce moscata et ini sèìlfT u / un pocó^i moscato, come usano le donne genovesi, venuta la fante, e ditto come Andriolo era contento, venuto la sera, la donna in una roba nera acconcia in nel viso et le mammelle alquanto fuori del petto, con allegrezza, sperando che Andriolo dovesse rimanere, stava tutta baldanzosa. Andriolo, che l'uscio vede aperto, andò dentro et trovato la donna così acconcia, fat- tale reverenza e salutatala, li dinari messi in nel bacino, poi con uno atto molto onesto s'accostò alla donna dicendo: 0 con- forto dell'anima, a cui tutto sono dato, io ti prego che non ,ti_ sdegni l'animo se la mia bocca s'accosterà alla vostra, la quale è degna d'ogni lodo. La donna, che volentieri l'are' morso, acco- standosi, Andriolo abbracciatala, la bocca sua a quella di ma- donna Chiara puose e con piacere la basciò et dapoi inchinato le gambe la raccomandò a Dio, et fuori di casa uscio. La donna, che are' voluto che Andriolo fusse rimaso, stava pensosa. La fante disse: Madonna, che pensate? La donna dice: Penso quanto onesto giovano m'ha ora la bocca basciato, e dirotti che m'ha lassato tanto dolce la mia bocca che noi potresti credere. La fante, che già s'era accorta che la donna era più d'amore accesa che '1 giovano, disse: Madonna, e' n'avverrà che di quella dolcezza che portate fra le gambe gli rendiate buono guidardone. La donna ridendo disse: La parte de' miei dinari mi date e voi colli altri riponete cotesti. La donna cosi fece e andate a dormire, steo con pensieri la donna più giorni. Andriolo, che gli parca esser venuto quasi a buon punto, disse: Ora mi convien esser savio a ricoverare lo mio e aver mia intenzione. E quello che pensò in nella novella lo sentirete. Andando al padre disse : Padre, io hoc Catta la nave e manca fiorini quattro mila per vararla. Il padre glieli fa dare. Andriolo si parte e torna al luogo usato, là u' la fante trovò dicendogli che .se la donna volea che con lei una notte albergasse gli dare' fiorini quattro mila et a lei dugento di quelli. La fante narrato alla donna, la donna parendogli mille anni, disse 76 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI di si, e tutta si acconciò come sposa, apparecchiando bene da cena. Messer Adorno padre di Andriolo disse: Poiché mio figliuolo ha fatto si bella nave che costa fiorini dieci mila, io voglio andare a vederla, et andato in arsenaia e dimandato della nave del figliuolo, fugli ditto che neunà nave v'avea, di che messer Adorno volle sapere l'usanza del figliuolo. Fugli ditto che vagheggiava la Chiara e che qui ne avea speso il suo. Messer Adorno volse veder il modo, et vedendo la fante fargli l'ambasciata et Andriolo allegro, pensò non dirgli nulla, ma seguire la trama. E stato nascoso, venne la sera. Andriolo se n'andò a casa di madonna Chiara e con lui lo padre drieto. Andriolo, montato le scale et intrato in camera, e quine trovato apparecchiato e la donna in giubba tutta giuliva, messer Adorno stava a vedere cenare la brigata e mentre che cenarono madonna Chiara si volge a An- driolo e baciavalo. Andriolo, che avea V animo a' dinari che avea spesi, stava pensoso. E' cenaron con molto piacere, e perchè a Chiara parea mille anni d'esser alle prese con Andriolo, disse alla fante andasse a dormire. La fante si partio. Madonna Chiara di subito spogliatasi nuda et in nel letto intrala senza chiudere uscio di camera, sperando che dentro non fusse persona, chia- mando Andriolo, dicendo che in nel letto intrasse, messer Adorno, che tutto vede et ode, senza dir niente lassa fare. Essendo An- driolo in nel letto e salito sopra il corpo di Chiara, desiderosa di dare beccate a l'uccello d'Andriolo, presolo in mano, in suo nido lo nascose. Andriolo fuggendosi, la donna desiderosa disse: '0 Andriolo, contentami, io ti vo' dare du' mila fiorini. Andriolo, che avea voluntà di riavere i suoi dinari, tenendola a bada, Chiara di fiamma di fuoco parea avesse il viso, [et] profferse a Andriolo tutti i fiorini dieci mila. Andriolo, che più oltre volea, facendola più riscaldare, la Chiara disse: Or che giova, An- driolo? io voglio esser tua moglie e darti di contanti fiorini quin- dici mila e tante possessioni e gioielli che valgano fiorini vinti mila e tu mi contenta. Messer Adorno, udendo tal profferta, subito salio in camera e disse: 0 figliuolo, vara la nave che ora è tempo. Andriolo, che sente il padre, niente dice. La donna, sentendo alcuno in camera, quasi cascò. Messer Adorno, con uno torchio acceso andato in sul letto, disse: Chiara, tu se' giovana, bella, gentile e ricca ; Andriolo mio figliuolo giovano, bello, e gentile, e ricco; tu hai ben pensato. Et però, Andriolo, in mia presenzia la sposa; e trattosi un anello di dito, a Chiara fu sposato. Messer Adorno disse: Ornai vi date piacere, io v'aspetto qui in DE ASTUZIA IN JUVANO 77 sala e voi lavorate il podere. Chiara rassecuratasi, con Andriolo si prese piacere e saziS'Tappetito suo; e poi sorse del letto e aperse uno scrigno e di quello cavò fiorini vinticinque mila di- cendo : Tenete questi ; io voglio che i miei parenti sappiano che io sono maritata col figliuolo di messer Adorno. E' disse che bene dicea. E presi li dinari, parlò a' parenti, e contenti li parenti, Andriolo poteo varar la nave all'acqua di Chiara a suo piacere. 78 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI 18. [Triv , nO 29]. DE INGANNO. Fu nella città di Pistoia una donna nomata madonna Antonia vedova de' Virgiliesi, la quale di suo corpo era grande e assai bella, molto balda et leggiera assai bene. E quella madonna An- tonia tornava spesso di fuori a un suo luogo al Poggio a Calano, là u' molta massarizia e letti v'aveva, et alcuna volta dell'anno si tro- vava in Pistoia sola. Avvenne che un giorno uno giovano no- mato Ricciardo gentile, della casa dei Panciatichi, ammalò, et non avendo in casa neunp che '1 governasse, però che non avea ancora avuto donna e stava al governo di una sua fante, un giorno una parente del ditto Ricciardo, vicina di madonna Antonia, disse alla ditta madonna Antonia che gli piacesse andare seco. Madonna Antonia disse: Volentieri, e messesi le mantella andonno a casa di Ricciardo e trovonlo molto grave et quine, trattesi le man- tella, comincionno a porgergli del zuccaro e dell'altre cose bi- sognevoli a Ricciardo. Ricciardo confortatosi, stato alquanto, dice: Per certo se io potessi stare fuori di Pistoia in qualche villa che io vedesse 1' aere, io guarirei per certo. Madonna Antonia per amore della sua vicina disse a Ricciardo che se pensava d'aver per quello [ristoro, se ciò glij (1) fusse in piacere, che ella lo mandare' al luogo suo al Poggio a Calano. Ricciardo, [udendo la proffertal, disse: Madonna, per certo se io vi fusse, guarirei. Madonna Antonia disse: [Se tu ci| volessi andare, io verrò teco e penso che guarirai. Ricciardo disse; Poiché vi piace che vegna al vostro luogo, mi pare già esser guarito. Et ditto tra loro lo di dell'andare, Ricciardo procurò du' cavalli, l'uno per madonna Antonia et l'altro per sé, e fatta venire alcuna bestia da soma per portare alcune cose, venuto il giorno, presi tutti i suoi veli (2), che n'avea assai, e suo'denari, e" apparecchiossi (3) per montar a cavallo per andare in villa con madonna Antonia. La quale montata a cavallo, accompagnata da Ricciardo, escirono da (1) Qui e sotto spazi bianchi noi mg., che ho cercato di colmare. {2) Cosi nel ms. Forse dovea dir vesti. (3) Ms. : apparechiatosi. DE INGANNO 79 Pistoia, et mentre che cavalcano dice Ricciardo che lui è ricco di bella casa e di buoni gioielli e dinari. Madonna Antonia dice: Bene io so che tu hai bella casa et anco credo che abbi quello di'. Ricciardo dice: Acciò che mi crediate, et si trasse di seno una scatoletta in che erano di belli gioielli e disse a madonna Antonia che li serbasse. Madonna Antonia li prese dicendo: Volentieri. E mentre che caminavano, Ricciardo dice: Come sarò guarito mi vo' fare cavalieri (1) et sempre arò in Pistoia et altrove buono ollicio. Madonna Antonia dice che farà molto bene. Ricciardo, che si dava di gran vanti cavalcando, disse: 0 madonna An- tonia, io vo' una grazia da voi. Madonna Antonia, pensando [che egli] (2) le domandasse qualche cosa [intorno] alla sua malattia, rispuose: Che ti piace? Ricciardo [disse]: Vorrei, età me sere' somma allegrezza, che voi fuste contenta d' esser mia moglie. Ella disse: Or che t'odo dire? È questo il mal che tu hai? Ric- ciardo disse: In verità vi dico che a me sere' sommo piacere. Madonna Antonia disse: Or come vorresti tu me credi. Io non ho età ad avere figliuoli, et tu se' giovano. Ricciardo affermando: Io vi dico, se a voi piace, io per me sono più che contento, ma- donna Antonia, che le parole gli aveano fatto venire la rosa al culo, non guardando altro rispetto, rallegratasi del parlare di Ricciardo, disse: Andiamo al mio luogo et briga di guarire, che io serò contenta di ciò che vuoi. Giunti al Poggio a Galano, al luogo di madonna Antonia, quine Ricciardo fu [da] madonna An- tonia servito in della malattia tanto che guarito fu. E mentre che in tal maniera stava, Ricciardo disse: Madonna Antonia, io vorrei che fornissimo il matrimonio. Madonna Antonia, che avea la rabbia al culo, disse: Poiché contento se' d'esser mio marito, io vo' che mi prometti in chiesa di prendermi per moglie. Ricciardo disse che gli piacea, et andati in nella chiesa, quine promise quello che poi non attenne. E fatta tal promissione, torharo in casa, e qui madonna Antonia sì cominciò a cavarsi la rabbia del culo, non avendo guardato a che era condutta. Ricciardo, saziatosi più volte, e non guardando lo vituperio et la promessione fatta, prendendo alcuna scusa disse (3): Antonia, a me è di necessità essere a Pistoia (1) Credo di non interpretare male il chari del ras., su cui sarebbe stato dimenticato solamente il segno d'abbreviatura. (2) Lacuna nel ms. (3) Ms. : dicendo. 80 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI e richiedere i miei parenti et dare ordine che ne vegni onorevol- mente, come s'appartiene. Et acciò che io possa fornire quello bisogna, dammi quelli gioielli. Antonia, che già per lo suo fallo avea perduto il nome di madonna, li gioielli diede a Ricciardo dicendogli ordinasse che a casa la meni. Ricciardo partitosi et tornato in Pistoia, vantandosi d' avere cavato la voglia a sé e parte della rabbia a madonna Antonia di queste cose, che a'pa- renti di Ricciardo venne a notizia et simile a'parenti di Antonia, et ciascheduno de' parenti andò al suo, et (1) li parenti di An- tonia dissero: 0 Antonia, può esser questo che Ricciardo abbia avuto contentamento di te et usato teco? Antonia disse: Si, perocché m'ha promesso prendermi per moglie et è ito a Pistoia a dare ordine di menarmi. Li parenti, che sapeano la condizione di Ricciardo, quanto era di cattiva condizione, dissero : Oggimai sarai vergognata come meretrice. Antonia disse: Non credo che mi inganni, che quando mi stava addosso prendendo di me suo piacere mi disse di tornare per me. I parenti isvergognandola dissero: Va, ti rimani (2). Li consorti di Ricciardo, " udendo dire quello che con Antonia avea seguito, ordinonno di dargli moglie una giovana. Antonia, ciò sentendo, ricorse al vescovo dicendo: Io sento che Ricciardo vuole prender moglie. Et io vi dico che non la può prendere però che me ha presa, et in segno di ciò più volte è usato meco carnalmente. Lo vescovo, udendo tali parole, mandato per Ricciardo e narratogli quello che Antonia gli avea ditto, gli disse che rispondea. Ricciardo disse eh' era vero che spessissimo volte avea usato con lei come s' usa colla meretrice, ma non che mai la volesse né prendesse per moglie. Antonia, udendo quello che Ricciardo avea ditto in presenzia de'suoi parenti e del vescovo, svergognata si partì (3), né mai più non ebbe onore. Ricciardo, preso moglie, non molto tempo steo che, quello avea consumato, e' fu costretto di Pistoia par- tirsi e la seconda moglie con lui non volle tornare. Et ultima- mente alla moglie fu fatto quello che fatto avea a Antonia, e cosi gli fu renduto del pan focaccia. (1) Ms.: con. (2) Ms.: vi ti rimane. (3) Ma.: par Unno. DE AVARITIA E LUSSURIA 8i 19. [Triv., n" 31]. ^^^ DE AVARITIA E LUSSURIA. 1/"/^ Carissime donne e voi omini desiderosi di udire alcuna volta l'inganni che si fanno alle donne che per denari vituperano i loro mariti e parenti, di che in nella città di Perugia, là u' sta- notte siamo dimorati, fu un banchieri e mercadante nomato Pir- cosso, omo servente di dinari e massimamente a soldati forestieri, da'quali avea molto guadagno. Avendo il ditto Pircosso una mo- glie giovana di vintiquattro anni bella e balda, nomata madonna Sofia, e molte volte avendo fatto fallo al suo marito, più tosto per dinari che per amore ad altri portasse, per la qual cosa in alcuno luogo secreto fu di lei parlato. Et intra l'altre volte che di lei si di- cesse si fu un giorno presso a uno carnelevale, dove era uno mes- ser Bernardo tedesco capo di vinticinque bacinetti (1) e soldato in Perugia. Lo qual messer Bernardo, essendo giovano, e cognoscendo madonna Sofia di Pircosso, s'innamorò di lei pensando , se costei con altri ha fatto fallo, agevolmente doverne aver diletto ; et da- tosi a sentire e vedere in che modo potea il suo pensieri met- tere in effetto, per una niessetta mandò dicendo il suo volere. La messetta, che era già stata altre volte per si fatte cose a ma- donna Sofia, gli narrò la intenzione di messer Bernardo. Madonna Sofia, sentendo quello che la messetta gli avea ditto, non avendo di lei vergogna, disse : Se messer Bernardo mi vuol dare fiorini dugento, io sono contenta et in caso sia contento vo'che gli dichi che domenica, che sera la domenica di carnelevale, dopo desinare, che '1 mio marito sera ito ad Ancona per mercanzia, vegna a me e portimi fiorini dagento et io sarò contenta che sia meco lo dì e la notte seguente et poi lo lunedi mattina si parta. La messetta, udendo quello madonna 1^ puttana, o vuoi dire Sofia, avea ditto, si partio et a messer Bernardo andò e tutta 1' ambasciata gli disse. Messer Bernardo disse : Troppo de'avere odorifera la sua quintana, che sare' vasto fusse moscato volere tanti fiorini. E tra sé pensò ~ un bel "mòdo e disse alla messetta : Va e di' a madonna Sofia che (1) Ges*-ttel-m*; Remek, Novelli di G. Sercumbi. 82 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI io sono contento d'arrecargli fiorini dugento et stare lo dì e la notte seco, ma perchè altri non si pensi di noi male, dille, che io merrò meco uno famiglio e senza a lui dire niente lo manderò a fare alcuna ambasciata et per questo modo persona si potrà esser accorta che io a lei sia venuto. La messetta disse: Bene avete ordinato. E tornò alla donna e tutto le disse. La donna contenta disse che bene avea fatto et messasi mano a borsa gli die uno fiorino. Et a messer Bernardo mandò a dire che tutto ■ era in punto, et che lui s'apparecchi il giorno ad andare. Messer / Bernardo, avendo ordita la tela e bisognandola tessere, pensò ' chiedere in prestito a Pircosso, marito di madonna Sofia, fiorini dugento, et andato a lui disse: 0 Pircosso, io ho alle mani una mercanzia al mio animo desiderosa, la quale m'è promessa per fio- rini dugento, et senza quella al presente stare non posso a questo soldo, e però io ti prego, mi debbi servire di fiorini dugento e come arò le mie prime paghe te li renderò con quello merito mi dirai. Disse Pircosso: Volentieri, et aperta una cassa, gli prestò fiorini dugento dicendo : A me conviene andare ad Ancona per certe mercanzie. Come arete le paghe, serbatemi li dinari. Messer Bernardo disse: Se quello che m'è promesso inanti non facessi, volete che alla donna vostra questi fiorini renda? Pir- cosso disse: Si, presti questi dinari. E Pircosso, messosi in punto per andare ad Ancona, e' partissi di Perugia l'altro di. Messer Bernardo sta allegro; madonna Sofia aspetta doppia_pi_umata 1 et per fiorini dugento, appresso la sua quintana riempiuta, sfa molto contenta del partimento di Pircosso. Venuto la dome- nica di carnelevale, madonna Sofia invitata dalla vicinanza alli orti |se] volea andare, ella rispondea (1): Pircosso mio è ito ad Ancona e non so come si stia: io non voglio oggi uscir di casa, ma lo di di carnelevale, se altro non sento, verrò. Le vicine acconcionsi, et se ne vanno alli orli a godere; ma- donna Sofia sta ad aspettare. Messer Bernardo prese uno suo stretto famiglio, avendolo di tutto il suo pensieri informato, seco (2) lo menò in casa di madonna Solia, e saliti in sala, dove madonna Sofia aspettava, messer Bernardo fingendosi disse: Il vostro marito mi prestò fiorini dugento, li quali, non avendoli spesi, ve li rendo, che quando Pircosso è tornato glieli date, e (1) Ms.: rispondendo. (2) Ms.: sendn. '^Mr-^ DS AVARITIA E LUSSURIA 83 misseli in sulla taula. Lo famiglio informato disse : Messere, sapete che a casa dovete esser aspettato, et non essendovi, neuno saprà niente di voi. Or disse messer Bernardo: Ben hai ditto, e va, e di' a chi viene che io verrò tanto che questi dinari abbia no- merati. Lo fante subito si partio. Messer Bernardo disse come avvenne fatto che il fante si ricordoe di quello avea a fare. Ma- donna Sofia disse per arte ogni cosa avere fatto. Prima il mio ma- rito esser fuori, apresso voi addutti li fiorini dugento, et in contrada non esser persona che veduto v'abbia, e però noi possiamo stare in buono agio oggi e stanotte. Messer Bernardo dice: Voi diteli vero e nomerati li dinari, messer Bernardo prese madonna Sofia et basciandola disse che le piacesse contentarlo di quello che più volte ha disiato. Madonna Sofia, apparecchiata la sua quintana a ri mover li colpi della punta della lancia di messer Bernardo, ''^Vy •^'^^^ montato a cavallo colla lancia ritta percosse in quintana et fu di tutta la quintana vincitore et quante volte prima che sera fusse la punta della sua lancia in nella quintana di Sofia misse e quella dentro tenendovi tanto che da sé stessa la lancia n'u- /l ^*-^ ^, sciva. E come il di venuto vincitore della giostra, così la notte più di sei colpi colla sua lancia in nella quintana percosse. La mattina, coronato di vittoria, si partio. E madonna Sofia, al- legra che la sua quintana avea portato 1' onore sopra tutte le quintane di Perugia et rallegrandosi de'fiorini auti e molte volte innomeratoli, et passato alquanti giorni della quaresima, Pircosso tornò d' Ancona. Messer Bernardo, ciò sentendo, subito prese il suo secreto famiglio et a casa di Pircosso se n'andò et fatto ri- chiedere Pircosso. [Quando] sente che messer Bernardo lo ri- chiede, disse che venisse su. Messer Bernardo, che avea al suo [famiglio] fatto comprare alquante anguille grosse et alcuna tinca del lago di Perugia, è montato in sala; subito a Pircosso disse (i), presente madonna Sofia: Voi sapete che mi prestaste fiorini dugento quando vi partiste per alcuno mio bisogno e io quelli non potendo spender li addussi a madonna Sofia vostra donna, come mi diceste, presente questo mio famiglio, e perchè a me fu sommo servizio, posto che io quelli non spendesse, vo' che voi con madonna abbiate queste anguille e questa tinca et che le ricordate per mio amore, non per rispetto del servizio, ma per domestichezza. Pircosso, che ode che alla moglie ha renduto li (1) Ms. : dicendogli. 84 NOVELLE DI GIOVANNI SER CAMBI fiorini dugento, non avendogli nulla ditto, le disse: 0 tu non me n'hai ditto nulla ? Lo famiglio astuto disse a Pircosso : In mia pre- senzia messer Bernardo glieli die. La donna subito comprese la malizia di messer Bernardo e disse: Io pensavo dirtelo a più agio, ma poi che messer Bernardo dice che a me li rendeo egli dice vero. Ben credea che fusseno stati d'altra mercanzia che di prestito, et arei voluto che alla ragione della mercanzia tu li avessi messi. Pircosso disse: Io glieli prestai il giorno che di qui mi partii. Messer Bernardo: Voi dite vero et per certo il ser- vizio fu a me grande e però sempre mi vi tengo obbligato. La donna come baldanzosa disse : Oimè non vi tenete obbligato, già sapete che io sono una volta moglie di Pircosso et così dovete esser obbligato a me come a lui. Messer Bernardo, che di lei avea avuto quello volea, cognoscendola cattiva, disse: Madonna, in nelle nostre contrade li mariti portano le brache et a loro si de' rendere reverenzia, et io vo' osservare la legge del mio paese, però che a Pircosso de' denari prestati gli sono sempre obbligato et non a voi. Pircosso, che ode si bel parlare, dice alla donna: Messer Bernardo ha ditto quello che si conviene, et preso l'anguille colla tinca, messer Bernardo si partio e Pircosso colla moglie rimane. Madonna Sofia, vedendosi così beffata, pensò di non cadere in tal fallo mai con persona che per quel modo si abbia quello che dato gli avesse. E così osservò poi. DE PRUDENTIA ET GASTITATE 85 20. [Triv., n" 32]. DE PRUDENTIA ET GASTITATE Fu una onestissima vedova donna di Genova, nomata madonna Lionora Grimaldi, la quàIe~sopra tutte l'altre donne di Genova portava di onestà et di castità nome. E ben che questo vi debbia parere meraviglia che in Genova si debbia di tal donne trovare, jn_ dipiLche Jddio può conceder grazia in ogni luogo, et però non è da meravigliàrsT sé" costei in una si fatta città si trovasse perfetta. Et stando questa madonna Lionora onestissimamente, non potendo però la sua bellezza nascondere, che almeno quando alla chiesa andava le convenìa la sua faccia mostrare, posto che andasse chiusa, la quale più volte fu da uno giovano dal Fiesco nomato Salvestro veduta, et tal veduta gli fu cagione d'innamo- rarsi di lei per tal modo, che ogni di come ismemorato stava in nella sua contrada e mai di quine non si partia fine che la notte venia. Madonna Lionora di ciò non dando pensieri, durò tale stanza più di tre mesi, che madonna Lionora alla finestra mai non si puose. Vedendo Salvestro che madonna Lionora non dimostrava sua persona, come disonesto, pensò un giorno volerla vituperare alla presenzia di molti et con ardimento alla chiesa, dove alcuna volta dell'anno andava per comunicarsi, abbracciarla et con disoneste parole appalesare il suo pensieri e questo tenne in sé. Madonna Lionora, che di queste cose niente sapea, senza alcuna sospicione alla chiesa n'andie'. Salvestro, sentendo esser alla chiesa andata, subito si mosse et trovò madonna Lionora a uno altare che dicea sue orazioni ginocchioni, mentre che la messa si dicea. Salvestro, senz'altro dire, accostatosi a lei et ab- bracciatala e basciatala, disse (1): Poiché io dormii teco, non so che si sia stato la cagione che mai m'hai voluto vedere, or come non ti servi' io bene la notte, che sai che più e più volte ti diedi piacere? Madonna Lionora, fornite le sue orazioni, non pregiando quello l'aveva fatto né eziandio quello dicea, ma ferma stando senza alcuno motto dire, le persone cercustanti odendo (1) Ms.: dicendo. 86 NOVELLE DI GIOVANNI SERGAMBI dire Salvestro et vedendo tacere madonna Lionora, tali pensa- vano esser vero e tali pensavano Salvestro aver fatto male, di- cendo: Vedi come madonna Lionora sta ferma a sue orazioni. Et tutto questo dire udiva madonna Lionora, e ditto le sue ora- zioni e ditto la messa, madonna Lionora si levò essendo quine Salvestro che sempre la 'nfamava et altre gentili donne et omini, come ho ditto, a chi ne pesava (1) e chi credea che Salvestro dicesse il vero. Madonna Lionora si volse a questo e disse: Sal- vestro, Salvestro, per certo tu mi dèi avere avuta morta e non viva. Salvestro disse : Come non sai che viva t'ho avuta et giam- mai non moristi? Madonna Lionora disse: 0 io ho sognato, o veramente tu; e partitasi uscio fuor della chiesa. Salvestro, udendo quello ch'ella ha ditto, disse: Per certo costei vuol che io sia suo, dicendo: Vedi con quanta onestà ha confessato che io ho avuto a fare con lei morta, e però io mi vo mettere alla prova d' essere (2) con lei. Et un giorno, come baldanzoso, vide l'uscio aperto, che la fante l'avea lassato perch'era andata a fare alcuna faccenda, et salito Salvestro in casa di madonna Lionora e andato su a lei volendola manomettere, madonna Lionora, ciò vedendo, tenendosi a mal partito et non vedendo modo di poter il suo onore salvare, dicendo: Se io grido non mi sera creduto, nò anco a gridare non mi lasserà, et se io acconsento ho perduto mia onestà; pensò subito dire a Salvestro alcuna cosa e disse: Sal- vestro, tu sai che mai di me non avesti a fare et sai quanto mi hai vituperata in chiesa, però che a me facesti et dicesti quello ti sai, et come ti dissi tu avere avuto a fare meco essendo morta, et quello dissi perchè in per certo fusse creduto. Ora veggo che hai l'animo disposto a volere la tua ferma volontà adempire et pertanto ti dico, se desideri piacere, ora noi potresti avere, ma indugia alquanto et io ti caverò dell'animo questo pensieri con farti sazio della tua volontà, e come ne se'venuto te ne torna. Et tu cognosci la mia fante, sono contenta che ora che la vedi gli dichi tua volontà, et io, vedendo il tempo, manderò per te. Salvestro, parendogli aver fatto assai, fu contento e partissi. Ma- donna Lionora, venuta la fante, subito mandò per li parenti di Salvestro dicendo loro: Io veggo Salvestro a pericolo di morte, e perchè s'è vantato di me, vi prego vogliate castigarlo et non (1) Ms.: pensava. (2) Ms.: disse. DE PRUDENTIA ET CASTITATE 87 riputare che io sia stata tanto sciocca che a me si sia accostato né mai s'accosti, ma se in altro luogo per le sue cattive opere fusse trovato, non se ne dia la colpa a Lionora. Li parenti di Salvestro, che sapeano quanto Salvestro era di cattiva condizione, y disseno a Lionora che a loro ne increscea di quelloclie Salvestro avea ditto et che loro teneano lei per casta et se male interve- nisse a Salvestro gli sera molto bene. Madonna Lionora, avuto da'parenti il loro pensieri, per cessar la sua infamia ordinò con uno ordine di frati che, come morisse una femmina, che piacesse loro condurla in una casa d'una sua vicina. Ditti (1) frati, che madonna Lionora teneano per santa et che da lei aveano buone offerte perchè era ricca, promissero, et non molti di passarono che una giovana moglie di uno harcariolo morìo et a luogo di y que'frati fu portata a soppellire. Li frati, ciò sentendo, notifica- rono a madonna Lionora come aveano una giovana soppellita che quando vuole l'ara. Madonna Lionora subito mandò la fante a Salvestro che la notte rinvegnente fusse in nella casa della sua vicina e quine sera Lionora e potrà di lei aver diletto, ma guardi bene che come altra volta gli disse che lui non abbia a fare con una morta. La fante tutto intese. Madonna Lionora ordina che la fante si corichi in nel letto dove la morta giace. Fatta l'avea arrecare et nuda in quella casa della sua vicina in nel letto l'avea messa. E ammaestrando la fante, dissele (2): A te non è cura che con Salvestro ti godi, perocché ogni dì tale opera fai, ma ben ti dico che senza lume, come gli hai ditto, serai et senza favellare coricati insieme, et come lo vedi addormen- tato, accostagli la morta a lato et tu colla nostra vicina ve ne venite in casa, lassandolo in nel letto. La fante, ammaestrata sic- come madonna Lionora gli avea ditto, venuto la sera et in nel letto senza lume e senza parlare [postasi], Salvestro, credendo esser con madonna Lionora, si die piacere con la fante, dandogli di quello volea, tantoché Salvestro s'addormentò. Et uscita del letto, accese una lampana, uscio di camera et colla vicina di madonna Lionora a ca' di madonna Lionora amendue se n'andarono. Sal- vestro, essendo accostato alla morta, isvegliatosi abbracciandola, sentendola freddissima et non muoversi, di paura saltò del letto (1) Ms.: disseno li. (2) Ms. : dicendole. (3) Ms.: disse. 88 NOVELLE DI GIOVANNI SERGAMBI et preso uno lume et intrato in nel letto per veder madonna Lionora, trovò esser moria. Stupefatto, di paura tramortì, sino venendogli una terribile febbre. La mattina li vicini traggono, sentendo la vecchia gridare dicendo: Omei! io non so chi in casa m'è intrato. E tratto alla camera, fu cognosciuto Salvestro dal Fiesco, e quasi morto stava allato della donna morta. Venuti li parenti di Salvestro, confortandolo e volendo vedere chi quella femmina morta era, fu cognosciuto esser quella che lo dì dinnanzi era stata seppellita. Salvestro di paura stimò Iddio averlo fatto per amor di madonna Lionora, et confessato il suo peccato et assoluto dal prete, passò di questo mondo, et in una fossa colla morta fu soppellito; et per questo modo Salvestro, volendo isver- gognare, fu isvergognato. DE MALITIA ET PRUDENTIA 21. [Triv., no 35]. DE MALITIA ET PRUDENTIA. Carissime et oneste donne. E' fu in nel contado di Lucca in una villa chiamata Giello uno prete chiamato prete Pasquino, omo d'assai cattiva vita et molto sollacieri, il quale con ogni modo che potea ingannava o cercava d'ingannare le donne della sua parroc- chia et eziandio dell'altre. Et stando in tal maniera in nella chiesa di Giello e tenendo scuola ^a^'di molti fanciulli, in fra' quali ve n'era uno di anni sette, figliuolo di un giovano nomato Barsotto, et avea questo fanciullo una sua madre di anni venticinque bel- lissima, nomata madonna Monina, la quale, com'è usanza de'la- voratori d'andare a lavorare col marito e talora sola, il di delle feste visitava la chiesa dove prete Pasquino dimorava. E veduto prete Pasquino madonna Monina, più volte venendogli voglia di aver a fare con esso lei (1) e veduto se con lei parlare potesse senza compagnia, mai non gli venne fatto. [Ella] (2) per ninno modo non si sare' col prete fermata a parlare. Prete Pasquino, che non può il suo mal pensieri mettere in effetto, pensò con alcuno motto toccarla, e più volte per certo modo di motti la pungea (3). Madonna Monina, ciò sentendo, gli disse che tacesse, se male non volesse gli fusse fatto, et prete Pasquino, vedendo che non giovava motti ditti alla donna, pensò, come malvagio, battere il figliuolo di madonna Monina più sovente che di prima fatto non aveva. E tutto questo battere facea a fine che il fan- ciullo spaurendo di sé facesse (4) quello che prete Pasquino gli comandasse. E per questo modo per più d'un mese con battiture lo tenne in tremore. E veduto prete Pasquino il fanciullo con tal tremore, pensò a lui dire quello che volea facesse, in quanto madonna Monina a lui non acconsentisse a fare quello volea. Ma prima che al fanciullo dicesse niente, la domenica seguente, vedendo madonna Monina sola, gli disse: Monina, io mi moro di (1) Ms. : con esso seco. (2) Ms. : non ebbe. (3) Ms. : di notte la, piangea. (4) Ms. : farà. 90 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI te, e faresti bene a venire una notte a dormire meco, altra- mente io terrò modo, che tei converrà fare. La donna di onestà disse: Sere, voi parlate disonestamente et avete 7àlìo~malè~£r dirmi quello avete ditto. Prete Pasquino, replicando, le disse: Io t' ho ditto mia intenzione e farai bene a farmi quello che io voglia, altramente io tei farò fare a mal tuo grado. La donna corrucciosa disse che andasse in nel malanno e tornata a casa narrò al marito dicendo : Questo nostro prete de'essere di cattiva condizione. Lo marito dice: Perchè lo dici? La donna disse: Mi ha ditta alcuna parola assai disonesta, benché a lui rispuosi quello si con venia. Barsotto disse : Monina, se più t' accorgi di lui che verso di te volesse fare o facesse cosa che vergogna o danno te ne potesse incontrare, dimmelo et io lo pagherò come sarà degno. La donna disse di farlo, e come savia, per non ve- nire a tal partito, pensò di non andare in luogo dove prete Pa- squino sia, né eziandio alla chiesa. Prete Pasquino, [vedendo] che la donna non apparisce dov'è lui, si pensa per altro modo che fatto avea averne suo piacere. Et uno giorno chiamò il suo figliuolo di madonna Monina e dissegli: Se tu vuoi che io non ti batta più, io vo' che tu m'arrechi de'peli di tua madre, che ha tra le coscio di sotto, e mettera'li in questa poca di carta che io ti do. Lo fanciullo disse : Come ne potrò avere ? Prete Pasquino disse: Quando dorme, mettigli la mano colaggiù e piglia de' peli et arrecameli et io non ti darò più, e anco ti darò de' bericocoli. Lo fanciullo, per non essere più battuto e per avere de' bericocoli, disse di farlo. E la sera, essendosi coricato a lato alla madre e col padre, volendo servir lo prete, distese la mano, credendo che la madre dormisse. [Questa], sentendosi toccare al figliuolo, non pensando malizia, disse: Che fai? Lo fanciullo cheto. La madre disse: Che vuol dire che '1 mio figliuolo stasera tiene sì fatti modi che mai volse? Lo marito, che ciò ode, disse che lo farà in dormendo. La donna stata alquanto senza parlare , il fanciullo pensa che la madre dorma, et messo la mano là giù et preso per tirare, la madre, recatasi a sedere, volse sapere dal fanciullo la ragione. Lo fanciullo disse tutto ciò che il prete gli avea im- posto dicendo: Hac promesso di non darmi et eziandio mi darà de' bericocoli se di cotali peli di sotto gli porto. Lo marito della donna pensossi (1): Certo questo prete vorrà fare qualche malìa. (1) Ms.: pensonno. DE MALITIA ET PRUDENTIA 91 E subito uscio il marito et la donna del letto et alla troia n'an- daro e de' peli della troia preseno et in nella carta li missono e disseno al figliuolo; Porta questi al prete. Prete Pasquino, ve- dendpUJbiondi, disse fra se: Costei è bella donna«, ora arò mia volontà^ É fatto suoi incanti e malìe sopra di quelli peli, pen- sando fusseno quelli di madonna Monina, e fatto lo 'ncanto, subito la troia di Barsotto, fracassando il porcile e rompendo, di subito se n'andò alla chiesa. Barsotto, ch'ha sentito tutto, va drieto alla troia e vede la troia esser già in chiesa. Di rabbia si volse git- tare addosso al prete. Il prete, che non pensa quanto ha fatto, fugge su per la scala, la troia drieto ; il prete in sala , la troia drieto. Lo prete [si rifuggì] in camera e chiuse l'uscio. Barsotto, che vede tal fatto, disse: Or è costui il diavolo. E tratto coll'arme all'uscio della camera et quello spezzato, disse (1) : Traditore, tu se' morto che ora veggo quello volevi (2) fare della donna mia, ma ella savia ti mandò de' peli della troia, ma io ti pagarò. Lo prete era montato in su una finestra ; la troia stava. Barsotto , che vede il prete sulla finestra, di una spada gli die sulla testa. Prete Pasquino per lo colpo cadde della finestra in uno orto. La troia scese la scala et in nell'orto ne andava. Li vicini , che sentiano lo romore, traggono là, et veduto il prete in terra fe- rito e rottosi le gambe per lo cadere e la troia gli stracciava addosso, Barsotto, per non perdere il suo, pensando aver fatto assai, narrata la cosa a' vicini, prete Pasquino fu rilevato e fatto medicare e di quello comune cacciato. E Barsotto, non potendo ritenere la troia, che andare volea drieto al prete, si l'uccise e per questo modo prete Pasquino fu pagato. v^ (1) Ms.: dicendo. (2) Ms.: volse. uo.>^: ì ■ 92 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI 22. [Trlv., n° 36]. DE TURPI TRADIMENTO. Poiché la novella di prete Pasquino adatò (1) alla brigata, dirò che nel contado di Pisa, in una villa nomata Guoza, fu un prete nomato prete Ruffaldo, non meno cattivo che prete Pasquino, avendo la chiesa sua posta presso a una casa dove dimorava uno nomato Testa, lo quale avea una sua madre chiamata Massaia. E di poco il ditto Testa avea preso una donna per moglie di quel comune nomata Giglietta, et non molto tempo Testa tenuta l'avea, che prete Ruffaldo s'innamorò di lei in tanto, che non poteva dormire, né mangiare, né officio dire senza la immaginazione di Giglietta. Et ogni di gli passava dalla chiesa colla sua socera Massaia, che Testa l'avea ditto che co' lei andasse , acciocché beffe ricevere non potesse. Massaia, per amor del figliuolo, che molto l'amava, et anco per amore di Giglietta, volentieri stava e ^andava co' lei. Vedendo quel venerabile prete che Giglietta di continuo con buona guardia andava, pensò voler il suo pensieri senza disonestarsi fornire, et uno giorno stando prete Ruffaldo in sulla porta della chiesa et vedendo passare Massaia e Giglietta: Dio ti guarda da lupo, Giglietta, e più non dice. Massaia e Gi- glietta non si danno di ciò pensieri. Lo secondo di lo prete dice le simili parole, et anco non se ne danno pensieri. La terza mat- tina lo prete dice: Giglietta, Dio ti guardi da lupo. Massaia dice: Sere, voi ci avete già ditto tre v^olte queste parole, che vuol dire questo? Lo prete disse: E' m' increscere' che si bella giovana debbia essere mangiata da lupo. Massaia dice: Che dite, sere? Lo prete dice: Per certo costei al battesimo non ebbe tutti i sacramenti e però fate n'abbiate buona guardia fino che compiu- tamente l'officio gli sarà ditto. Massaia torna a casa e tutto narra al figliuolo dicendo: Noi non potremo lavorare se di continuo mi converrà andare con Giglietta, ma se vuoi io serò col sere, e l'officio che a battesimo gli mancò, lui lo dica. Disse: Io sono contento. Massaia, ch'era sollicita, disse al sere che dice Giglietta (1) CoaHiel ma. De^ so\eT^~Tnaefue. DE TURPI TRADIMENTO 93 [dover guardarsi da lupoj : Volete voi livrare l'officio che manca al battesimo? Prete Rurtaldo disse: Io sono presto, ma tanto vi dico che vi converrà durare alquanto fatica, voi e Giglietta. Mas- saia dice ciò che bisogna. Lo prete disse : Egli è di bisogno che voi abbiate uno candelo di mezza libbra et una candela bene- detta, 0 voi 0 altri per lei vegnate con Giglietta in chiesa ginoc- chioni con quello candelo acceso [et] starete alla porta della chiesa colla faccia verso ponente e Giglietta in coro colla faccia verso levante , et io farò l'officio ; benché a lei sera un poco di pena, non se ne curi, et voi converrà stare attenta mentre che l'atto (1) si fa, e non muovervi né volgervi, ma con orazione stare ferma, altrimenti l'officio non varre' et il lupo mangerò' Giglietta. E tu, Giglietta, benché un poco colla candela accesa benedetta ti toccasse il dito, sostieni senza (2) gridare, et se pur gridasse, voi Massaia, state ferma, che in voi sta tutto il fatto, altramente lo lupo Giglietta mangerò'. Giglietta, che teme non esser mangiata da lupo, e Massaia per poter lavorare, dis- seno : Sere, tutto si farà. E partitesi Massaia e Giglietta , et al marito narrato tutto, subito se n'andò a Pisa e comprò uno can- delo di mezza libbra et una candela benedetta, e tornato disse alla madre e Giglietta che andasseno al sere a fare l'officio. Massaia con Giglietta, ite al sere, il prete che aspettava Giglietta senza brache, se misse in chiesa, et acceso lo candelo e la candela, e chiuso la porta della chiesa, disse : Massaia, tenete questo candelo acceso e dite orazioni e paternostri , e state qui ginocchioni. [Come] ebbela messa verso la porta. Massaia informata di quello de' fare, Giglietta se ne va col prete in coro e in s'una banca stretta la puone a sedere colla faccia verso levante. Lo prete si puone verso ponente in su quella banchetta e la candela accesa data in mano a Giglietta dicendo: Dì come io dico, Giglietta disse: Cosi farò. Lo prete colla mano le tocca la coscia a nude carni, perocché i panni gli ha tratti di sotto, dicendo : Dove ti tocca la mano del prete, non ti baci bocca di lupo, e basciolla in bocca. Giglietta sta cheta pensando da lupo non esser mangiata et così il prete più volte la basciò in bocca et le coscio stringendogli , sempre accostandosi a lei, Giglietta pure stava ferma. Prete Ruf- faldo avendo teso il balestro, riversando Giglietta, in sul corpo (i) Ms.: chellonealto. (2) Ms. : pensa. 94 NOVELLE DI GIOVANNI SERGA.MBI gli montò; Gigi ietta gridando, Massaia senza rivolgersi dicea : Giglietta, porta la pena in pace. Et poco valse il gridare, che il prete forni il suo pensieri, e levatosi disse : Massaia, ornai può Giglietta sola andare senza paura. Massaia lieta lassò il candele e con Giglietta ne va a casa. Giglietta maninconosa dice al ma- rito et a Massaia quello che il prete gli ha fatto sotto tale officio. Testa, udendo questo, co' parenti suoi e di Giglietta prese pensieri di punire il prete secondo che ha meritato , et con deliberato animo trovonno prete Ruffaldo dandogli più colpi, per li quali prete Ruffaldo morio e poco si lodò di quello che avea fatto. DE SUPERHl.V ET PAUCO BENE 95 23. [Triv., no 38]. DE SUPERBIA ET PAUCO BENE. Un conte di quelli da Brustola del contado e giurisdizione di Bologna, il quale possedea alcune terre in nella montagna, no- mato lo conte Sparaleone, omo di gran superbia et crudeltà e di ogni mala condizione, et non stante che lui fusse malvagio e reo, ancora a' suoi famigli comandava che ogni male facessero , et pur non era però tanto malvagio che almeno questo poco di bene facea che ouni di la mattina, quando si levava, per lo dì dicea una avemaria e la sera ne dicea per la notte un'altra, e questo era tutto lo bene che questo conte facea , né mai altro bene si disse che lui facesse. Avea questo conte molti mascalzoni e ladroncelli e d'ogni cattiva condizione, ai quali avea comandato che ogni di facessero o furto o rubarla o micidio , e più che a tutti sotto grave pena ditto loro che mai persona che trovassero in nel suo terreno che a lui per neuno modo si presentasse, ma che rubato che fusse quello uccidessero. Et ogni cosa crudele gli piacea più che la pietosa, et per questo modo moltissimi pre- lati, mercadanti et altre buone persone, oltra le ruberie a loro fatte, erano stati morti, e la sera tornavano i ladroni e diceano: Messere, oggi abbiamo ucciso tre preti e du' mercadanti e alcuno povero che andava accattando e tutti spogliati e rubati, e loro (1) in nel bosco alle fiere i corpi abbiamo lassati, e la roba loro v'abbiamo arrecato. Lo conte, ciò udendo , dicea : Bene avete fatto ; e dato loro la parte della roba e l'avanzo per sé tenendo, dicea (2) loro: Cosi fate sempre, che, sia chi si vuole, morto e rubato sia. Lo dimonio, vedendo questo conte tanto maldisposto, pensò volerlo in anima e in corpo possedere, et gittatosi in forma d'uno cuoco, per certo modo compario a casa del conte dicendogli, se avea bisogno d'un buono cuoco, lui lo serveria volentieri. Lo conte, che d'uno avea bisogno, disse che si, e fattolo suo cuoco, lo dimonio fa alcune vivande finissime. Al conte piace il suo ser- vigio et non molti dì fu stato che una sera, essendo addormen- tato il conte, lo dimonio la notte in dormendo [lo volsej portare allo 'nferno. Et come se gli volse puonere addosso, subito appario la vergine Maria in forma di una donzella dicendo: Satanas, (1) Cosi nel ms. (2) Ms.: dicendo. 96 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI che vuoi fare? Lui disse: Venne portare questo diaule all'inferno, che mai non fece altro che male. La vergine Maria disse : Questo non farai tu al presente, né mentre che lui dirà per mio amore quello ha ditto sempre. Lo dimonio dice : 0 che ha ditto, che io non nel possa menare? La vergine Maria dice: Ha ditto per lo di una avemaria et per la notte un'altra et tanto quanto questa dirà non vorrò che tu '1 ne porti e non vo' il di quando l'ha ditta abbi potenzia sopra di lui tutto quel di, et simile quando da sera dirà una avemaria com'ha cominciato , per tutta quella notte non gli potrai nuocere. Ma quando fallisse per li suoi peccati , merita che di lui facci tua volontà. E sparita (1), lo dimonio, non potendo fare altro, tornò alla cucina aspettando che questa avemaria fallisca. Lo conte perseverando in nel male et da tal male non volersi partire, più anni tenne quello stile , né mai mancò che l'avemaria fallisse di dire, stando sempre il dimonio presso e attento per condurlo alle pene dello 'nferno. Vedendo la divina bontà che questo conte in nel malfare perseverava et il dimonio apparecchiato a prenderlo, volse verso di tal pecca- tore il viso della misericordia et di presente a uno angelo spirò che in forma d'uno pellegrino passasse per lo terreno del conte con dimostrare l'errore del conte et con dirgli quello che cam- pato l'avea. Spirato l'angelo della divina potestà, in forma di pellegrino in nel terreno del conte Sparaleone arrivò tra quelle genti ladre. Armati, venuti d'intorno per rubarlo e per ucciderlo, stretti stavano. L'angelo disse: Io penso che voi siate di questi luoghi per rubare chi passa et questo fate perchè il conte e voi divegnate ricchi et non altra ragione credo che sia. Disseno 1 ladri: Tu di' il vero, e però voghamo quel po' eh' hai e le tue carni dare a' lupi, come abbiamo fatto delli altri. Disse l'angelo: E se il conte e voi desiderate de esser ricchi, vi dico, se mi me- nate al conte, io lo farò lo più ricco conte che sia in Italia, et simile voi farò ricchissimi che non bisognerà più che alle strade a rubare [andiate). Coloro, che intendono quello che il pellegrino ha ditto, disseno : ISIcniamlo al conte, et se non farà quello ha promesso, in presenzia del conte lo taglieremo per pezzi ; et cosi condusseno al conte il pellegrino. Lo conte , come vide costoro menare il pellegrino avea loro ditto che lo fare' '1 più ricco conte d'Italia, lo conte, che ode questo, disse : Fa tosto quello hai ditto, se no io ti farò tagliare a pezzi. I/angelo disse : Prima ch'io ti faccia ricco, vo" che '1 cuoco che hai facci venire dinanti (1) Ms. : spartita. DE SUPERBIA ET PAUGO BENE 97 a me et allora ti farò più che ricco. Lo conte, per esser ricco, mandò per lo cuoco, comandandogli che venisse a lui. Lo cuoco dice: Di' al conte che io non posso venire alla presenza di quel pellegrino. Lo famiglio torna e narra l'ambasciata al conte di- cendo : Lo cuoco dice che non può venire dinanti alla presenzia di quel pellegrino. Lo pellegrino disse : Va e digli che io gli co- mando che a me vegna. Lo famiglio andò al cuoco e disse: Lo pellegrino comanda che a lui vegni. Lo cuoco, non potendo altro fare, fu venuto. Lo conte disse al pellegrino : Or mi fa ricco. Lo pellegrino, rivoltosi al cuoco, disse: Io ti comando dalla parte di Dio che subito, in nella presenza del conte e di tutti li altri che qui sono, ti debbi manifestare loro chi tu se^ in forma vera et non simulata, narrando tutto ciò che dovei fare e la ragione e '1 pèrcS¥ no l'hai fatto, comandandoti ancora che a neuno di co- storo debbia fare alcuna violenza; et a voi dirò che non abbiate alcuna paura di cosa che udiste o vedeste. E fatto tali coman- damenti, subito il cuoco dimenio messe uno strido tanto terribile, che se non che l'angelo avea securato il conte e li altri, sarenno morti caduti. E dato lo strido, è venuto in forma propria di di- monio tanto orribile che il conte disse al pellegrino : Per Dio mandalo via. L'angelo disse : Non abbiate paura. Lo dimenio co- minciò a dire ch'egli era venuto per portarlo in inferno in corpo et in anima, et per una avemaria ditta lo di e la notte la ver- gine Maria non me lo lassò mai portare et era disposto, se cento anni ci dovesse esser stato, portamelo. Lo angelo disse: Mala- detto da Dio, io ti comando che in contenente te n'entri in in- ferno et in segno di ciò vo' che appendi il fuoco in nel bosco là dove costoro stavano a rubare, et tutto quel bosco arda. Lo di- menio, auto lo comandamento, subito accese quel bosco, presente il conte e li altri, et in inferno tornò. Lo conte e li altri, stu- pefatti et quasi morti, niente diceano. L'angelo disse: 0 conte e voi altri, io sono l'angelo mandato da Dio per salvarvi et per- tanto vi comando, se non volete essere minestrati dal demonio, che subito ve n'andiate a Roma al papa et quine tutti li vostri peccati raccontate e narrate. Questo fatto , lui vi darà la peni- tenzia, et facendo cosi sarete salvi. Et questo ditto, l'angelo si sparlo, lassando quine una dolcezza che il conte disse: Or che stanza de'essere in paradiso! E subito si mosse e al papa narronno tutto. Lo papa, data loro la penitenzia, la qual fenno volentieri, e' finirono bene la loro vita. Lo papa, per lo miracolo dell'ave- maria, fé' comandare a tutte chiese che l'avemaria da sera e da mane sonasse, acciocché si ricordi dire chi quella volesse dire. Kekiek, Novelle di (i. Sercamhi. 7 1 fi ì 98 NOVELLE DI GIOVANNI SERGAMBI 24:. [Triv., no ;59]. DE VERA AMIGITIA ET CHARITATE. Nel tempo del re Pipino di Francia fu un gentile uomo no- mato Tobbia, lo quale era della provincia di Borgogna, et uno conte tedesco nomato conte Ricciardo, li quali divotissimi erano di Dio, et neuno de' predetti avea figliuolo né figliuola, avendo ciascuno di loro donna giovana. E ciascuno de' preditti fenno voto cbe se Iddio desse loro grazia d'aver figliuoli d'elle, arieno quelli portati a Roma, acciocché per le mani del santo padre fusseno battizzati con offrire alla chiesa di Roma alquanto tesoro. E fatto tale voto, fue di piacer di Dio i loro voti esaudire, che non molto tempo passò che ciascuna delle preditte donne del suo marito ingravidò e dopo il portato de' nove mesi le donne partorirono ciascuna un fanciullo maschio, di che li padri e le madri contentissimi, li preditti fanciulli deliberonno a Roma condurre per fare ciascuno il suo cristiano per mano del papa e col nome di Dio. Tobbia cavaliere con buona compagnia di Borgogna col figliuolo si mosse per andare a Roma, essendo già il fanciullo di due anni. Il conte Ricciardo tedesco , avendo ve- duto che Iddio gli aveva prestato un figliuolo, dispose il voto voler osservare et della Magna si mosse avendo il figliuolo circa mesi ventotto, e ciascuno carainando, fu piacer di Dio che uno giorno in nella città nostra di Lucca si trovonno in un medesimo albergo insieme. Narrando il cavalieri Tobbia al conte Ricciardo perchè quine era e n'andare dovea, e mostrato il fanciullo che per voto Iddio gli avea prestato, lo conte Ricciardo, che per simile atto di casa sua mosso si era, mostrato il suo fanciullo, deliberonno insieme andare. Or che diremo della potenzia di Dio che i fan- ciulli di due anni come si viddeno esser insieme mai non vol- sero mangiare, né bere, né dormire, se non che quello che facea l'uno l'altro seguia, e più volte provati dal padre trovonno cosi era? In tanto che fu di necessità che l'uno e l'altro in un me- desimo letto dormissero et in nel camino in un lettuccio fussero portati, et più, che convenia in una medesima tazza mangiassero e bevessero, et d'una medesima vivanda, et sopra l'altre mera- viglie, che il padre di ciascuno avea, gli parea questa. E così DE VERA. AMICITIA ET CHARITATE 99 caminarono a Roma, e fatto noto al santo padre che a lui voleano parlare, il santo padre dando loro audienza, davanti a sé li fé' venire dicendo loro quello voleano. Lo conte e '1 cavalieri dis- seno: Perchè certo credemo voi esser in terra vicario di Dio, a noi è di bisogno che quelli che Iddio n' ha prestati tu li facci di grazia ripieni, e cioè che ti piaccia du' nostri figliuoli battezzare, acciocché possano la gloria celeste possedere et per la santa fé' combattere. Il papa vuole sapere la cagione et perchè si sono mossi. Loro tutto contonno. Lo papa udendo, disse che a lui piacea, e comandò che fusse apparecchiato il libro et l'altre cose da bat- tesimo, et così fu fatto, presenti i cardinali e altri baroni, a' quali il papa irapuose che quelli fanciulli tenessero al battesimo ; e così fenno. Il papa, facendoli cristiani, puose nome al figliuolo del cavalieri Amico et quello del conte tedesco gli puose il nome Amelio; et battezzati donò loro a ciascuno una tazza ovvero scifo di legno con guarnimento d'argento e d'una medesima tenuta , et benedettoli li raccomandò a Dio dicendo: Questo dono sia per memoria che voi siete battezzati in nella chiesa di Roma dal papa. Ritornati ciascuno de' predetti alla loro patria col dono che '1 papa avea lor fatto, e crescendo Amico in molta sapienzia fine all'età di trenta anni, lo padre ammalando, ammonio il figliuolo suo dicendo: Amico figliuol mio, io ti comando che tu ami Iddio, appresso che sii misericordioso a tutte persone e difensore delle vedoe et pupilli, et sopra ogni cosa terrena abbi in reverenzia il figliuolo del conte Ricciardo tedesco nomato Amelio, perocché in uno di fuste dal sommo pastore a Roma battezzati, et a te et a lui donò uno scifo d'una medesima fazione e grandezza, et si- mile ti dico che Amelio, tuo fratello a battesimo, è d'una strut- tura e fazione come tu, e non è alcun divario da te a lui. E però in ogni cosa l'ama et a lui ricorri. E ditte queste parole, morie. Et non molto tempo steo che certi invidiosi tutte castelle e terre gli tolseno, per la qual cosa il ditto Amico fue costretto a doversi assentare, e pensò ad andare ad Amelio conte, sperando da lui aver qualche aiuto. E prese due servitori et arnesi , e disse: In caso che quine non possiamo aver nostra stanza, an- deremo alla reina Legoriade, donna di Carlo re di Francia, la quale tutti li scacciati riceve ; e così si mossene per andare al luogo ditto. Amelio conte, avendo sentito la morte del cavalieri Tobbia padre di Amico, pensò di visitarlo e mossesi con certa compagnia per andare là. Ora caminano l'uno e l'altro. Amico, che non trova a casa Amelio, non resta di caminare ; Amelio, 100 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI che trova che Amico è stato cacciato delle sue terre e noi trova^ dispone non tornare in suo paese fine che non trova Amico scac- ciato. Amico, che va cercando sua ventura, una sera fu arrivato a uno albergatore ricchissimo con suoi compagni. L'albergatore disse [ad] Amico che se volea la figliuola per moglie li farà tutti ricchi. Amico, consigliato la donna prenda (1), e' fanno le nozze. E passato uno anno e mezzo, disse Amico a' servitori suoi: Io fo quello non debbo. Amelio mi va cercando et io vo cercando lui, e stiamo qui. E lassato due de' suoi servitori collo scifo, cami- nano verso Parigi. Amelio, che già du' anni avea cercato l'amico, andando verso Parigi trovò uno pellegrino. Domandandolo, come solea fare li altri, se gli sapesse insegnare Amico cavalieri, colui rispuose che mai l'avea veduto. Amelio gli die un vestimento e disse: Prega Iddio che mi dia grazia di trovarlo. Andato il pel- legrino fine a vespro, trovò Amico, il quale disse: 0 pellegrino, saprestimi tu dire u' è Amelio conte? Lo pellegrino disse: Tu mi uccelli, che stamane mi desti una gonnella e io pregassi Iddio che ti facesse trovare Amico cavalieri e tu se'Amelio, ma non so se tu hai mutato veste, armatura e cavalli. Amico disse: Io sono quello Amico che Amelio va cercando , e dato al pelle- grino limosina, disse: Prega Iddio che io lo ritrovi. Lo pelle- grino disse: Gamina tosto verso Parigi, io penso lo troverai. Et essendosi di Parigi partito Amelio, e appresso a uno fiume in uno prato fiorito mangiavano, Amico, armato venendo, vide que' cavalieri armati mangiare. Disse a' suoi : Siate valenti che questa battaglia vinchiamo et andremo in corte et seremo li bene ricevuti. Et messe l'oste in punto. Amelio, che vede costoro atti a combattere, montato a cavallo lui e i suoi, e' percossensi in- I siem? e ciascuno fu valente. Iddio ch'all'afTanno di costoro vuole I puoner fine, parlando a Amelio (2) disse : Deh perchè volete voi ^ ucciderlo lo caro Amico e li suoi compagni? Amelio conte, ciò udendo, stupefatto cognove Amico, che mai veduto non l'avea, se non quando erano di due anni, et abbracciandosi insieme ferno gran festa e fatto ciascuno di loro sacramento che. sempre sta- ranno insieme come veri amici , alla corte del re di Francia s'appresentarono. Lo re fa Amico tesorieri et Amelio scudieri d'onore. E stato per ispazio di tre anni che Amico dalla donna (i) Ms.: presente. (2) Ms.: parlando amico, ma è un errore. DE VERA AMIGITIA ET CHARITATE 101 sua s'era partito, disse ad Amelio: Io vo' andare a vedere mia donna, et tu rimarrai in corte, ma guardati che tu non abbi a fare colla figlia del re, che veggo che t'ama , e sopra tutto ti dico che ti guardi dal pessimo Arderigo, il quale n'ha portato sempre invidia. Amelio disse: E io così farò. Amico si parte. Amelio rimane, et non molto tempo vi steo che colla figlia del re ebbe a fare e di tal fatto Arderigo per sentire disse a Amelio: Amico se n' è ito col tesoro et non tornerà mai, e però io voglio esser tuo compagno. Et impalmegiatisi insieme, Amelio crede po- tergli dire a sicurtà lo suo segreto della figlia del re fet] gliel disse: E stando uno giorno Amelio dinanti al re per dargli acqua alle mani, Arderigo disse : Sacra Corona, non prendete acqua da Amelio, conciossiacosaché sia degno di morte, però che la vergi- nità della tua figlia ha tolto. Amelio, come udio tal cosa, stupe- fatto tremante cadde in terra. Lo re benignamente lo prese per la mano dicendo : Sta su, non avere paura , ma vigorosamente ti difendi, e diede loro termine a dovere in battaglia provare della verit^ prendendo Arderigo un conte gagliardo e savio per suo consiglio. Amelio, che solo era, non avea persona che per lui fusse. La reina, sentendo che Amelio non avea neuno che per lui fusse, gli fé' accrescere il termine fine che fusse tornato Amico. Amelio gli narrò tutto com'era seguito. Spirato Amico di sapienzia, disse a Amelio: Cambiamo le vesti et le armi, e tu te ne andrai alla casa della donna mia, et io combatterò per te e prenderò la battaglia e colla speranza di Dio n'aremo vittoria. Amelio dice : Come mi cognoscerà la tua donna che mai non la vidi? Amico disse: Va e domanda di lei , ma guarda che con lei non usassi. Amelio si partì et giunse a casa di Amico. La donna, credendo fusse il marito, lo vuolse abbracciare e basciare. Amelio disse: Donna, non mi toccare, perocché poi mi parti' io hoe avute molte avversitadi et anco n'ho, e pertanto non ti curi di toccarmi, e la notte quando in del letto entrò messe la spada nuda in nel letto dicendo: Donna, se passi questa spada io t'uc- ciderò; e per questo modo seco [steoj tutto il tempo del termino. La reina, che amava Amelio, avea malanconia perocché capia che Arderigo era valente. Arderigo, che vede favoreggiare Amelio, alla reina dicea che ella non era degna d'intrare in corte poiché avea lassato violare la figliuola. Venuto Amico di- nanti dal re per difendere la infamia data alla reina et alla fi- gliola et a sé in forma d'Amelio ; Amelio sta in forma d'Amico a casa. E messo le cose in ordine, la reina con moltitudine di 102 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI donne, lo re co' reali, del popolo alla presenzia, Amico dice : 0 conte Arderigo, se vuoi desdire quello hai ditto, sempre sarò tuo servidore. Arderigo dice : Io desdico la tua testa e non la tua amistà, e giura presente lo re lui aver violata la figliuola del re. Amico dice che ne mente. Lo re dice: 0 Amelio (cre- dendo che lui sia) francamente ti difendi, che se vinci io ti darò Brigida mia figliuola per moglie. Et combattendo bene tre ore, ultimamente Arderigo fu vinto et Amico gli tagliò la testa. Lo re, che vedea della infamia lavata la figliuola, e la reina^ dili- berò di maritare la giovana a Amelio. Amico, in figura d^'Àmelio, la prese e senza altro fare Amico tornò a casa della sua donna et trovò Amelio. Amelio, credendo che Amico avesse perduto^ vedendolo ebbe grande allegrezza, narrandogli come Arderigo era morto e come avea presa la figliuola del re per moglie per lui dicendogli : Va in corte e quella prendi, et io mi rimarrò colla donna qui. Amelio, tornato in corte, colla figliuola del re si steo^ avendogli dato lo re in dota una città lungo il mare e molto ter- reno. E dimorando Amico colla sua donna, sopravvenendogli al- cuna malattia, de lebbra il ditto Amico fu ripieno, in tanto che tutta la casa ne puzzava. E non che la donna sua gli volesse aitare, ma più volte cercò d'affogarlo. E vedendo Amico che la moglie lo volea uccidere, disse a' servitori suoi : Per Dio io vi prego che prendiate quello si può e lo scifo et levatemi dinanti da questa malvagia femmina e camminiamo in nelle terre del conte Amelio. Li servitori del conte dimandando chi era, lui disse: Io sono Amico, fratello di fonte del conte Amelio, e vegno per stare qui che mi faccia le spese. Li servi d'Amelio dissero che tosto si partissero, dando loro di buone bastonate. Amico, vedendosi cosi scacciare, pregò li servi suoi che almeno a Roma lo conduces- sero. E così fenno, e quine era lor fatto molto bene. E venendo alquante genti ad assediare Roma, essendovi gran fame, li famigli d'Amico disseno : Noi periamo di fame, se più ci stiamo moriremo. Amico, che ciò ode, disse: 0 figliuoli miei, sempre m'avete ubbi- dito, io vi prego che qui non mi lasciate, ma menatemi in nella città d'Amelio. Li famigli dissero che l'ubbidiranno e condusserlo in Francia, in nella città dov'era Amelio conte , e fattolo con- durre in nella piazza dinanti al_ palagio d'Amelio domandando carità, Amelio fa empire l|o scifo^dì vino "^ che '1 papa in nel battesimo gli avea dato, e ditto a uno famiglio che al povero lo portasse, Amico, tratto fuori lo suo scifo, e fatto voi la re lo vino che dato gli era rendendo grazie a chi gliel mandava, lo famiglio, DE VERA AMICITIA ET CHARITATE 103 tornato, disse al conte: Per certo, se non che voi avete lo vostro scifo, io direi che uno che n'hae quello lebbroso fusse il vostro, però che gli è d'una grandezza e d'una fazione. Udito il conte Amelio quello che '1 famiglio dicea , disse : Andate e menatemi colui. E menato, disse unde ha auto questo scifo , e d'onde era et [di] chi era. Amico narrò tutto ciò che incontrato gli era dicendo: Io sono Amico e questo scifo ebbi a Roma quando mi battigiò il papa. Amelio , cognoscendolo , subito l'abbracciò , ba- sciandolo e mettendo guai per la malattia che avea. La moglie d'Amelio ode che Amico, il quale vinse la battaglia d'Arderigo, era lo 'nfermo, scapigliata piangendo colle lagrime bagnava Amico et era tale il duolo che Amelio et la moglie facea ch'era una tenerezza a vederli. E subito gli fé' apparecchiare una ca- mera fornita di ciò che bisognava e con du' suoi servi rimasti, dicendo Amelio ad Amico: Ogni cosa che e' è, è tua come nostra, comanda e sarai ubbidito. E stando per tal modo alquanto tempo e sempre in quella camera et in uno letto (Ameho dormia con lui) una notte venne l'angelo Gabriello e disse : Amico, dormi ? Amico, che credea che fusse Amelio, disse : Fratello, non. L'an- gelo disse : Ben hai ditto, perocché ti se' fatto fratello della ce- leste gloria, e però sappi ch'io sono l'angelo Gabriello et dicoti che tu dichi a Amelio che uccida li du' suoi figliuoli et di quel sangue ti lavi e sarai guarito. Amico disse : 0 angelo di Dio , non sia questo, perocché per la mia salute non vo' che i figli- uoli d'Amelio muoiano. L'angelo disse: E cosi vuole Iddio, e par- tissi. Amelio, che ha udito molto parlare e tutto ha udito dire, dice : 0 Amico, chi era colui con cui parlavi. Amico dice: Neuno, ma io dicea mie orazioni. Amelio dice: Altri era, dimmelo; et uscito dal letto e cercato l'uscio della camera quello trovò chiuso e disse : Piacciati dirmi chi era quello che ti parlava. Amico , che vede che pur gli conviene dire, con lagrime grandi tutto disse. Amelio, benché avesse udito, dà più fede [ad] Amico che al suo udire, e disse: Deh dirami se l'angelo fu o se altri tei disse. Amico disse: Cosi sia io oggi guarito della lebbra come l'angelo fu, ma ben ti prego che in questa parte tale atto non facci, che io sono assai contento così stare. Levatosi la mattina Amelio e la donna andata alla chiesa, ch'era domenica, lassati li fanciulli in nel letto, dopo molte lagrime gittate Amelio sopra li figliuoli , con uno coltello le vene della gola segò loro et in un vaso quel sangue ricolse e [ad| Amico n'andò, e lavato, subito fu mondo da ogni lebbra. Vedendo Amelio guarito. Amico subito lo fé' vestire a suo 104 NOVELLE DI GIOVANNI SERGAMBI pari et alla chiesa n'andarono insieme. Et entrati in chiesa , la donna li vede e non sa qual sia suo marito. Subito mossa disse: Qual di voi è mio marito Amelio ? e chi è l'altro ? Amelio disse: Io sono lo tuo sposo e questi è Amico nostro fratello , il quale Iddio l'ha stamane libero della lebbra, et però godiamo e ren- diamo laude a Dio, che ha liberato lo nostro fratello. La donna allegrissima dalla chiesa si parte, et a casa tornata dando ordine di fare grande festa, e posti a taula, disse la donna: Deh leviamo i nostri figliuoli che sieno alla festa d'Amico nostro. Amelio, che ciò ode e sa quello ha fatto, disse: Lassali posare et noi pren- diamo piacere. La donna disse : Per certo ellino denno sentire dell'allegrezza che noi sentiamo. Amelio di tenerezza per non pianger si leva di taula, mostra di andare per alcuna faccenda, et entrato in camera trovò li figliuoli in sul letto che ballavano avendo intorno al collo una sega come fusse un corallo rosso. Amelio gridò dicendo : Venite qua, amici e parenti, a fare alle- grezza, che Dio ha dimostrato oggi du' così evidenti miracoli , l'uno di Amico, l'altro de' miei figliuoli. La donna corse et Amico. Disse la donna: Che n'è? Amelio disse che i figliuoli erano re- suscitati e però che lui li avea morii per lavare Amico col sangue loro. Rispuose la donna e disse : 0 Amelio, poco amore m'hai dimostrato ; et perchè non mi chiamasti quando volei uc- cidere i miei figliuoli, che io avesse tenuto lo vaso per riparare il sangue, acciò che Amico fusse guarito ? Amelio disse : Donna, lodiamo Dio et facciamo bene perocché ci ha dimostrato così che noi siamo suoi servidori. E restato tali parole, intesero a man- giare, et non molto tempo steo che a Amico venne novella come la donna sua dal dimonio fu strangolata, per la qual cosa, dopo molti beni che faceano. Amico e Amelio vissero lungamente e quasi in un tempo morirono e funno soppelliti in uno avello in San Piero a Roma, là ove noi quello potremo vedere. DE FIDE BONA 105 25. [Triv., no 40]. DE FIDE BONA. Fu in nella città di Roma , dove stasera siamo , uno giudeo nomato Adamo, molto intendente della sua legge e già maestro ; il qual dopo molto tempo stato in Roma , vedendo venire in squadre re e gran signori et altri venerabili e savi omini a vi- sitare la corte di Roma , immaginando fra sé medesimo Adamo come potea essere che tanti valenti omini veniano a fare reve- renzia al papa de' cristiani , e dopo molto pensare fra sé disse : Per certo, disse, questo capo de' cristiani de' essere gran fatto, poiché cosi mantiene i suoi servitori e cristiani, e per certo, se io fusse certo di tal fede, volentieri quella torrei; ma non soe chi del vero me ne sapesse dichiarare, però che se dal santo o da altri volesse da loro esser certo, loro per non essere biasmati lo direnno che la fede loro fusse perfetta. E cosi , volendo io esser certo di tale cosa, mi conviene andare a persona non so- spetta, e non ci veggo persona che di tal cosa mi possa fare certo , se non che io n'andrò in nella chiesa di San Piero , et quella che i cristiani chiamano la vergine Maria, la quale prima troverò in tal chiesa, quella domanderò che mi faccia certo di quello hoe sospetto. E fatto questo proponimento, la mattina le- vatosi n'andò nella chiesa di San Piero, et [a] una colonna della ditta chiesa vide nostra Donna dipinta col figliuolo in braccio, e pensò di voler domandarla acciò che fusse certificato della verità, e chi era quello che tenea in braccio , et po' dimandare nostra Donna di parte in parte, secondo che a lui sera alla domanda risposto. E fatto tal pensieri, renduto alquanto riverenzia a no- stra Donna, disse in rima: Dimmi per tuo onore, se ti piace, donzella, 0 chi è cotesta stella, che di saperlo mi [si] strugge il core? La Vergine, sapendo il buon proponimento di Adamo, per dargli buono esemplo et anco per fare la fé' di Cristo per lo ditto ado- ran\ e ad esemplo di chi volesse mai tenere il contrario et a 106 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI esaltazione di tutti i cristiani, s'inclinò di dare responso a Adamo giudeo. Et alla domanda di Adamo rispuose secondo che a lei fu domandato rispondere, e cominciò a dire: Con tanto desidero fai tua petizione, che già niente ti posso negare. Or intendi il mistero della responsione: questi morendo fé' te ricomprare. E per me' satisfare a tutto '1 tuo desio, quest'è il figliuol di Dio, che prese carne di me per tuo amore. Udita da Adamo giudeo la consolata e devota responsione fatta alla sua domanda, et essendo fatto chiaro che il figliuolo della vergine Maria era figliuolo di Dio, volendo più oltra sapere, disse che lei lo dichiari se tal figliuolo è quel Messia che i giudei aspettano. E disse : Un fuoco in nella mente il tuo parlar m'ha misso, donzella che mi dai pena e diletto. L'anima doglia sente e 'mpallidisce il viso, e mi vien meno il debole intelletto. Si uno m'è sospetto, ma piacciati, Maria, dirmi se l'è '1 Messia promesso dalla legge e '1 salvatore. La gloriosa Vergine, vedendo già Adamo aver cfeduto che '1 suo figliuolo era Iddio, et avendo udito la dolce domanda se tale era Messia, per farlo chiaro, vogliendo a' suoi preghi condiscendere, disse: La mente in alto leva e lo spirito santo, e Dio vedrai in questa carne unito. Costui Adamo et Eva e '1 mondo tutto quanto creò eterno e infinito. Quost'è che esaudito ha di padre l'amore, quest'è il Messia che in carne del sangue suo fu di noi redentore. DE FIDE BONA 107 Adamo, chiarificato della graziosa risposta, e certificato il fi- gliuolo della Vergine essere quello Messia che i giudei aspettano, ma per esser più certo disse se tal figliuolo è nato di vergine, qua.4 a dire: Tu avevi marito quando tal figliuolo parturisti , come può essere che di vergine nato sia? E domandatala in questo modo, cioè : Quanta dolcezza sento del tuo parlar, Maria, di questo frutto tanto dilettoso. Ma in parte pavento perchè di vergin dia nascie donzella che mai sposo (1). Non mei tener nascoso, lume nel cuor mi rende, a la vittoria intende, si ch'io ricognosca in mio signore; la excellentissima vergine Maria, cognoscendo che Adamo già credea el suo figliuolo essere quel vero Messia, et avendo sentito il sospetto che prendea se tale figliuolo era nato da vergine, per onestare il figliuolo et anco se, e per certo ricordo della verità, con voce suavissima disse: Io son di Dio sposa, in virginità santa, che luce in me più che stella serena, lo son candida rosa, in umiltà tanta che dir m'ha fatto: ave, gratia piena. Parturi' senza pena questo mio figlio (2) e padre, e son vergine e madre, e tutta son dell'eterno fattore. Certificato Adamo il figliuolo di Dio essere Iddio e quello Messia che i giudei aspettano , et esser nato di vergine per lo Spirito Santo, con devotissimo cuore rendeo grazia in questa forma, cioè : Tal'è l'offesa grave, ch'i' t'ho fatto, donzella, ch'io ti domando per grazia mercede. (1) Evidentemente corrotto. Cos'i nel ms. (2) Ms.: figliuolo. 108 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI 0 dolce vergin ave, ave, lucente stella, ave, reina fontana di fede. Beato chi ti crede, benedetto sia il frutto che '1 tuo ventre ha produtto, Cristo Gesù, ch'è fior sopr'ogni fiore. La reverenda madre di Cristo, udendo la dolce ringraziazione che Adamo avea fatto a Dio et a lei, e vedutolo disposto a farsi cristiano e lassare la fede giudaica , distendendo la mano, lo benedisse. Adamo , partitosi come più tosto poteo , si fé' cri- stiano, vivendo poi come verace cristiano, et fini li. suoi di con santità. DE CASTITADE 109 26. [Triv., no 42]. DE CASTITADE. Anticamente Roma era ripiena d'oneste et caste donne, infra le quali che in Roma fusse nomata di castità fu una venerabi- lissima donna nomata madonna Lucrezia, bellissima e di gentile sangue romano nata, e moglie di uno de' principi delle milizie di Roma nomato Bruto. Essendo tale marito e principe andato in servizio del comune di Roma a conquistare contro alcuni ri- belli di Roma, lassando la sua donna Lucrezia in Roma, divenne che uno nomato Larino, figliuolo di Tarquinio superbo, maggior del dominio di Roma, il quale Larino avendo sentito et veduto la bellezza di Lucrezia e saputa la sua onestà, pensò lei avere per amore ovvero per forza. Et con più modi pensò venire al- l'effetto del suo pensieri, e niente gli valea. E parendo a La- rino lo indugio pena , dispuose una sera di notte entrargli in casa e cosi fé'. Et preso un famiglio di Lucrezia, il quale con Bruto era stato molto tempo lealissimo e fedele, et andato in nella camera solo il ditto Larino, lassando il famiglio in sala a guardia de' suoi famigli che menati avea , e perch'era figliuolo del signore di Roma il ditto fante stava per paura cheto , e giunto in camera, Lucrezia disse: Larino, che vuol dire che di notte a si fatt'ora se' venuto a una onesta e casta donna? non mi pare che sia ben fatto , e pertanto ti dico che di casa ti parti per lo tuo e mio onore. Larino, ch'avea mali pensieri, manimettfìndola per voler isforzarla, Lucrezia dinegando in tanto che Larino niente di sua intenzione può avere , e vedendo non poterla aver per quel modo , fé' il famiglio preso metter in ca- mera e disse: Or m'intendi, Lucrezia, quello ti dirò. Se tu ac- consenti a me , giammai tal cosa non si appaleserà. Lucrezia disse: Tu m'ucciderai prima ch'io a te consenta. Larino disse: Io ti dico, se non acconsenti, io nuda in nel letto t'ucciderò, e nudo a lato a te porrò questo tuo famiglio, e simile ucciderò, et poi farò dire: Odi che Lucrezia, ch'era tenuta sopra tutte le donne romane casta, è stata trovata col suo fante in nel letto, abbracciati nudi, et uno parente di Bruto li ha amendue uccisi; e per questo modo sera vituperata la tua fama. E preso il fa- 110 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI miglio per ispogliarlo, tenendo la spada nuda in mano, Lucrezia pensa quello ha ditto e simile '1 suo buon nome esser perduto. Non curandosi tanto della persona, quanto del suo buon nome, diliberò acconsentire con uno proponimento assai terribile, come udirete. Avendo Larino auto per tal modo Lucrezia e partitosi, Lucrezia , sentendo che Bruto suo marito avea avuto vittoria d'alquante battaglie, acciocché non andasse più avanti, gli mandò a dire gli piacesse [venire]. Bruto, che amava Lucrezia quanto sé, pensò: Per certo qualche difetto ara, e avuto licenzia di tor- nare, tornò. E come Lucrezia sentio che Bruto suo marito tor- nava , subito vestita di bruno in nella camera l'aspettò. Bruto , come fu giunto a Roma, andò al senato, notificando che [dopo] la vittoria era venuto a Roma , et poi domandò (1) d'andare a casa sua. Li parenti di Bruto e quelli di Lucrezia in gran mol- titudine (però, com'è ditto, erano de' maggiori principi di Roma) giunti in sala, Lucrezia aperta la camera et di nero vestita, con uno coltello nudo in mano si pose contra al marito. Lo marito e li altri, vedendo Lucrezia in quella forma, meravigliandosi dis- sero: Or che è questo? Lucrezia disse: Bruto, marito mio, la tua gentilezza e nobiltà non si de' a una meretrice accostare. Bruto disse: Che è quello che io t'odo dire? dimmi quello eh' è la ca- gione che tali parole hai ditte. Lucrezia contò tuttociò che La- rino, malvagio uomo, gli avea fatto e il modo, per la qual cosa ti dirò a te e a tutti li miei parenti e tuoi, poiché la mente non acconsentio a peccare, che di questa mente vendetta facciate, e perché la carne n'ebbe alcuno piacere questa mano ne farà la vendetta. Et con quello coltello in nel petto si die per modo che subito morta cadde. Lo marito e parenti di Lucrezia, fatti certi che Larino così avea fatto, e veduta Lucrezia morta, subito ri- chiesti loro amici e parenti, et armatisi a remore andarono al palagio di Tarquinio superbo, là u' trovarono Larino, e datogli molti colpi l'uccisero, e poi il padre scacciato di signoria di Roma con tutti i suoi. E per tal modo Lucrezia fu vendicata. (1) Ms. : domandato. DE RE PUBLIGA 111 27. [Triv., n" 43]. DE RE PUBLIGA. Poiché abbiamo toccato delle cose di Roma, ancora al pre- sente vo' dire, che essendo Roma per alcuno loro peccati comin- ciata a diminuire, apparve uno segno in sulla piazza di Roma con uno fuoco, il quale andava ardendo a poco a poco la piazza. Era questo fuoco in forma di una tana molto profonda et era tonda come uno pozzo, al pari della terra. Et la fiamma andava molto alta e di continuo s'allargava, et per questo modo si facea questa bocca molto larga , non diminuendo però il fuoco , ma sempre multiphcando, in tanto che '1 popolo di Roma stimava (1) per questo fuoco perire, e che Roma a poco a poco ardesse tutta. E venuto loro astrologi , videno che quel fuoco non dovea mai restare se uno spontaneamente da sé medesimo armato a cavallo in tal fossa non si gittava. Sentito da tali astrologi il modo, su- bito uno nomato Scipione, armato a cavallo in tal luogo si gittò, e gittatòsTTFriìòco si rinchiuse , et per questo modo Roma fu libera. (1) Ms. : stimata. 112 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI 28. [Triv., no 44]. DE RE PUBLIGA. Essendo Roma assediata da Annibale africano , e quello es- sendo più tosto atto a disfarla che Roma a potersi difendere (1), et non avendo li Romani potuto contrastare alla potestà di An- nibale, e non avendo fanti d'armi ne soccorso aspettando, consi- gliandosi fra loro disseno : Che partito prenderemo ? voi vedete Roma assediata et di fame oppressa, et vedetela in tal termine, che necessaria cosa sarà noi in nelle mani del nostro inimico metterci. Et quanto a Roma et a noi torni onore voi lo potete comprendere. Tanto a noi (2) pare che se or fusse persona che volesse metter sé alla morte per salvare Roma , saremmo di tanta pestilenzia liberi. Et il modo che dovre' tenere sere', che con uno coltello andasse in nel campo , et appressandosi a An- nibale quello uccidesse. Ucciso il capo, gli altri varranno poco et per questo modo saremo salvi. Udito tal consiglio, subito molti si levarono, in fra' quali fu uno chiamato Formicone, e disse che quella opera farà lui. Era, in quel tempo che questo fatto si fea, p M-'^^*^ ^^ verno, che stando Annibale al fuoco, con molti baroni onorevol- XqtI''^ mente vestiti intorno a uno fuoco, il preditto Formicone giunse J(..K quine u' erano li baroni, e non cognoscendo Annibale, vedendo ■fl r^ uno barone onorevole più che li altri vestito, di quel coltello H'J^ ^ gli (jiè per lo petto, e morto l'ebbe. Annibale, che questo [videj, ^ disse: Che vuol dire questo? chi se' tu? Lui disse: Sono Formi- cene romano, il quale per liberare Roma ho ucciso Annibale e non curo ornai morire. Annibale udendo disse : Tu non hai morto Annibale, ma uno altro in suo luogo morto hai. Formicone disse: Benché morto ora no sii, non potrai scampare, perocché più di mille hanno deliberato morire per ucciderti, se da Roma non ti parti, e perchè la mano mia fallio a non dare a te, e' ne patirà prima la pena. E subito in presenzia di Annibale e d'altri quella mano in sul fuoco misse e non mai ne la levò che fine al braccio fu arsa. Annibale, vedendo la costanza del romano e l'online preso tra loro, disse: Per certo io della morte campare non po- trei, diliberando per quella volta col suo esercito ritornare. E per questo modo Roma fu dall'assedio libera per lo buono For- micone romano. (1) Ma.: e quella esser più tosto atta n disfarla che Roma potersi difendere. Ci) Ma.: a me. DE FALSO PERGIURIO 113 29. [Triv., n» 46]. DE FALSO PERGIURIO. Li romani antichi aveano per costume voleano che le loro donne stessero caste, et per esser certi se caste fussero, ordina- rono per loro arti e maestria una macina , la quale avea tal vertù, che quando una donna avesse fallito al suo marito e posta la mano in sulla macina, come giurato avea e giurasse il falso, la macina volgea , et se giurava il vero la macina stava senza voltarsi. Divenne che una giovane nomata Fiorina , moglie di »^ uno romano chiamato Piruco , "ella s'innamorò di uno giovano ^ romano nomato Sodo, et venuto a compimento il desiderio di Fiorina d'aver saziato più volte la parte di sotto con Sodo, e perchè tali cose non si puonno spesse volte fare che non si senta, fue sentito per Piruco, marito di Fiorina, ch'ella si fallia, ^^ ma non sapea con cui; per la qual cosa Piruco, costretto "9SÌ suo onore, diliberò d'accusare la donna et di menarla alla ma- cina. Et come diliberò misse in effetto, che quella accusò (1) da- togli termine a comparire ; però Fiorina parlò con Sodo, dicen- dogli: A me conviene esser condutta alla macina e tu sai che io più volte ho avuto a fare teco, però ti prego mi dà consiglio al mio scampo, acciocché vituperosamente io non sia arsa. Et se volessi dire: Andiamne con Dio, ti dico che quello fare non si può, perocché io sempre [temo] (2) le guardie della giustizia. Sodo le disse: Fiorina, io per me non so trovare modo di po- terti scampare. Fiorina, che avea trovato il modo a contentare la sua voglia , disse a Sodo : 0 Sodo , se tu vorrai fare a mio senno, io penso salvare me e '1 mio onore. Sodo disse: Comanda et io il farò. Fiorina disse : Fara'ti matto, et quando io sarò me- nata alla giustizia della macina, e tu vieni et abbracciami e ba- sciami et poi ti fuggi, e cosi farai più volte, e poi lassa fare a me. Sodo, che gli volea bene, subito fé' vista d'essere ammattito et (1) Ms.: accusata. (2) Qui manca evidentemente una parola nel ms., e credo di non esser andato lungi dal vero suggerendola. Remeb. Xovelk di G. Sercambi 114 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI per Roma andava facendo le mattie co' panni stracciati voltan- dosi per lo fango, e tutto ciò che un vero matto facea il Sodo cosi facea. In tanto che per tutta Roma Sodo era per matto te- nuto , e benché dimostrasse matto tanto, a ninno facea male. Venuto il giorno che Fiorina è menata alla macina, Sodo, com'ella uscio di casa accompagnata dalla famiglia e da alquante donne, se gli accostò, et abbracciolla e basciolla, e partissi subito. E come fu andata alquanto. Sodo, uscito d'uno cantone di corsa, si misse tra la famiglia et abbracciò Fiorina e basciolla e fuggio. E con- dotta Fiorina dinanti alla Signoria , essendo la macina presente e simile Piruco suo marito, prima che d'alcuna cosa fusse do- mandata venne Sodo, e passando tra omo et omo andò dov'era Fiorina, et in presenzia della Signoria e di Piruco abbracciò Fio- rina e basciolla e fuggio. E stando Fiorina dinanti al giudice, domandato Piruco che volea dire della moglie , Piruco disse ch'ella avea auto a fare con altro omo che seco. Lo giudice dice: Fiorina, odi tu quello che tuo marito dice? Se dici di no, e la macina nel mostra, non avrai alcuna remissione, ma di presente al fuoco sarai menata, e quine la tua persona sera arsa : se dici la verità, qualche rimedio potrai avere al tuo scampo. Fiorina dice : Messer lo mio marito può dire ciò che vuole et io son qui dinanti da voi per ubbidire i vostri comandamenti. Lo giudice dice: Fiorina, metti la mano in sulla macina e giura se altro omo che il tuo marito t'ha tocca e di te avuto piacere. Fiorina, messa la mano in sulla macina, disse: Cosi mi scampino li no- stri dii, come alle mie carni ne a me s'accostò mai persona altri che '1 mio marito e quel matto che in vostra presenzia mi abbracciò e basciorarai. E fatto il sacramento, la macina non si mosse, ma salda steo. Lo giudice, che non comprese il motto, liberò Fiorina, dicendo a Piruco che la sua donna era casta e raandoUa a casa. Li dii, vedendo che la macina era stata per malizia di Fiorina vituperata, da quell'ora inanti la vertù che prima avea perdeo, né mai tale vertù si riacquistò. DE AMORE ET CRUDELTATE 115 30. [Trir., n" 47]. DE AMORE ET GRUDELTATE. Nella città di Roma al tempo di Giulio Cesare fu una donna nomata Tullia , nata di gentile sangue e d'ardito cuore , essen- dosi maritata a uno gentile omo di Roma nomato Pompeo. E molto tempo stata la ditta Tullia col marito, vivente il padre di lei, essendo già vecchio, divenne che '1 ditto Pompeo di na- turai morte morìo. Tullia dogliosa, veggendo il marito morto e 1 padre vecchissimo , come donna reale , volse che suo marito Pompeo in su un carro fusse portato a farne cenere, com'era di usanza de' principi di Roma , e perchè il padre di Tullia era vecchissimo , per più onore del marito diliberò Tullia romana che il carro, sopra il qual era il marito, andasse sopra il dosso del padre , et cosi seguio che il padre di Tullia romana fu morto per onorare Pompeo suo marito. E però potete compren- dere quanto Tullia fu savia a mettere il padre vivo per lo ma- rito morto. ^/^-t^^^i^^t^^ 116 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI (s^'^ . Vo z^M' 31. [Triv., no 48]. DE RECTO AMORE ET GIUSTA VENDETTA. ■'^^ Prima che Cristo incarnasse in nella vergine Maria, era in Roma uno imperadore nomato Adriano, il quale avea una sua figliuola grande donzella nomata Isifile , la qual lo 'mperadore tenea in una bellissima torre di notte et alcuna volta di die , quando ella non uscia fuori di casa, che molte volte andava per suo spasso per Roma. Avvenne che in quel tempo Vergilio poeta fu scacciato di Mantova, e arrivato Vergilio poeta e gran mae- stro in arte negromante a Roma, e quine dimorato molto tempo, vedendo un giorno Isifile e piacendogli, et essendo del mese di maggio, s'innamorò di lei per modo, che non molto tempo steo che a Isifile fé' dire il bene che a lei volea. E dopo molte pa- role , Isifile per ingannarlo rispuose che era contenta d'accon- sentire alla volontà di Vergilio, ma non vedea modo che a lei andare potesse se non a uno modo e quello era assai faticoso, ma pure pensava che fatto verro'. E il modo era questo, che ella, chiesto licenzia al padre d'avere suso in torre uno canestro di rose, Vergilio in quello canestro di rose intrare dovea et lui ti- rare' suso, e prenderenno loro piacere, e dopo per quello mede- simo modo si ritornere'. E tale risposta a Vergilio mandò. Ver- gilio , che l'amore avea in lei acciecato , contento disse ch'era presto a entrare in nel canestro et ella su lo tira. Ordinata la cosa, Vergilio in nel canestro entrò, coperto di rose. Isifile falsa tirò Vergilio fino al mezzo della torre et quine tutta la notte fino al mezzo dì lo lassò pendente. Vergilio, vedendosi ingannato e non vedersi andare né su né giù, e stato tanto tempo, più volte per disperazione del canestra volse uscire e lassarsi cadere; ma l'animo suo facendosi forte di siffatto fallo per Isifile commesso a suo tempo vendicarsene, se ne rlsteo che del canestro non uscio. Isifile malvagia avendo fatto stentare Vergilio quindici ore, parendogli tempo di lui vergognare, mandato per lo 'mperadore suo padre, a lui venendo disse: 0 padre carissimo, vendicami della vergogna che a me é stala voluta fare da uno malvagio. Lo 'mperadore disse : Chi è stato tanto ardito che la figliuola dello 'mperadore abbia voluto vergognare ? Isifile disse : Padre carissimo, avendomi voi DE RECTO AMORE ET GIUSTA VENDETTA 117 •dato licenzia che uno canestro di rose potesse in nella torre tirare, uno Vergilio mantovano, ingannando (1) quello che le rose arrecava , in nel canestro entrò e coperto di rose suso lo feci tirare, et vedendo io che molto pesava, quando a mezzo della torre fu -tirato , considerando le rose tanto non dover pesare , fattami alla finestra della torre, Vergilio vidi, et io ciò vedendo fermai la fune acciocché voi, padre, lo possiate vedere e di lui farne quella giustizia che merita. Lo 'mperadore, fattosi alla finestra, vide Vergilio, e subito fattolo andare giù e messo in nelle pri- gioni, dopo molta deliberazione fu deliberato che Vergilio mo- risse. E venuto il giorno che Vergilio morir dovea, fattogli noto la morte, subito Vergilio con una sua arte, essendo menato alla giustizia , a uno suo famiglio si fé' portare uno bacino pieno d'acqua et quine messovi la faccia disse : Chi Vergilio vuol tro- vare, a Napoli lo vada a cercare: et subito dalli spiriti maligni fa preso e messo in Napoli. Lo 'mperadore, ciò sentendo, mera- vigliossi (2) dello scampo di Vergilio. E non molto tempo steo Vergilio che del fallo commesso per Isifile si volse vendicare , che subito per arti fé' che in Roma fuoco non si trovava né per alcun modo arrecare né fare se ne potea. Vedendo lo 'mpera- dore questo et essendone estimolato dal popolo, dicendo: Noi periamo e siamo costretti abbandonare Roma se morire non vo- gliamo, lo 'mperadore non sa questo fatto unde proceda e niente / rispondea. Vergilio, che tutto sa, mandò a"~3Tre allo imperadore xjhe mai in Roma non ritornerà fuoco se non di quello che dal I ) culo d'Isifile sua figliuola si prendesse, notificando, se neuno ad \ , altri di tal fuoco desse , che il suo e '1 dato si spegnere'. Lo • ^mperadore, veggendo il popolo romano , diliberò , posposta ogni vergogna della figliuola , ch'ella alla piazza comune fosse col culo nudo alzata, et chi volesse del fuoco con bambagia, panno, ' stoppa, andava et al culo d'Isifile lo ponea, e di presente il fuoco \ s'apprendea , e per questo modo convenne che tutti quelli di Roma, maschi e femmine, vedessino il culo a Isifile, perchè non volse che Vergilio gliel vedesse. Et cosi fu isvergognata lei e lo 'mperadore che mal più omini. (1) Ms.: digannando. (2) Ms. : meravigliandosi. , ---■ ' i CO] V- ' A / "^ \f ^lìA^Pf-- Et NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI *). 32. [Triv., no 49]. DE PRUDENTIA IN CONSILIIS. / ^u#vV -^^^ tempo che Roma [si] reggeva a senato , prima che altra ^A i f*^^^ l legge si facesse, quelli ch'erano di consiglio menavano , quando erano richiesti, a' consigli li loro figliuoli perchè li provassero (1), , -, ^ ^-. ' , coice_molt^ matti oggi fanno, che vorrenno che uno suo figliuolo ^' ^ ' ' ^" tre 0 quattro anni stia in banca a sedere con omini vecchi. Et quanti ne sono stati e sono in nella nostra città di Lucca , che a ogni ora, quando scranno richiesti in palagio a stretti con- sigli, vinerà uno fanciullo ^ che dirà : Babbo , io vo' cacare ! Et essendo il padre al consiglio stretto, dirà: Aspettate fino che i' ho menato a cacare il mio figliuolo. E per questo modo i comuni sono consigliati. Divenne uno romano nomato Simone, avenda uno suo figliuolo nomato Merlino , avuto da una sua donna no- mata madonna Cicogna, questa (2) di continuo dal figliuolo volea sapere quello che in ne' consigli di Roma s'era fatto, [et] la fanciullo tutto dicea. Avvenne un giorno che '1 ditto Simone fu richiesto per istretto consiglio fusse a palagio. Simone, con Mer- lino suo figliuolo, andò al consiglio, e quine praticato alcuna cosa molto secreta, fu per lo senato ordinato, acciò che spandere tal secreto non si potesse, che ognuno giurasse, sotto pena della testa, che il consiglio non s'appaleserà. E tal sacramento fu dato àei'{3) cjl padre di Merlino. Merlino fanciullo, udendo il comandamento e vedendo il sacramento fatto , subito si puose in cuore di non dirlo alla madre. Et licenziato il consiglio e Merlino tornato a casa, madonna Cicogna sua madre domandando Merlino che s'era fatto in consiglio, Merlino dice: Madre, e' non s'osa dire. La madre disse: lo lo vo' da te sapere. Merlino dice: Madre, non ^ vogliate sapere , peiJoechè da mio padre è stato dato in sacra- mento, sotto pena della testa, che il consiglio non s'appalesi, e [)ertanto io non vel direi mai. Madonnna Cicogna, che hae la volontà bestiale, disse: 0 tu me lo di', o io ti batterò per modo- U^LhÀ (1) Ms.: provassi. (2) Ms.: la quale. (3) Ms.: al. f^^% DE PRUDENTIA IN CONSILIIS 119 mei dirai. Merlino disse : Madre, voi dovereste amare la vita di Simone vostro marito. Per certo, se questo consiglio s'appalesa, lui è condannato alla morte et pertanto io non vel dirò (1). Ma Cicogna, che poco si cura del marito, per adempire il suo desio, prese Merlino et con una sferza lo battè, e niente da lui può sa- pere. Ultimamente vedendo madonna Cicogna che per quel bat- tere non potea sapere il consiglio, spogliando il figliuolo, disse (2): 0 io t'ucciderò, o tu il consiglio mi dirai. E cominciollo a bat- tere fortemente. Lo fanciullo sostiene. Madonna Cicogna non resta, ma multiplicando tanto che sangue per tutto versa, dicen- dogli: Io ti convegno vendere; Merlino, che non può più soste- nere, dice : Madre mia, poiché io veggo la vostra volontà , vi prego che per amor del mio padre non dobbiate il consiglio ap- palesare ; io vel diròe. E la madre dice : Dimmelo. ^Merlino savio dice: Il senato ha diliberato che ogni (3) romano debba pren- dere tre mogli per multiplicare il populo. Ben vi dico che questo tegnate secreto. La Cicogna , come più tosto poteo , ritrovatasi con molte cicognine, tal consiglio narrò. E tanto fu lo dire, che più di seimila donne assieme si trovarono, deliberando andare al senato et dire che tal consiglio non piacea loro. Et cosi in- sieme al senato n'andarono, e fecero madonna Cicogna caporiona d'andare, come maestra, dinanti al senato. E così in torme, come le pecore senz'ordine , quelle cicognine , seguitando la cicogna maggiore, giunte le donne romane ài palagio del senato di Roma, mandonno a dire che voleano al consiglio parlare. Essendo già commossa tutta Roma, omini e donne, per sentire quel che volea dire lo raunamento che fatto avea madonna Cicogna coll'altre cicognine, giunto il consiglio in palagio, Simone, marito di ma- donna Cicogna, disse: 0 senato, che vuol dire questo? Il senato e l'altro consiglio disseno: Noi non sappiamo. E raunato il con- siglio , diliberonno mandare a dire a quelle smemorate , che a pie del palagio gridavano d'esser udite , et andato uno cancel- lieri a dire loro quello voleano, disse la maestra delle poco savie: ^ Noi voghamo sapere, che il senato e '1 suo consiglio ha fatto legge che debbia essere nostro danno, e vogliamo sapere perchè. Lo cancellieri, avuta la imbasciata, et al senato et al consigho (1) Ms: direi. (2) Ms. : dicendo. (3) Ms.: per ogni. 120 NOVELLE DI aiOVANNI SERCAMBI [riferitoj di quello che le donne poco savie romane aveano chiesto, : disseno che per loro si mandasse. Et così il cancellieri andò a . loro e disse che al senato andassero a dire la loro ragione e che volentieri seranno udite; ma perchè nel palagio non potreste capire, tante sete quelle che la volontà più che la ragione v'ha mosse, bene è che alquante ne lasciate collo errore loro che non vegnano. Madonna Cicogna disse: Voi dite bene, et elesse di quelle che come lei aveano il cuore magnanimo a poter non che uno omo saziare, ma molti non bastere' loro. Et con ardore giunseno al senato et al consiglio , dicendo prima madonna Ci- cogna et poi raffermando l'altre in questo modo: Senato e voi del consiglio, a noi è venuto a notizia che non molti giorni è che ordinaste in consiglio che ciascuno romano possa e debbia prendere tre mogli, qual più gli piace. E pertanto noi a questo consiglio non fummo richieste et però la legge fatta non vale, e se pur voleste udire le ragioni , vi dichiamo che non tanti j omini ha Roma che la sesta parte delle donne romane conten- j tasserò loro volontà, appieno le donne pasciute non si trovenno. E pertanto vi dichiamo, che se i nostri mariti desiderano avere tre mogli , e di questo non ne sanno render ragione , ora che siamo in nel consiglio dichiamo , che a noi ne siano tanti con- ceduti di mariti che abbastanza ci abbiano contente. E per questo modo crescerete Roma di genti d'arme più che se i nostri mariti prendesseno tre mogli per ciascuno. Lo senato e '1 consiglio, udendo perchè le donne romane aveano fatto un tal raunamento et udendo dire che di ciò per lo senato s'era diliberato, rivol- tisi a madonna Cicogna dissero (1) che '1 consiglio volea sa- pere da lei onde aveano che tal consiglio era stato fatto , me- ravigliandosi che lei tal consiglio possa aver saputo. Madonna Cicogna dice: Merlino mio figliuolo l'ha ditto. Il senato et con- siglio, stretti insieme con Simone, padre di Merlino, dicendo che volea dire questo, Simone dice niente sapere, ma man- disi per Merlino e tutto dirà. Lo senato subito mandò per Merlino, che il giorno, per esser ito alla scuola, il padre al consiglio non l'avea menato, et questo fece perchè tal consi- glio non fu con ordine. Venuto Merlino al senato et al con- siglio, e dittogli quello che la madre avea ditto de' mariti tre, Merlino ridendo disse: Io vi dirò tutto. E raccontò al senato che (i) Ma.: rivoltosi.... disse. DE PRUDENTIA IN GONSILIIS 121 la madre volea che a lei dicesse quello che in nel consiglio era fatto, e dopo molte battiture e sangue versato, vedendo la sua volontà , per non appalesare il vostro secreto , deliberai dire •ch'era diliberato che ogni romano tre mogli potesse prendere, irapromettendomi di non dirlo a persona. Ora veggo ch'ella a tutta Roma l'ha palesato; non che a Roma (1), ma a tutto 'l mondo mia madre l'are' fatto palese. Lo senato, vedendo il senno di Merlino , e sapendo la ragione , in presenzia di quelle mat- tacce dissero : Et noi deliberiamo, che non più che una se ne possa tenere, perchè veggiamo che, [se] mal se ne contenta una, mal se ne contentare' tre. Le donne gridarono: Voi dite vero, e ciascuna di noi tutto '1 di il prova, che i nostri mariti al de- cimo non ci contentano. E per altro modo ne convien talora di vivande strane l'appetito [saziare]. Le cicogne romane contente, rimaso el senato e '1 consiglio, dissero: 0 consiglieri e voi savi romani , quanta confusione ha ricevuto oggi Roma , e solo per appalesare alle donne le cose secrete! Et pertanto è bene che s'ordini che in nel consiglio neuno entrare possa, né esser me- nato, se tale non fusse richiesto. Ma perchè Merlino è stato savio e ha sostenuto tormento, possa, senza esser richiesto, in ne' consigli intrare , et a tutti li altri sia expresso comanda- mento di non entrare. Et cosi fermò che neuno, il quale non fusse richiesto al consiglio, in quello intrare non potesse, salvo Merlino. (1) Ms.; in Roma. 122 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI 33. [Triv., n» 50]. DE FALSITATE MULIERIS. Al tempo che Alexandre signore del tutto regnava, prima che Cristo incarnasse, ebbe il ditto Alexandre per suo maestro uno filosofo, maestro di filosofia, nomato x\ristotile, il quale ammae- strando xllexandro più tempo steo con lui. Divenne che il ditto . Alexandre prese per moglie una donna barbara bellissima e gen- ) Mvi-''*^ tile, lo cui nome fu chiamata lnàc[òhnaOrsina7~x^"l5osfèI prese ' "senza che mai Alexandre veduta Tavesse, et menatala, Aristotile, come la vide, comprese questa madonna Orsina essere di com- ^ i^^'tJLa plessione molto_calda et lussuriosa et vaga jdell'omo. Alexandre, ^ ,^ che giovano era gagTiar3ó^~"3r~ciicirè gentile, vedendo madonna Orsina bellissima, co' lei più che a tanto signore non si convenia usava, et ella più s'arrendea in tanta caldezza , che in men di , uno mese alquanto Alexandre fu della persona indebilito. Ve- dendo Aristotile quelle che Alexandre, poiché la donna prese, era divenuto, subite parlò ad Alexandre dicendo : Poiché tu mi hai eletto che io tuo maestro e guidatore della sanità et buoni costumi [sia], ti dico che non voglio, per saziare quella cosa che mai saziare non si può se non come lo inferno che mai non si de' saziare, tu vegli perire e tutti i tuoi sottoposti teco perissene. E pertanto, oltra li altri consigli che t'ho dati, ti do questo che de lussuriare tanta lussuria fare non debbi, né vegli prendere a contentare fciòj che mai contentare si petre'. E tu, come savie, ornai prendine il migliore. Alexandre , che mai dal consiglio di Aristotile non si partio, colla sua né con altra donna usava se non per modo che a lui alcun male far non petea. Madonna Orsina, che vede che Alexandre avea restate il cavalcare senza i ^' i sproni, disse: Messere, perché sete restato di non cavalcare come /f^ ' f di principio me cavalcasti? e qual cagione ve n'ha rimosso ? Alexandre disse: Donna, io seno principe del mondo et ho a com- battere et affìannarmi in cose d'armi, e convienmi tutte le mie briirate rinfrancare, trovandomi debile parenno pecore et io con loro. Madonna Orsina dice: Come, non eravate voi, quando mi menaste, principe come ora ? e di cavalcare senza sproni non '^J V-i^^^l restavate di e nette, et ora più giorni della settimana me ne h- at» DE FALSITATE MULIERIS 123 fate patire difetto. Alexandre dice: Donna, sempre ho volsuto vivere per consiglio de' savi et pertanto ho trovato che mentre che io mi sono attenuto al consiglio d'Aristotile filosofo e mio maestro, sempre m'è colto bene, e per tanto ora lui m'ha ditto questo modo tegna, e dicoti che se altro o niente vorrai che io faccia, tu serai meco in contumacia. Madonna Orsina tacette e niente disse et pensò quello Aristotile pagare per lo fallo che le parea che avesse commesso, et ordinò che una sua cameriera giovana e bella nomata Viola andasse ad Aristotele in nello studio, ovvero in nella sua camera, la qual era in nel palagio d'Alexandro, comandandogli che a niente consentisse et Aristotile, mandando buone parole, lo facesse entrare in ruzzo, come talora entrano y^ questi vecchi, che quello che non puonno fare si diceno. E così comandò madonna Orsina a Viola maestra de' Gusmini (1) ; disse : v Madonna, lassate fare a me. Pensa ora, lettore [e] voi che udite, quanto senno fu quello d'Aristotile a esser condutto a una ca- ■^^ vestrella, che anco gli sapea la camicia di piscio, come a molte -^ oggi se^ne trovere'! Viola, avuto dalla imperatrice, cioè da ma- donna Orsina, il comandamento di ubbidirla e consentire, entrata Viola in nella camera d'Aristotile con motti d'amore salutandolo, Aristotile maravigliandosi disse che volea dire. Viola disse : Messere, io sono venuta a voi a imprendere alcuno ammaestra- mento mentre che madonna Orsina dorme. Aristotile, lassato lo studio, disse: 0 perchè tu anco non dormi? Viola: Perchè il mio dormire non sere' utile né a me né ad altri. E questo dicea con un vezzoso parlare, quasi ridendo. Aristotile, che vede costei bellissima e sola tanto parlare vezzosa, senza sospetto si cominciò a riscaldare, benché poco caldo avere potea, e perchè era molto di tempo, pur la immaginazione e l'udire A'iola con dolci motti parlare lo facea esser voluntaroso e volsela prendere. Ella, come ^ ammaestrata e maliziosa, veggendolo già preso, disse: 0 Aristo- tile, io so e veggo che voi m'amate et ogni cosa fareste per me et io cosi farei per voi, ma io sono stata tanto a novellare con voi ch'è l'ora che io debbo esser appresso a mia donna venuta, et per avale non posso il vostro et il mio volere adempire, e • però piacciavi stare contento, et in segno di buono amore questo vi posso fare che un bacio voi mi date, e se il tempo il patisse io farei il vostro e '1 mio volere, ma penso che madonna si vorrà (1) Così nel ms. i24 NOVELLE DI GIOVANNI SERCA.MBI levare. Aristotile, che ode, tutto desideroso s'accostò a Viola e subito ode gridare dicendo: "Viola, vieni a madonna. Viola dice: Aristotile, lasciami, e domane serò qui a voi e daremo l'ordine a tutto. Aristotile, accostatosi a Viola, e basciatola, Viola si parte. Aristotile rimane con allegrezza, sperando dare compimento al desiderio. Madonna Orsina, sentito da Viola tutto l'ordine dato, disse a Viola : Viola, farai domane quello ti dico. Tu andrai ad Aristotile e dirai che tu sii contenta che egli abbia a fare con teco, ma digli che tutte quelle del tuo sangue, prima che siano state svergognate, hanno cavalcato dieci passi quello che prima ha a fare con loro, et io farò arai una sella et una briglia e con quella acconcierai Aristotile e darai l'ordine d'esser con lui in nel giardino dirieto alla mia camera, dicendo che quando io sono a dormire venga, e tu allora gli metterai la sella e la briglia et monterai a cavalcioni e così lo fa andare dieci passi. Viola, che ode madonna Orsina, disse: Madonna, io saprò tutto fare, e penso condurlo colle mie parole a fare ciò che io vorrò. Lo giorno seguente madonna Orsina fé' Alexandre richiedere che gli pia- cesse venire alla sua camera .dopo desnare, ch'ella volea alquanto seco parlare. Alexandre, anta l'ambasciata, disse che volentieri andare' non sapendo la cagione. Madonna Orsina, essendo certa che Alexandre dovea a lei venire, disse a Viola che andasse a fornire l'ambasciata con Aristotile. Viola subito andò in camera ad Aristotile e dissegli che al tutto era disposta di fare la sua volontà, ma tanto gli volse dire che se lui avea l'animo di os- servare lo costume del suo lignaggio ella starà contenta che seco usi, altramente non poter ne egli né altri da lei aver effetto. Aristotile disse : Che costume hanno li tuoi ? Disse Viola : Che colui che prima svergogna neuna di noi de' essere prima dieci passi cavalcato e poi ha (i) di noi piacere. Disse Aristotile: Cotesto farò io bene; ma come avremo sella e briglia? Disse Viola : Io prenderò quella che mia madre adoperò la prima volta che coU'omo si congiunse. Aristotile disse : Falla presta. Disse Viola: Io l'ho messa in nel giardino, che oggi quando madonna dormirà , vi voglio dare piacere. Aristotile allegro disse et ordinò ciò che bisognava. Venuta l'ora, Alexandre andò a madonna Orsina et in camera con lei trovossi. Viola andò ad Aristotile dicendo : Ormai è tempo. Aristotile desideroso andò (1) Ms.; DE FALSITATE MULIERIS 125 in nel giardino. Viola, apparecchiala la sella e la briglia e mes- sala ad Aristotile e su salendo, Viola cominciò a fare i passi. Madonna Orsina, che di tutto era ammaestrata, prendendo per la mano Alexandro, gli disse : Io voglio mostrare Aristotile quanto sa consigliare voi che meco non usiate se non a punti .di. stella /^ e lui ogni ora tal mestieri cerca di fare, e per più aver suo agio con Viola in nel giardino si riposa : andiamolo vedere. A- lexandro, che questo ode, andò in sul portico e vide Aristotile esser da Viola cavalcato. Parendonegli male, disse : Aristotile , 'v' è il senno tuo ? Aristotile, che ode la voce d'Alexandro, alzò la testa e vide Alexandro e la donna e disse : Il mio senno è in nel culo di Viola; e subito levatosi per vergogna della terra si partìo e andò in una città dov'era uno signore nomato Gosmal, il quale, come vide Aristotile, subito facendogli riverenzia gli disse : Che buone novelle ? Aristotile disse : Se tu mi vuol pro- mettere di non appalesarmi a persona, io da te non partirò che io t'arò fatto tanto onorare, che sempre ne serai lodato. Cosmal, che disiava aver buono consiglio, sapendo il senno d'Aristotile , subito disse: Maestro, comandate et io ubbidirò. Aristotile disse: Io non ti vo' comandare, ma di buoni esempli ti farò maestro. Gosmal, lieto che Aristotile rimane, con lui secretamente, come Aristotile vuole, lo tiene. E '1 primo comandamento che Aristo- 1 tile insegnò a Gosmal si fu che alla sua donna e famigha si fa- cesse ubbidire, e poi seguitò all'altre cose, le quali qui non sii dicono, ma ben dirò che la femmina di Gosmal per tutto era lodata di buono e giusto reggimento. Madonna Orsina dice ad Alexandro : Ora potete comprendere che è di stare al consiglio di un matto e smemorato, che da una fanciulla s'ha lassato in- gannare. E tutta la novella gli narrò. Alexandro, doloroso della vergogna che Aristotile ricevuto avea, et appresso che lui non sapea dove fusse capitato, e non potendo da neuna parte poter sentire di lui, stimò per dolore si fusse ucciso, et di questo por- tava singularissimo dolore, e cosi dimora. Madonna Orsina , pa- rendogli aver fatto as.sai ad aver svergognato il savio Ari>tolile come matto, stava allegra. Quando vedea Alexandro stare malin- conoso, dicea (i) ella fra se: Ormai non riprenderà Alexandro di quel fatto né anco me, se più ne tenesse ; e per questo modo -tando, madonna Orsina richiedea Alexandro di quel fatto più (1) Ms.: dicendo. 126 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI che Alexandre fare non volea, perocché, non ostante ch'Aristo- tile partito si fusse, nondimeno li suoi ammaestramenti osservava et dicea: Orsina, taci, che io da' consigli d'Aristotile non mi debbo partire. JSIadqnna Orsina, che avea larabbia al culo, pensò "poter il suo appetito in parte contentare, e trovò uno giovano bello, il quale in modo di femmina per sua cameriera tenea, e per »y_^;^^_^_3]iiesto^jnodo si facea batter la lana del tristo montone. Dimo- rando le cose ditte più tempo, venne volontà ad Alexandre d'an- dare in nella città dove Gosmal dimorava, perchè di sua virtù molto avea sentito, e mandògli a dire che lo spettasse un giorno nomato, che lui volea quine essere. Gosmal, avuto la lettera del suo signore, subito ad Aristotile la portò, dicendo che consigliasse di quello che dovea fare intorno all'onore et a l'altre cose di Alexandre. Aristotile, che avea sentito che madonna poco si cu- rava che Alexandre co' lei giacesse et che di nuovo avea prese alcune servigiali, stimò quelle ch'era. E subito, spirato da Dio, disse : 0 Gosmal, sopra tutto dispuoni a fare onore a Alexandre e a' suoi, se tuttociò che hai spender dovessi, però che tutto fia ben speso. Appresso fa che la tua donna e famiglia e tutti di casa senza replicare a uno dire ubbidiscano, e come Alexandre y sera venute, dopo l'onore a lui fatto, e disnato, lui ti domanderà come li omini tuoi si contentane e come ti sono ubbidienti, e tu rispondi prima che altro ti dica : Vi vo' fare la prova se miei sot- toposti a me sono ubbidienti. E farai in sua presenzia la donna, le servigiali, le cameriere e tutti della tua casa subito a uno parlare tutti, presente Alexandre, spogliare nudi, comandando prima alla donna tua e poi a li altri, facendo prima la richiesta di tutti, cesi di donne, come di omini. E molte cose gli disse che non sono di bisogno a tal novella notare. Gosmal, messe tutto in effetto, come Aristotile gli disse , venuto Alexandre presso alla città , Gosmal co' suoi baroni andato incontra, e' con quante onore si ^ può fu ricevuto. E desnato, Alexandre domandò Gosmal come i suoi sudditi gli eran obbedienti. Gosmal disse : Io vel mostrerò ; e subito mandato per la donna e per tutti di casa , avendone la scritta in mano e facendone richiesta , trovò tutti esser quine. Gosmal disse : Donna, e voi altre, nude vi spogliate in presenzia di tutti. La donna subito così fé'. Alexandre, ciò vedendo, disse fra sé: Questo non fare' la mia donna. Appresso Gosmal disse a tutti li omini , che quine erane , che si spegliasseno , e cosi fu fatto, e tanto stenno nudi fino che a Gosmal piacque. Disse Alexandre : Ben è che omai li facci rivestire. Gosmal comandò DE FALSITATE MULIERIS 127 che si rivestissero e fue fatto. Alexandre disse : Deh dimmi , Gosmal, per cui consiglio vivi. Gosmal disse: Per consiglio di Ari- stotile.— Or com' è Aristotile vivo? Gosmal disse: Finora sì, e dove sia io non so , ma ben potrei sapere dove capitò quando qui appario, e allora mi die certo ordine , il quale sempre ho osservato, e prima mi comandò che alla mia famiglia mi faccia ubbidire, e poi a tutti li altri. Alexandre, udendo che Aristotile era vivo, ebbe gran piacere e disse a Gosmal che di lui inve- stigasse, perocché volea che a lui tornasse. Gosmal disse : Lui mi disse che mentre che madonna Orsina con voi stesse che mai innanti non vi verre', tanta fu la vergogna che per lei sofferse; non di meno io penso, quando il richiederete, lui verrà a voi. Alexandre, che ha desiderio di ritornare a casa, dicendo fra sé: Gosmal è un piccolo signore e fassi tanto ubbidire in casa sua et io che sono signore del mondo non serò si tosto ubbidito dalla mia donna e famiglia?, e' pensò subito, come fusse a casa, far fare la richiesta di tutti, e comandare che nudi si spoglino. E prese commiato da Gosmal, avendolo molto accompagnato, e cosi ritornò Alexandre al suo palagio. Come fu giunto, fé' la richiesta di tutti, e venuti, comandate che Orsina si spogli, ella cominciò a dire: Or che vuol dire queste, imperatore? sete impazzato, che volete che alla presenzia delli omini mi spogli? or perchè non mei dite in camera fra voi e me ? Alexandre disse con mal viso: Io ti dico che subito ti spogli. L'imperatrice per paura spogliatasi, Alexandre comandò all'altre donne e damigelle che nude si spogliassero, e per paura ogniuna si spogliò, salvo la cameriera di madonna Orsina. x\lexandro disse: E tu perchè non ti spegli? Ella trovando certa scusa, come alcuna volta trovane le donne, dicendo : Io ho il mio mal delle calende ; Alexandre disse : Spogliati. Ella, costretta dal timore"^ si spogliò, e trovato costui esser maschio, il quale colla imperatrice si giacea, non potendo tale puzza sostenere, lui e la donna fé' morire. Aristo- tile, sentendo la giustizia fatta_della donna malvagia e della ca- meriera, scrisse ad Alexandre chelùi era aT su(rcomàLnHò:~A:ié^ xandro, auto lettere d'Aristotile , subito mandò per lui e più che mai l'amò et onorollo. Et per questo modo il savio Aristotile si vendicò della malvagia Orsina per lo sue sottile intelletto et sapienzia. i"A 128 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI 34. [Triv., no 51]. DE IPOCRITI ET FRAUDATORES. )^^mÀa^ 1 Della città di Jese si partì, sotto nome d'accattare, per la /badia di Vallombrosa uno vestito di panno, scuro e gran parla- I torO;, e diliberò venire in Toscana, 1S~Ù' pensava Irovafe molte I simplicette femmine et massimamente in quello di Firenze, Pi- I stola, Lucca e Pisa. E dopo il prendere fiato in nel contado di / Firenze et a Pistoia , venne in nel contado di Lucca , facendosi nomare frate Ghilandrino. E domandato in che parti si tenea mercato, fugli ditto : In più parti, ma sopra tutto era quello del borgo a Mossano, al quale gran parte della Garfagnana et delle sei miglia colà concorrea. Di che udendo frate Ghilandrino, che al borgo era il mercato, subito andò là, e giunse all'osteria (1) di Giovannetto da Barca , abitante in nel borgo , e quine posò suo arnese. Avea questo Giannetto una donna nomata Narda et una figliuola nomata Ventura. Il qual frate disse a Narda quando sere' il mercato: Narda disse che sere' lo dì seguente. Lo frate disse che facesse che lui e '1 compagno, che seco avea, fusseno ben serviti e paghjgrà: (2) bene. Narda disse : Comandate, che ci ha delle galline e di capponi assai. Lo frate dice: Mentre che ci ha di capponi, non ci dare galline. Narda tutto fa e falli go- dere. Venuta la mesidima, eh' è '1 dì del mercato, notifica il frate che ogni persona vada a udire la sua predica e fa sonare la campana, assecurando che chi a tal predica sea era perdonato colpa e pena. Sonata la campana, le genti circustanti e quelle che venute erano al mercato devotamente stenno a udire la predica. Frate Ghilandrino, che sapea l'arti della birba, dopo il predicare disse, che si facesse bene^àllà badia di Vallombrosa. Ma ben dicea: Se fusse alcuno omo che avesse ucciso alcuno suo compare, non faccia limosina. Et simile, se neuna donna avesse morto 0 compare o comare, non faccia limosina, perchè l'abate non la riterrà. Ditto queste parole, ognuno fé' offerta in quantità, alla quale offerta fu Ventura, figliuola di Narda ostiera, e diegli (1) Ms. : aliaste. (2) Ms.: paghisi. U-^v\l tti DE IPOCRITI ET FRAUDATORES 129 uno tovagliuolo da volto, dicendo che quello mettesse alla faccia di nostra Donna a Vallombrosa, et una sorella della ditta Narda offerse uno tovaglione grande da stufa , dicendo che quello of- feria all'abate, acciò che i preti di quel luogo si possino asciu- gare quando sono lavati per andar a dire l'officio divino. Tornato frate Ghilandrino allo ostello con molti dinari, pannolino e biada et altre cose, disse a Narda: Parti che possiamo godere? Narda, che si vede guadagnare : Voi potete ben spendere, al buon gua- dagno fate. E cosi la raesidima si die buon tempo tutto '1 di. < La sera giunseno, quasi in sulla cena, del mese di maggio, due meretrici belle e giovane, le quali andavano al bagno a Gorsena. E giunte all'albergo di Giovannetto, dove era frate Ghilandrino, volendo bere per caminare al bagno, dove pensavano trovare guadagno, frate Ghilandrino, che avea già fatto apparecch^ai^e di buoni capponi per cenare, vedendo quelle fanciulle, disse loro se la sera volessero quine riposare, che volentieri le ricevere' per la loro bellezza a cena et anco ad albergo. Goloro disseno: Noi stiamo. E restate , frate Ghilandrino affretta che la cena fusse apparecchiata, e parecchia la cena, cenarono, e poi lo be- , nedetto fratfì„dcordandosi di San Gregorio, che tra du'giacea, ' -^ disse a Narda: Io, come spirituale persona, vo' stasera che co- storo meco in nel letto dormano per du' rispetti, l'uno fia per- ch'è limosina d'albergare il povero , e costoro son povere che non hanno casa ; l'altro, per carità, ch'è bene se io potessi con- i vertirle a uscire di questa miseria. Narda disse: Ben fate, ma . credo che poco vi ubbidiranno. Lo frate disse: Io farò quanto potrò, poi facciano quello vogliono. Et menolle in camera. E lui entrato in nel letto, nel mezzo si puose, avendone due d'intorno. Narda ostessa, che ha veduto il frate cqu quanta ca- I rità__ha coloro ricevute et udito per che ragione l'ha seco in / nel letto messe, parendogli meraviglia, disse : Per certo io saprò / lo pensieri di costui. E perchè il suo letto era solo d'una taula ^ l' diviso dal suo, stando in ascolto, udiva tutto, e come posta ^ fu / a udire, disse il frate a quella più di tempo : Io vo' sapere come hai imparato l'arte, che meni tanto tempo ? Quanto in nel luogo comune se' stata? Ella disse: Provate, frate, e vedrete se io hòè perduto il tempo mio. Frate Ghilandrino montò a bestia e di buona soma la caricò, perch'era grasso. E deposta (1) la soma, c^/yp^ (1) Ms.: disposto, bo'^ Bbhibb, Novelle di 0. Sercamhi ^ 130 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI disse: Per cerio tu hai bene speso il tempo tuo, perocché ben sai l'arte che jiù di cento tue pari che provate ho. E voltosi alla più giovana, disse: A te non si richiede saper tanto quanto a questa ch'è più di tempo di te. Lei rispuose: Frate, alcuna volta le giovane sanno di questo fatto meglio che le vecchie. Frate Ghilandrino disse : Ben vo' provare. E salitogli in sul corpo et la bestia menando, talora con mano e talora con pie, giunse al suo disiato luogo. Lo frate disse: Io per me non saprei di- scernere qual di voi fusse meglio ammaestrata. Lo frate disse : Di vero ciascuna è buona e perfetta. Ornai andiamo a dormire, e prima che di qui ci partiamo determineremo un'altra volta la ^ quistione. Narda, che udiva talora M)avigliando, udendo e sen- tendo quello che '1 frate con quelle du' faceano, sentendo dover dormire, a dormire si puose, disposta di tutto sentire. E passato il tempo del dormire, frate Ghilandrino, vedendo già il lume ^ chiaro, di nuovo le ripasceo della vivanda mal cotta, e levatosi Narda e tutto sentito , volse vedere che modo tenea il frate a mandarle via. Et udillo (1) dire alla prima : Io sento che andate al bagno, io voglio che abbi questo bello tovagliuolo, il quale V. una giovana mi die , acciò che quando ti lavassi la faccia , tu e tua compagna, per parere più bella al bagno, vi possiate asciugare. Et a te do questo tovaglione, che quando arete ser- vito altri come avete servito me , per stare nette entrerete in nel bagno, et con questo tovaglione v'asciugherete quel dolce fiore che tra le coscie portate. Narda, che tutto ode, disse fra sé: Costui é frate da comunicare vacche, e pensò alla figliuola et alla sorella dire quello che fatto avea de' tovagliuoli dati. E simile pensò al frate dire alquante parole di vergogna. Le gio- vanette partite , lo frate rimaso , Narda subito la mattina alla figliuola et alla sorella disse a chi il frate avea dati i tovagliuoli, et loro confuse. Narda tornata a casa , è già l'ora de desnare. Desnando insieme lo marito e '1 frate et ella , disse Narda : 0 frate, prima che io vi dessi dinari né cosa del mondo, conside- rato quello che io so di voi, io mi lasserei innanti ardere. Lo frate disse: Odi Narda, et io metterò teco una buona cena di du' capponi , che se verrai a udire la mia predica, che tu mi darai limosina, e se non me la dai, io vo' pagare du' cene. Narda disse: Io sono contenta, ma io ti dico che non vo' esser sforzata. (1) Ma.: udendo. DE IPOCRITI ET FRAUDATORES 131 Lo frate dice: Io sono contento, ma tu mi prometterai di non partire in fine a tanto che io arò tutta la mia predica ditta. E cosi ciascuno promise , e Giovannetto fu pagatore della moglie e del frate, dando l'ordine che domenica mattina se ne faccia la prova. Venuta la domenica, sonata la cam- pana per la predica, le genti venute tante , che tutto '1 mer- cato copriano, lo frate predica, et ultimamente, venendo alla li- mosina , disse che [li] omini stessero disseparati dalle donne, e così fu. E messo uno tappeto in terra, disse: A chi vuol fare limosina alla badia di Vallombrosa si dica quello che altre volte si disse. E più dico , che qualunca donna avesse fatto fallo al suo marito, che non dia limosina, però che 1 santo abate non l'accettere'. Le donne, come sentinno tal parola, chi non avea dinari si levava la benda di capo et in sul tappeto la gittava. Narda , che vede a furia le femmine dare offerte , dice fra se medesima: Se io offerisco (1) perdo la cena. E diliberato pure l'offerire, se misse mano alla borsa e trassene uno denaro e quasi fu la deretana et offerse. Lo frate disse : Tu l'hai, raccolto la roba. E tornata a l'ostello, Narda disse: Per certo omai vi cognosco; questa cena sera omai la migliore che mai io facesse. E da quell'ora innanti mai a sì fatti frati Narda non die, né con- sigliò che altri desse, ma il contrario sempre fé'. (1) Ms. : non offerisco, ma è un errore. 132 V NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI 1 ^ ^. 35. [Triv., no 54]. DE FALSITATE ET TRADIMENTO. Nel tempo del giudice di Arborea, chiamato Sismondo, fu un- giovano assai gagliardo nomato Gottifredi , il quale davasi (1) vantÒ^ poter colla sua forza prendere lo castello di Castri, posto in sull'isola di Sardigna, il qual castello Sismondo giudice avea molto tempo bramato , e tal castello era di un gentilomo no- mato Passamente , omo di gran cuore e di tempo di sessanta anni. Avea questo Passamente una figliuola di anni sedici, ^ella^ _di^suo corpo e savia donzella, che mai marito non avea avuto, la quale il padre amava tanto,~che più che sé l'amava et a persona del mondo non are' afHdato la guardia del castello che a questa sua figliuola, la qual per vezzi che a lei portava gli puose nome Zuccarina, e questa era quella che tutta la signoria del castello e di Passamente in nelle mani avea. Sismondo, udendo il vanto che Gottifredi s'avea dato d'aver il castello, per infiam- marlo a dare compimento alla cosa , disse : 0 Gottifredi , io ti proffero che se fai per tua forza e ingegno che '1 castello di Castri metti in mia possanza, io ti darò la mia figliuola Bianca per moglie e faretti conte. Gottifredi, ciò udendo, disse : Io lo farò per certo, e chiesto seco alquanti famigli secreti, si parlio d'Arborea , e camino in forma d'ambasciadore verso il castello di Castri, et quando quine giunto fue, fé' dimandare di Passa- mente che gli piacesse di volerlo udire. Passamonte, che niente facea senza Zuccarina sua figliuola, la fa richiedere, dicendole: Uno ambasciadore del giudice d'Arborea vuole venire a me et non so la ragione. Fors'e' potre' esser che il giudice, che ha uno figliuolo molto bello, se volesse te prender per moglie, o vera- mente sento che ha una bella figliuola , se tale volesse dare al tuo frate, mio figliuolo, posto che '1 mio figliuolo non sia cosi savio come si converrebbe. Zuccarina, che ode il padre, jisse a colui che arrecò l'ambasciata, se quello Gottifredi è gentile omo e di che statura e come è savio. Lo 'mbasciadore dice Gottifredi (1) Ms. : dandosi. DE FALSITATE ET TRADIMENTO 133 essere giovano bellissimo , gentile e gagliardo e di gran cuore, e ricco più ^e ninno che il giudice Sismondo abbia. Zuccarina, che ode raccontare la giovinezza, bellezza e fortezza, disse: Se queste tre cose regnano in uno omo, qual donna l'ara si potrà tenere bene appagata, non stante che in costui sono oltra l'altre virtudi, possiede senno, gentilezza e ricchezza, di che per certo se qua viene e io vegga in lui quel sento di lui, là mia persona altri non godrà che lui. E risposto al padre, disse: Dategli il sal- vacondutto e vegna con quanti vuole. Lo padre subito lo die, e al famiglio disse, che andasse che lui volentieri l'udire' e tutta sua imbasciata. Partitosi lo 'mbasciadore col salvacondutto, re- ferìo tutte le parole e domande che Zuccarina gh avea ditte. Gotti fredi ode e intende, comprese per certo costei desidera ve- dermi, et io voglio tosto apparecchiarmi a andare. E concio suoi arnesi e vestimenti per poter onorevilmente comparire, a cavallo montò e verso il castello di Castri cavalca. Zuccarina , partito lo 'mbasciadore, andò in su una alta casa e di quine tutto potea vedere. Vedendo venire genti verso il castello, stimò fusse Gotti- fredi , et subito partitasi del luogo et in una camera entrata e fattasi bella per poter a Gottifredi piacere, non curando altro, fu vestita e in sala al padre venuta. 11 padre, vedendola sì ben vestita, disse: Or che vuole dire questo? Zuccarina disse: Poiché questo imbasciadore venire de', vegna per che cagione si vuole, o per me o per altri, io vo' parere figliuola di gran signore come voi siete. Passamente disse : Figliuola, ora più che mai cognosco tu esser savia et innanti al fatto provveduta. E mentre che tali parole diceano , venne Gottifredi e rapresentossi dinanti a Pas- samente, presente la figliuola, facendo bella accoglienza e savia imbasciata , contenente che '1 giudice d'Arborea sere' volentieri con lui in buona concordia e che de' modi da esser amici e pa- renti assai ce n'ha, sì per rispetto di vostra figliuola al figliuolo del giudice Sismando, sì per vostro figliuolo alla figliuola. Pas- «araonte, ciò udendo, d'allegrezza lagrimando disse a Zuccarina che la risposta facesse a Gottifredi. Zuccarina disse: Padre, las- sate questo fatto a me, e prese Gottifredi per la mano et in una camera lo menò, e quine soli, Zuccarina disse : Gottifredi, io ho sentito di tua gentilezza, fortezza e ricchezza, et queste cose non posso al presente sapere, ma la tua appariscenza me ne fa quasi esser certa. Ma della gioventù e bellezza, che di te ho udito,, senz'altra prova ne sono chiara, che così è come io ho sentito. E queste due cose mi danno a credere l'altre. E pertanto, prima / 134 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI che ad altre parole vegliamo , ti prego mi dichi qual cagione- t'ha in queste parti condutto, e questo non mei celare, sia che si vuole , perocché prima che qui venissi io ti fui in nel cuore fitta, disponendo me a ubbidire tutto ciò che a me comandassi, se chiedessi la persona e tutto ciò che mio padre possiede in questa terra, di tutto fare' la tua volontà. Gottifredi , che ode Zuccarina tanto sodo parlare e con tanto amore, diliberò appa- lesare il perchè era venuto e disse tutto ciò che lui s'era van- tato, dicendo: Io mi vantai dare questo castello a Sismondo giu- dice d'Arborea. Zuccarina, che ciò ode, disse : 0 Gottifredi, se io di ciò ti facesse contento, vuommi tu prendere per donna e mai non abbandonarmi? E ti darò il castello con tutto ciò che mio padre possiede , e di lui e della terra farai tua volontà. Gotti- fredi disse di si , e cosi glielo promisse e giurò d'osservare , e per più certezza della cosa Zuccarina avendosi fatta sposare et uno anello d'oro da lui ricevuto, ella a lui ne diede allora uno di carne con molti baci. Gottifredi, che gli parèa~aver avuto il "^0 contentamento, allegro disse: 0 Zuccarina, omai possiamo parlare a sicurtà. Zuccarina dice che disponga quello vuole che ella faccia et ella tutto farà. Gottifredi dice che la terra gli dia, cioè l'entrata, e lui manderà per genti di Sismondo giudice, che per essa vegnano sotto specie che lo figliolo di Sismondo ti debba prender per moglie, e lui et io verremo, et aperte le porte en- treremo dentro, e tu con meco ne verrai e la terra rimarrà a Sismondo giudice, e noi queste e dell'altre aremo assai. Zucca- \»'^^ j _ rina, che la rabbia in del culo l'avea già fatta jsmemorare,_che Ifion^ognòscea la sua disfazione , die^T'ordine come Gottifredi gli avea ditto, e "usciti di camino n'andarono a Passamente [dicendo] che ella era contenta d'esser maritata al figliuolo di Sismondo giudice, nomato Dragonetto. Passamente lieto, faceiido^ doni _a Gottifredi e licenziatOj si partio, e tornò, a Sismondo giu- dice, dicendogli tutto il trattato fatto," ma che non avea potuto adimpire il fatto senza aver promesso prendere Zuccarina per moglie , dicendo : Voi sapete che a me la vostra figliuola pro- messa avete. Io non vorrei, per questa promissione fatta a Zuc- carina, perdere la vostra. Sismondo dice: Come farai che du' avere non puoi? Gottifredi disse: Come aremo auto il castello et io condutto Zuccarina fuori, in mare l'annegherò. Sismondo, che avea volontà del castello, disse che a lui piaceva. Gottifredi disse: E' conviene che voi date nome che vostro figliuolo Dra- gonetto vada per prendere Zuccarina, et apparecchiate le bri- DE FALSITATE ET TRADIMENTO 135 gate et io con loro, e '1 castello di notte ci sarà dato. Sismondo dice che bene avea ordinato. Et ditto a Dragonetto come gli avea dato per moglie Zuccarina, figliuola di Passamonte del castello di Castri, e che volea andasse con Gottifredi a menarla, Drago- netto dice ch'era contento, e fatto armare le brigate, Dragonetto e Gottifredi messi e caminati presso il castello, Zuccarina aperto di notte le porte e le brigate messe in punto, entrati preseno la terra. E morto Passamonte e Gottifredi menatone Zuccarina e al mare condutta, quine, presenti alquanti baroni di Dragonetto, in nel mare la sommerse , e così Zuccarina morìo. Dragonetto, che non trova in nel castello Zuccarina , domandando di lei , fugli ditto Gottifredi averla di fuori condutta et in nel mare af- fogata. Sentendo questo, Dragonetto disse: Or sono io così stato tradito? per certo io la vendicherò. E chiamato lo figliuolo di Passamonte, alquanto stolto, disse se volesse vendicare la morte del padre et quella della sorella e delli altri suoi parenti morti. Disse lo figliuolo di Passamonte: Io non mi vorrei vendicare se non di chi n'ha colpa. Dragonetto, che ciò ha inteso, disse: Per certo costui dice bene, e pensò farlo contento. E come Gottifredi fu ritornato, con allegrezza andò a Dragonetto dicendogli: Ornai il tuo padre si può dire signore di tal fortezza , e questo può riputare da me. Dragonetto disse: Al mio padre e a me (1) piace bene che la terra è nostra , ma veramente tanti tradimenti quanti hai fatti non mi piacciono; dicendogli il primo tradimento fatto a Passamonte , lo secondo a Zuccarina, e '1 terzo a me, che dovea aver per moglie Zuccarina, e tu con falsi modi l'hai uccisa. E chiamò il figliuolo matto di Passamonte, et volse che in sua presenzia Gottifredi fusse morto , e per questo modo fu pagato della promessa fatta a Zuccarina, che a lui avendo fatto tanto onore che la terra del padre e sé gli diede , così cattiva- mente la tradisse et in mare la affogasse. E se Dragonetto lui fé' morire, l'avea ben meritato. (1) Ms. : e come. 136 NOVELLE DI GIOVANNI SERCA-MBI 36. [Triy., no 56]. DE NATURA. FEMMINILI. Nella città di Pisa fu uno nomato Ranieri di San Gasciano, giovano e ricco, il quale talora la volontà gli montava più che _1 ^enno, non avendo moglie. E da parenti slimolato di prenderne, diceìr: Chi mi volete dare? Loro rispondeano : Quella che vuoi, che abile sia a noi poterla avere et sea (1) pulcella. Dice Ra- nieri : Poiché siete contenti, io ne prenderò; ma ben vi dico, che se io la trovarò che non sia pulcella, io non la ripiglierò, come alla sua casa ne l'arò mandata. Li parenti, che odono Ranieri, dicono: Egli farà come fanno li altri; troviamo modo che una n'abbia. E datisi a sentire, Irovonno una bella fanciulla nomata ./. L- vv.» Brida , figliuola di Jani delli Orlandi , rimasa al governo della ■ ^ madre , perchè -Tani suo padre era morto, giovana bellissima e '^ ben nodrita. Et messala dinanti a Ranieri, fu contento, e dato l'ordine delle nozze e menatala e fatta la festa onorevilmente , sendo giunta la sera, essendo in nel letto, Ranieri, come giovano, salendole in sul corpo, foce (2) le fazioni sponsalizie. Brida, ch'è ; sotto a Ranieri, senza pungolo il culo alzando, in tanto che Ra- nieri giù della soma cadde, e caduto disse fra sé: Costei non é pulcella, poiché '1 culo ha alzato sì bene, che non l'are' mai cre- duto. Et senza dir altro la notte si riposò. Et l'altra sera simil- mente facendo, Ranieri disse : Per certo quando Brida ritornerà a me, non posso permettere (3) che a me mai s'accosti. E per questo modo ogni sera che Brida seco era, Ranieri facendo quel fatto. Brida menava il sedere. Venuto il giorno di ritornare et poi il giorno che sogliono le spose rivenire al marito , Ranieri mandò a dire a Brida et alla madre, che [se] Brida verrà (4) che lui l'ucciderà , e che mai non vuole che a casa gli torni. La madre et i parenti di Brida, non sapendo la cagione, missenp messi a sapere il perché non rivolea la moglie, avendo prima (1) Ms.: sera. (2) Ms.: facendo. (3) Ms.: nuocere evidentemente corrotto. (4) Ms.: che brida viveva. DE NATURA FEMMINILI 137 voluto sapere da Brida quello che volea dire. Brida, che di tal cosa niente sapea , di nascosto stava (1) dolorosa. Le mezzane , che a Ranieri andonno, volendo sapere da lui il perchè non ri- volea la moglie, Ranieri disse: Perchè a me fu promessa ver- gine, et io trovo che ella è più maestra di quel fatto che una meretrice, et più mena il culo che loro. E pertanto mai non la ripiglierò. Le donne, ch'erano parenti di lui e di Brida, malin- conose si tornare alla madre della sposa , narrandole tutto. La madre, che sapea che la figliuola era (2) perfetta, dicea: Lassa trista me! costui mai non se la vorrà perchè nel capo l'è ca- puto. Le donne dissero: Andiamo a madonna Bambacaia, che a questo fatto ci darà consiglio. Et anco la madre disse: Andiamo. Et mosse andarono a madonna Bambacaia e tutto narronno. Ma- donna Bambacaia, che hae inteso il fatto, domandato del nome del marito , disse alle donne che s'andassero con Dio , e subito procacciò d'avere uno anatrino piccolo et quello fé' puonere sotto una canestra in sala. E poi mandò per Ranieri da San Ga- sciano, e venuto lo fé' puonere a sedere appresso di sé, et con una mazzuola percotea l'acqua, et fé' alzare la canestra dov'era l'anatra. Come l'anatra sentìo muovere l'acqua, subito piediconi si gitta in quel bacino. Rivoltasi madonna Bambacaia a Ranieri, disse: Che vuol dire che quest'anatra cosi piccola, senza che altri la conducesse, ha trovato quest'acqua e dentro vi s'è gittata? Ranieri rispuose e disse : La natura dell'anatra è , come sente l'acqua, non avendone mai veduta, subito vi si gitta dentro. Al- lora madonna Bambacaia, voltasi a Ranieri, disse : Cosi come per natura l'anatra , eh' è uno uccello senza intelletto , si gitta in nell'acqua , non avendone mai veduta , cosi la femmina , non avendo mai assaggiato omo , come l'assaggia et abbia l'altrui nelle sue carni , per natura mena il culo. Ranieri , udita la ragione , disse ridendo : 0 madonna Bambacaia , perchè avete ditto questo? Madonna Bambacaia disse: Perchè sento che non vuoi ripigliare la donna tua perchè, quando ebbe a fare teco, il culo menò. E però ti dico, va sicuramente e prendila, che tu l'avesti vergine et buona , non voler tu esser cagione che cattiva divegna. Ranieri , vergognoso , riprese Brida , et dappoi si dienno piacere senza quel sospetto. (1) Ms.: stando. (2) Ms: esser. I 138 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI 37. [TriT., no 59]. DE DISONESTO ADULTERIO ET BONO CONSILIO. Nella città di Siena fu uno omo del popolo, il quale de sue rendite vivea senza far arte, nomato Giorgio Acciai, ed aveva una sua figliuola nomata Nicolosa, maritata a uno mercadante ricco nomato Sandro, et una figliuola piccola d'anni dodici, chia- mata per vezzi la Pippa. Avvenne che ditto Giorgio passò di questa vita, lassando alcun piccolo figliuolo maschio e le figliuole nomate. E tutta la cura del maschio e della femmina lassò a Sandro suo genero et a Nicolosa sua donna. Essendo morto Giorgio padre di Nicolosa, Sandro e Nicolosa sua moglie si reconno in casa lo figliuolo maschio piccolo e la Pippa. E dimorando ma- donna Nicolosa dopo l'anno della morte del padre in casa, avendo studiata la Pippa a^farla bella, come le senese sanno fare, e tanto _che parea uno sole, avendo già tredici anni, madonna Nicolosa traendola di casa, alla chiesa uno giorno di solennità condus- sela (1) tanto adorna, che uno giovano ricco mercadante nomato Gione vedendola [chiese] di chi fusse figliuola, et gli fu ditto chi ell'era. Gione, che l'ha veduta, piacendogli et avendo sentito chi fu il padre e con cui dimorava, essendone già innamorato, pensò torla per moglie dicendo: Io sono ricco e di buone genti et ella non ha molto, posto che sia ben nata, nondimeno se io la chieggio, io l'arò. Sandro e la moglie, che miglior parentado in Siena non arenno potuto fare, senza indugio dissero di si. Et messogli l'anello, Clone disse : Io hoe mandato mie mercanzie di veli et anco numero quattro balle [sto] per mandare; poiché ho preso moglie io mi vo' dilivrare. E pertanto non v'incresca dire (2) a Sandro et a madonna Nicolosa perch'io sia almeno uno anno a dilivrarmi, e poi serò libero di poter in Siena fermo stare. Sandro e la moglie dissero che ben dicea et che alla tornata la Pippa sarà alquanto più indurata, che avale è mollo tenerella. Clone, udendo il motto, disse: Voi dite vero, e dato ordine di (1) Ms. : condultola. (2) Ms.: dar. DE DISONESTO ADULTERIO ET BONO CONSILIO 139 caminare, colle sue balle si mosse da Siena et andò oltra monti. Rimane la Pippa al governo di Sandro e della moglie. Madonna Nicolosa avea tanto piacere di veder maritata la sorella a ta' mercadante e piacere avea vederla tanto bella, che poche volte si sarenno vedute spartite, e stando in tal maniera la Pippa, ogni dì le [sue] bellezze multiplicavano. In tanto che uno giorno, essendo madonna Nicolosa andata alla predica e lassata la Pippa in casa colla chiave rinchiusa, venne Sandro a casa, et avendo una chiave, non pensando persona fusse in casa, apre l'uscio, et andato su in nella camera trovò la Pippa, che si specchiava et era in una giubba di seta sottile. Sandro, jche prima vede lei /\ ch'ella lui, stando a guardare Pippa, di cerlo~parendogli una pèrrélTà7'aisse ridendo: Pippa, che fai? Pippa disse: Io mi guardo e me stessa vagheggio. E voltasi a Sandro, Sandro accostandosi aììo'specchio et abbracciata la Pippa et in nello specchio miran- dola, Sandro, non guardando costei essere sua cugnata, la co- minciò a basciare dicendo: 0 Pippa, non ti paiono buone le cose dolci? Pippa disse: Messer si. Sandro dice: Io te ne vo' dare. Pippa sta cheta. Sandro cominciò abbracciarla et basciolla in bocca dicendole: Pippa, questi baci sono cominciamento della dolcezza. Pippa, col viso rosato et tutta lustrante, niente dicea, ma di fiamme tutja— osBlende nel viso. Sandro, che già era ac- / cecato, prese la Pippa et in sullè^to la puose facendole sentire / quella dolcezza che prima gli avea preditta. La Pippa disse: Oh | quanto è perfetto l'usare con l'omo! Sandro disse: Pippa, sta i contenta, e niente dirai a Nicolosa. Pippa, che gli è paruto buono, \ disse : Io non dirò niente. E poi che cominciato ebbero, seguirò, 1 in tanto che pochi mesi passarono che Pippa si sentio gravida, / per la qual cosa molto dubitava, dicendo a Sandro che lei gra- vida si sentia. Sandro, che ciò ode, tenendosi morto, non sapea che dire. E venutogli lo spirito, disse : 0 Pippa, tieni celato questo fatto, io farò che tu ti sperderai, lassa fare a me. E su- bito se n'andò a uno speciale suo compare dicendogli il fallo x/" commesso, e com'era seguito, che gli piacesse di dargli cosa che ella si sperdesse. Lo speciale disse: Compare, cotesto non farei per la vita; ma io lo dirò al mio zio medico, maestro Alessio, che ci darà qualche buon riparo senza che la creatura si sperda. Sandro disse: Io ve ne prego, compare, perocché io sereiil più vituperato omo di Siena. Lo speciale, per servire il compare, disse a maestro Alessio tutto ciò che Sandro gli avea ditto. Lo maestro disse : Noi camperemo la creatura et terremo modo di 140 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI tener la cosa celata per modo che mai non sia palesata. Et subito mandato per Sandro che a lui venisse, Sandro venuto, lo maestro disse se la giovana fare' quello che lui dicesse. Sandro disse di sì. Allora lo maestro gli die certe polveri dicendo che di quelle faces^se alcuno fumo alla faccia della fanciulla per modo che altri non se ne avvegga. E dappoi manda per me et io farò si che ne rimarra' con onore. Sandro prese le cose et subito andossene a casa, e dato a Pippa quello che '1 maestro gli avea dato, Pippa come cavestro (1) lo suffumigio alla faccia si fece, e come l'ebbe fatto', guardandosi in nello specchio, si vide tutta gialla diventata. Di subito mettendo a malizia uno strido e git- tatasi in su uno lettuccio, dove Nicolosa sua sorella trasse allo strido, e vede Pippa in sul lettuccio giacere cosi gialla. Gridando disse: Or che è questo? E subito mandato per Sandro che a casa venisse, Sandro, che attento stava, a casa n'andò, e doman- dato la cagione perchè l'avea in tanta fretta richiesto, la donna "disse: Or non vedi come la Pippa è diventata, che quasi tra le braccia m'è morta ? Va tosto per uno medico. Sandro dice : 0 Pippa, confortati, che chi l'ha fatto venire cotesto male te ne farà guarire, e però non aver paura. La Pippa infingendosi disse: Per Dio andate tosto, che io mi penso morire prima che siate tornato. Madonna Nicolosa dice al marito che tosto vada. Sandro subito menò il maestro. E venuto disse: 'V'è la fanciulla? Sandro lo menò in camera. Quine ritrova la Pippa in collo alla sorella. E tastandogli il polso, poi guardandola in nella faccia, fra sé medesimo disse: Ben ha 'doprato la medicina. Et uscito di ca- mera, chiamò madonna Nicolosa dicendogli la Pippa avere una infermità la quale si chiama irapregnatio molle, e tutto dice alla sorella, che quella infermità è assai di perìcolo, perocché di con- tinuo gli ingrosserà tutte le membra et massimamente il corpo, ma penso colle buone medicine, se la natura di Pippa potrà so- stenere a prendere il cibo e le medicine che io gli farò fafo, poterla campare; benché faticosa cosa sera a camparla, nondi- meno provare si vuole. La donna dice : Deh, maestro, non las- sate per dinari. Lo maestro si partio dicendo d'ordinare lutto cose, et cosi alla bottega con Sandro n'andò. E di quine fé' por- (1) Cos'i il nis. Vale capestro! In questo caso si intenderebbe, adattandosi il suffumigio alla sola faccia, a modo di capestro; ma è pur sempre assai sforzato. DE DISONESTO ADULTERIO ET BONO CONSILIO 141 tare alcuno giulebbe cordiale per conforto et alquanto confetto, dicendo che di queFli di di e di notte usasse, con buoni capponi e galline et alcuna volta un poco di castrone. Sandro tutto dice alla donna et ogni dì almeno una volta il" medico venia per di- mostrare alla moglie di Sandro il bianco per lo nero. Et per questo modo dimorò la Pippa fin^ al settimo mese, non lassando Sandro e la Pippa, quando madonna Nicolosa non era in casa, la faccenda impregnare, ma quanto poteano l'arti usavano. E sempre^ suffumìgio la Pippa facea. Venuta a entrare in nel settimo mese, disse Sandro: Maestro, la Pippa ha tanto grosso il corpo, che mi pare alcuna volta che sul corpo gli monto la creatura voler di fuori uscire, et pertanto io dubito che non fusse di quelle che ai sette mesi parturisse, e i>erò trovate modo ad altro fatto. Lo maestro dice : Io voglio venire, e vedrai se io arò buona medicina per questo fatto. E mosso et andato a casa di Sandro, là trovò la Pippa col corpo grosso e Io volto giallo, fingendose la Pippa stare grave. Madonna Nicolosa sua sorella dice: 0 maestro, io sono stanca ad aver tanto tempo governata Pippa, che non posso più. E però vorrei, se ella de' morire, che tosto si spacciasse, et se altre medicine ci sono a farla sana, l'adopriate. Lo maestro, cognoscendo che la malattia di Pippa increscea alla sorella, tirando da parte Sandro, dicendo alla donna che un poco stesse, da parte tirato Sandro, e' accostarsi a una parete de taula per parlare di secreto. Madonna Nicolosa si misse dietro per udire quello che '1 maestro dir volea a Sandro suo marito. E cominciò maestro Alessio a dire: 0 Sandro, io cognosco che la malattia di Pippa è incurabile, e per certo penso non poterne aver onore, e poiché io oggi l'ho veduta, me ne pare esser certo che il male che ella hae è un male che, non credendo, s'appicchi altrui addosso. E pertanto ora ti dico che qui non vo' venire ogni di com'ho fatto, et a te dico, se hai cara la tua persona, non te gli accosti, se vuoi vivere sano et senza difetto. E perchè dèi amare la donna tua sopra tutte le cose, sare' bene che ella ancora non vi s'accostasse, perocché alle donne tal male più tosto s'appicca che alli omini. Ma se avessi alcuno luogo di fuori, in nel qual fusse persona che tu fidare te ne potessi, io direi che tu la Pippa quine mandassi et aresti fuggito il pericolo tuo e quello della tua donna, che la dèi più amare che te. Sandro, che s'è accorto che '1 maestro s'è avveduto che madonna Nicolosa s'è posta in luogo che tutto ode, fingendosi rispuose e disse: Maestro, io cognosco che voi dite vero che '1 male della Pippa 142 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI l ì I ^X ^^1 è molto appiccicaticcio e da pochi (1) dì in qua mi pare esser tutto contraffatto. Et anco ho veduto la mia dolce Nicolosa tutta smarrita per la malattia di Pippa, ma io vi dico che io per me a lei non m'accosterò punto e spero che Nicolosa non la vorrà abbandonare. Et per questo dubito ch'ella non prenda lesione in nella persona come la Pippa e non so che fare. Disse il medico: / Io sento che hai una possessione assai presso. [Rispuose Sandro: ,' Sì, ed ho (2) una mia zia, la quale è tanto amica a Nicolosa, / che non credo che Nicolosa volesse che la Pippa fusse al suo i governo, et altra non ho. Disse il medico: Tu de' più amare la ; donna che la zia, che il Vangelo dice : Erite duo in una carne, \ e' sera una moglie et uno marito in una^càf ne. È p"érfànto vogli " più che la zia pata afflizione che la donna. Sandro rispuose : Or se la donna vi vorrà andare e non voglia che altri vi vada, che farò? Lo medico dice: [Tu troverai] tosto (3) chi ti darà una giovanotta con molti fiorini, et se tua donna s'eleggerà il male e non sia tua colpa, non serai riputato se non buono: e già fu trovata la Vezzosa di Tolomei^^lajquale è delle belle giovane di Siena. E come queste~paròie ebbene ditte, partendosi dal luogo, la donna tinta in nelle ciglia, quasi si volesse combattere, spettò il maestro e '1 marito dicendo: 0 maestro, io vo' saper quello che della Pippa de' essere et non vo' aver più caro altri che me ; ditemelo tosto. Lo maestro dice : Andiamo fuori di camera e tutto vi conterò. Madonna Nicolosa disse: Io vo' che qui mi dichiate tutto. Lo medico disse, e Nicolosa (4) sentendo di paura more. ^ La Pippa disse: 0 maestro, io sarei piuttosto contenta di crepare che lalnia cara sorella avesse male a l'unghia del piede. Lo maestro disse che ben sarebbe che la Pippa andasse fuori. E non \/ lassando, Nicolosa, livrata l'ultima parola al maestro, disse: 0 Sandro, io ti dico che tu mandi la Pippa in villa, e mandavi tua "^ zia, che ogni poco che n'è arrecato e tu dici : Porta questo a mia zia. E però, come le mandi il bene, mandagli ora la Pippa a ser- vire. Sandro, che hae quello vuole, dice: Tu sai che io non vorrei che tu l'abbandonassi per lo poco tempo che ara a vivere, (1) Ms.: e ditemi che da pochi. (2) Ms. : assai presso a una mia zia la quale. Certamente vi fu saltata una riga, cui mi sembra di aver sopperito seguendo il senso. La zia, come si vede dopo, era zia di Sandro e non del medico. (3) Qui non intendo il ms., che dice : che arai tosto alle palli chi ti darà. (4) Ms.: pippa, ma è erroneo. DE DISONESTO ADULTERIO ET BONO CONSILIO 143 «om'hai fatto fine a qui. E Nicolosa : Ora veggo che poco m'ami, che vorresti che morissi, et poi prenderesti Vezzosa de' Toloraei, cane che tu se'! Per certo io non v'andrò mai. Sandro dice: Io farò ciò che vorrai. E subito andatosene alla zia e tutto narrato, alla villa menò (1) la Pippa e la zia, andandovi alcuna volta Sandro per contentare se et altri. E poco stando Pippa in villa, che Clone suo marito tornò in Siena, e domandato della Pippa sua moglie, fugli ditto tutto e narrato. Clone, ch'è desideroso di vederla, disse che in villa volea andare. Sandro disse: Egli è bene che il maestro ci sia. E menatovi maestro Alessio, montati a cavallo et avendo prima fatto asentire alla Pippa, Pippa maestra, fattosi il suffumigio, più gialla che mai [era] divenuta e grossa più di otto mesi, che parea a vedere una idropica. Giunto Giono, il maestro e Sandro alla villa, et andati al letto dove la Pippa giacea, et accesi i lumi, vedendola Cione cosi con- traffatta, non s'accostò molto, perchè il maestro gliel'aveva vie- tato. Et usciti presto di camera, Cione disse al maestro: Questa infermità è curabile o no ? Lo maestro disse : Costei è a caso di morte; mostrandogli lo capitolo del male, ultimamente conchiuse lei essere a mal partito, ma che adoprerà quello che debbia essere sua salute. E per questo modo si partirono et in Siena tornare. Avendo prima lo maestro e Sandro ditto alla zia di Sandro che quando la Pippa parturisse facesse che uno bacino si tro- vasse pieno di materia gialla, la zia di Sandro disse : Lassate fare a me. Et avendo Cione sentito il pericolo d'accostarsi alla Pippa, più non ebbe volontà d'andare in villa, soUicitando il maestro di buona cura, e per questo modo passò il tempo. E venuto il fine del nono [mese], la Pippa parturio uno fanciullo, il quale secretamente ad allevare si diede. E fatto noto a Sandro era in sulla morte (2) et a Cione et al medico, il maestro [disse] a Sandro, madonna Nicolosa e Cione che la malattia della Pippa era impregnatio molle. Disse alla zia : Che materia giettò quando l'accidente gli venne ? La zia savia fé' portare uno bacino pieno di licore giallo mescolato con mestruale materia. Lo medico disse: Costei è campata poiché tale materia gli è uscita di corpo. La sorella, ciò vedendo, disse: Per certo maestro Alessio sempre lo disse che se ella gittasse questa materia, Pippa era guarita. Ve- (1) Ms.: menando. (2) Cosi nel ms., ma qui e sotto v'è certamente corruzione nel testo. 144 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI duta quella materia, intraro in camera, et [il medico], tastato il polso, disse: Per certo costei è guarita. E subito comandò che fusse nudrita di buoni capponi, pippioni e confezioni, dicendo a tutti che lui n'avea buona sperariza; et per questo modo Pippa più di vinti dì fue da capponi et buone lasagne e confezioni confortata, in tanto che pareva proprio unii rosa gialla perchè non ancora gli era divetato il suffumigio. Clone, desideroso di veder quel bel viso, disse: Io veggo la Pippa esser in buon punto, salvo del colore. Se quello cessasse, vorre' lei menare. Lo maestro disse: Noi abbiamo fatto la maggiore cosa, faremo la minore. E dato alla Pippa alcuno unguento et acqua, in meno di tre di Pippa fu colorita come rosa. Sandro, che ciò vede, dice: Poiché tosto a marito andare ne dèi, queste rose vo' cogliere, che sono si vermiglie, poiché tante gialle n'ho colte. Pippa stae contenta. Gione, che sente che Pippa è più colorita che rosa, andandola a vedere, piacendogli et anco domandandola s'era contenta di venire a marito e se si sentia forte, che volentieri la menare', Pippa rispuose : Al vostro comando sono, né altro desidero. Gione, dato l'ordine del menare et ordinato le nozze e fatti l'inviti, Sandro dice a maestro Alessio: Gome faremo che Gione senta la Pippa vergine? Lo maestro disse: Questo sera assai piccolo peccato a fare che paia vergine. Et ordinato uno bagnuolo stret- tivo, con alcuni suffumigi, la natura della Pippa restrinsene per modo, che quando Gione l'ebbe menata et in nel letto con lei intrato, venendo a fornire il matrimonio, trovò la Pippa esser di sotto più stretta che una donzella di dieci anni. Dicendo: Io non trovai mai giovana che si onesta vergine fusse come la Pippa; udendo questa, rispuose: E tu di' il vero, marito mio, e cosi si goderne dappoi insieme. DE SUPERBIA CONTRO REM SAGRATA 145 38. [Triv., n" 60]. DE SUPERBIA COiNTKO REM SAGRATA. Fu in Navarra uno re nomato Astulfo, lo qual era di tanta superbia, che quello che a lui capea in nella mente volea sen- «/ z'altro consiglio che ad effetto si mettesse, avendo molte persone senza colpa fatto morire. E neuno era ardito a contraddire a sua volontà, parendogli esser da tanto che lo reamo^per sua virtù .^ gli fusse venuto in nelle mani, e per tal modo vivea. Divenne , un giorno che il ditto re Astulfo, essendo in nella chiesa, udendo vespro, udio cantare la magnifica et quando fue a quel verso "' che dice : Deposutt lodfènCéfde sede et exaltavit humiles, di- mandò uno dottore la disposizione del salmo. Fugh per lo ditto - narrato che Dio diponea Teìle signorie, li potenti e superbi, e li umili metlea in alto, di che, udendo lo re Astulfo tal disposi- zione, comandò sotto pena della vita che più tal salmo non si cantasse et cosi per tutto il suo reame fé' fare tal comandamento. Li preti e frati, avendo ricevuto tal comandamento, la ditta ma- ^ gnifica dir non osavano che altri udire la potesse, ma da loro con piana voce tal magnifica diceano. E più avea fatto lo ditto re Astulfo, che qualunque udisse dir cosa che dovesse tornar danno o vergogna di lui che fusse potuto battere senza pena, et più altre cose di crudeltà avea ordinato. Iddio, che al mal pensieri pone rimedio, e per non voler che quel dolce salmo fatto dalla vergine Maria, in nelle parti del ditto re fusse na- scoso, ma che palesemente et aito con reverenzia si cantasse, conchiudendo tutte le parti insieme, dispuose la divina bontà a mandare un angelo per riparare alla malvagità dello ditto re, come in questa novella chiaramente udirete. Essendo già il mese di maggio venuto, diliberò re Astulfo andare ai bagni, perchè da' maestri gli erano stati lodati perchè di nuovo avea preso una \ V | giovana bella per moglie, lodandogli il bagno esser atto a far generare. Lo re apparecchiato d'andare, le some cariche, molti mascaUoni e guatteri si mossero et a' bagni andarono. Lo re con gran cavallaria e genti d'arme da pie e da cavallo si mosse et a' bagni cavalcò. E quine die ordine chi dovea stare armato a cavallo e chi alla guardia da pie e quelli che all'uscio del Remei!, yocelk di G. Sercamli. 10 146 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI bagno stare doveano, avendo ciascuno comandamento star presti e quando intrasse in nel bagno che persona del mondo non vi si lasci dentro entrare, sotto pena della testa, fusse chi si volesse, e molte altre cose al suo salvamento ordinò. E per questo modo dimorò più di quindici di, che sempre, quando lo re in nel bagno entrava, neuno in quello entrare potea, et uscitone, tutti li altri che al bagno erano venuti entravano. E stato il ditto re il tempo ditto, un giorno essendo il re in nel bagno entrato et i panni messi da parte, com'era sua usanza, e le guardie alla porta, senza ch'altri se n'accorgesse, si trovò dentro uno pel bagno con panni grossi. Lo re vedendolo disse: Per certo ben [le] guardie delle porte del bagno appiccare farò, poiché questo poltrone han lassato entrare. E niente al pellegrino dice, ma di superbia tutto si rode, spettando come di fuori del bagno sera di presente farlo appiccare. Lo pellegrino entrato e lavatosi, lo re niente dicendogli, anco coH'animo superbo verso le guardie lassa dimorare il pel- legrino in nel bagno. Il pellegrino, stato alquanto, uscio dal bagno et i panni de Astulfo si mette. Lo re ciò vede, sta cheto coH'a- nimo empio a punire le guardie, niente al pellegrino dice. Lo pellegrino, vestito de' panni del re, lassato la sua trista roba e li altri vestimenti, uscio fuori e disse : Brigate, a cavallo. E mon- tato a cavallo, verso Na varrà prese il camino, e tutti, da cavallo e da pie, seguirò lo re, parendo loro fusse lo re Astulfo, e cosi giunseno a Navarra. Entrato in palagio, la donna, che crede che sia il suo marito, nomata madonna Fiammella, disse: Messere, voi sete ormai stato tanto al bagno e solo per aver di me figliuoli et io aspettatovi, che facciamo? Lo re novello dice che 1 medici gli hanno ditto che alcuno di spettare si vuole, perchè il corpo sia d'ogni umidità purgato. LaTeina steo contenta. Torniamo a re Astulfo, che ha veduto quello palmieri a suo modo vestire i suoi panni. Uscito fuori e non vedendo a lui persona venire, com'era di usanza, stato molto nel bagno, disse fra sé: Or veggo quello mi converrà fare, che quanti famigli arò che abbino fai.- Jito tutti li farò morire ; e mossosi del bagno e' all'uscio n'andò nudo e non vide persona. Uscito più fuori, vide dalla lunga al- quanti ribaldi, che in uno pratello giocavano e non altri. Lo re fra sé disse: Le mie brigate si saranno partite; io le farò tutte di cattiva morte morire. Et essendo nudo, pensò, poi che altri panni non avea, di mettersi quelli del pellegrino. Et uscito fuori con superbia, giunse a quelli barattieri dicendo loro: "V'è andata la mia gente? Disse uno: Che genti vai cercando? Disse lo re: DE SUPERBIA CONTRO REM SACRATA. 147 Come ! non mi cognoscete che sono lo re Astulfo vostro signore? Disseno i giocatori : Come se' tu nostro re ! e preselo, di molti calci e pugna gli dienno, dicendogli: Va alla pignatta a Vjgnone e non dir più che tu sei nostro re. Lo re Astulfo, cEé'ha avuto le prime viya.nde, desidera le seconde. Ponendosi in_cuore che_ TuttrTgaglioffì fare' morire, e' camino verso la città, e come tro- vava alcuni lavoratori dimandandoli se la sua gente era di quine passata nomandosi loro re, li lavoratori colli stili delle vanghe e de' marroni lo fracassavano dicendo: Lo nostro re è Astulfo e non se' tu, cattivo poltonieri. Lo re infiammato di superbia, benché si potrebbe dire riscaldato de' colpi ricevuti, promette e giura tutti li contadini trattar in forma di schiavi, e parendogli là seconda vivanda assai calda, pensò la terza fiisse migliore. E giunto alle guardie delia porta, domandando se la sua gente fusse dentro entrata, rispuoseno: Dentro è entrato lo re colla sua brigata. Disse Astulfo re: Come! non sono io lo vostro re e signore? Le guardie e soldati che quine erano, udendo ciò dire, co' pomi delle spade dandogli, cattivo divenne, in tanto che quasi morto lo lassonno, tanti colpi gli derono. Astulfo re, partitosi da loro, promeUejche_quanti_sddati da pie e da cavallo ara, tutti lijaràjn^ prigione senza__j)ane sostentare. Et in tal rabbfà e su- perbia ne vaT^lie giunse al palagio suo, là u' senza domandare su per la scala montòe. La guardia, che '1 vedeano già salito presso che mezza la scala, dirieto gli trasse e per lo lembo della gonnella lo trasse, per modo che tutta la scala salita in più scalei in uno colpo a pie si ritrovò tutto macolato. Astulfo, vedendo quello che '1 famiglio gl'avea fatto, disse: 0 Ambrogio, non mi cognosci? io sono lo re Astulfo tuo signore. Ambrogio, che ciò ode, co' calci dandogli diceagli (1): Gaglioffo, non (2) sono io sme- morato, che '1 mio signore lo re Astulfo è in camera colla donna. Astulfo, udendo questo, traendosi da parte in piazza, diceva: 0 quanti_n'arò afar morire e quanti ne rimetterò in Juogo ! ^ mentre che tali pensieri avea, lo noveTlò^re se ne venne alla finestra. Astulfo re, che ciò vede, sospinto da gelosia, vedendo che alla sua donna tenea un braccio in collo, se n'andò alla scala e quasi tutta l'ebbe montata, che persona non se n'era accorta. Ambrogio guardando lo vide et disse : Anco ci se' venuto, (1) Ms.: dicendoli. (2) Ms.: come. 148 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI diavolo, e preselo per forza, del capo gli fé' dare in nella porta dell'uscio, tale che '1 sangue cominciò a versare. Astulfo re, non potendo più, tirossi da parte della piazza dicendo: Che vorrà dire questo? Io non sono cognosciuto da persona, et ora veggo che fine alla donna mia non mi cognosce. Per certo io debbo aver qualche gran peccato che Dio mi vuole punire a questo modo. E tutto umiliatosi verso Dio dicendo che se mai gli dive- nisse che tornassefn ìstato che si guarderebbe di mal fare, lo novello re, che tutti i pensieri d'Astulfo re sapea, lo fé' chiamare, e Astulfo montò la scala assai debile per li colpi avuti, e fattolo condurre in camera, dove trovò lo re novello che tenea in seno (1) le mani alla moglie, e venuto dinanti, lo re novello dimandò chi era. Astulfo disse: Io sono uno peccatore che Dio per i miei peccati m'ha si abassato, che non che altri mi cognoscano che io medesimo non mi so cognoscere. Disse lo novello re : Perchè ? Astulfo dice : Io fui già re come ora sete voi, e cotesta giovana^ che voi colle mani le state in seno, fu già mia moglie, e tutta la masnada da pie e da cavalli, tutto questo reame ebbi in balia, come ora avete voi. Et non so come perduto tutto in piccola ora abbia, contatogli lo andare al bagno et il partire e tutte le bastonate e colpi ricevuti, e per certo io confesso li miei pec- cati essere stato cagione. Ma se Dio mai mi presta grazia che io mi ritrovi essere signore come già fui, io mi muterò come fa la serpe. Lo novello re disse : Astulfo, Astulfo, non pensare che persona del mondo sia da tanto che non che uno reame dovesse signoreggiare, ma una sola casetta non potre' tenere, se Dio tal dominio non gli concedesse. E pertanto Iddio t'ha voluto dimo- strare che tutto è suo e puollo dare a chi vuole e similmente ritorre. Et però ti vo' dire chi io .sono, e vo' che sappi che io non sono venuto per aver questo reame in signoria, che troppo ho io e li altri che sono appresso a Dio maggiore signoria che non are' qualunque fusse signore di tutto '1 mondo, ma acciò che tu diventi misericordioso e pietoso Iddio mi mandò. E però omai ti rendo la signoria, l'onore e la tua donna, notificandoti che se farai i comandamenti di Dio, sarai misericordioso e non cru- dele, mantenendo giustizia diritta. Iddio ti prenderà (2) qui in grazia ed alla morte ti darà gloria. E facendo quello che hai (1) Ms.: freno. (2) Ms. : perdonerà. DE SUPERBIA CONTRO REM SAGRATA 149 fatto, come una volta te ne ha tolto la signoria, così di nuovo te la tollera, facendoti servo del dimenio. Et acciò che sii certo chi è colui che tale cose per parte di Dio fa, ti dico io esser l'angelo suo. E sparito, subito la moglie lo riconobbe e tutta la famiglia. Astulfo, avendo veduto e sentito, subito mutato d'in- tenzione, divenne il più misericordioso e benigno che mai re fusse, e comandò che di presente la magnifica si dovesse di nuovo cantare a voci alte con canto V^osT s'osservò, e da quel tempo innanti lo re Astulfo fu per virtudi riputato mezzo beato. 150 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI 39. [Triv., no 61]. DE COMPETENTI CONSILIO DE ADULTERA. Fu non molto tempo in Firenze uno gentile omo de' Rossi nomato Michelozzo, il quale d'una sua donna de' Medici avea una sua bella figliuola di anni quattordici, nomata Diana Bella. E maritandola a uno giovano in Firenze ricco e gentile chiamato Simone Buondalmonti, e staFa già più anni a marito, un giorno essendo Diana Bella andata con altre donne a spasso fuori di Firenze a uno giardino, in nel quale certi giovani a diletto quine erano andati, fra' quali fu uno de' Rucellai chiamato Giacchetto, il qual come vide le donne all'orto venire e dentro della porta intrare, fattosi incontro salutando disse : 0 Diana Bella, prima che ad altro esercizio siate poste, vo' che una danza ordiniamo. E presela per la mano, Diaina Bella vedendo Giacchetto così li- li^ i berale, disse fra sé medesima : Di jvero_costuide' essere di gentil • t' y*^ 1 cugre^ e preselo per la mano, ballando con tanto piacére che mai non parea a Diana Bella esser sconsolata di ballare come allora, e disse (1) più volte a Giacchetto : Per certo io hoe avuto et abbo oggi in nel cuore grande allegrezza poiché la mano mi ^ *• prendesti, che se tutte l'altre membra fusseno di tanta virtù j ^ quanto mi sono parute le tue mani, molto contenta dovre' essere ^ ^ I quella giovana che in braccio ti tenesse. Giacchetto, che ode Diana Bella, et égli paruto sentire al tener delle mani quando ballavano che ella di fuoco d'amore fusse riscaldata, disse: Ma- q A donna, quello che dite di me io debbo dir a voi, che per certo Il [non] l'osava dire, che di vero quando la mano vi presi mi ■' parve fusseno tutte le piume e diletto del mondo esser in quelle (2), stimando [fra] me medesimo che dovrenno esser quelle parti che coperte dal sole stanno, vedendo tanta bianchezza in nelle vostre dilicate mani e vedendo il vostro vezzoso e angelico viso con quelle du' stelle rilucenti de' vostri onesti et leggiadri occhi, che di vero lo ramo della vostra persona avanza tutti li altri che portino qual fiore bello et odorifero si voglia. E non avendo io ardimento di dover le vostre bellezze contare, cognosco (1) Ms. : dicendo. (2) Passo certamente corrotto, ma che non saprei come ricostruire senza pecca di soverchia arditezza. jJL I DE COMPETENTI CONSILIO DE ADULTERA 15i che mal facea, e del fallo commesso con pregiare la vostra cara persona vi chieggio perdono, sottomettendomi a ogni vostra cor- rezione. E per certo la vostra benignità, la qual si mosse a me lodare, m'ha fatto certo che io ho troppo fallito. Diana Bella dice : Giacchetto, non bisogna che sii corretto, perocché solo in te sta ogni perfezione, dicendoti che veramente le tue mani sono degne di cogliere que' frutti che più dilettevoli sono, et so per te si cognosce che alcuno io n'abbia, a tua posta, ti prego, lo cogli. Gittandogli uno occhio addosso, ridente Giacchetto disse : Io sono al tutto disposto a ubbidire quello che comandate. Diana Bella, presolo per la mano e menando la danza, lo condusse da lato alla casa, dove persona non era, e voltasi a Giacchetto gli die un bascio dicendogli : Questo voglio che sia per arra de' frutti che domenica notte vo' che ricogli del mio alboro. Giacchetto lieto, con lei die l'ordine che la domenica andasse ad albergo seco, però che '1 marito dovea andare di fuori in villa. Dato l'ordine, ritornati alle donne e fatta una insalatuzza, merendarono, e dappoi ognuna con quelle s'aveano colte in Firenze tornarono Diana Bella, che la sua insalatuzzola avea in nella mente del l'ordinata notte, si steo fine alla domènicàT chl^ '1 marito di fuòri andò. Et la notte Giacchetto con lei trovatosi, di quelle meluzze, che in nel seno Diana Bella portava, due rose ne colse, averi de' fiori colti tanti che Diana Bella, essendo stata in posato di portare corona, di^più di dodici merli l'are' portata fornita. E tal vità~lenne Giacchetto ^i Diana Bella più mesi. Or perchè le cose non si puonno fare tanto secrete, et massimamente tali fac- cende, che non si vegnano a palesare, divenne che a Simone suo marito fu mostrato che Diana Bella^gTi facea fallo. Subito richiesto alcuni suoi parenti, con loro dolutosi del caso, dilibe- ronno al padre di Diana Bella manifestare la cosa, e cosi se n'andaro a Michelozzo e tutto il fatto della fighuola gli dissero. Michelozzo, malinconoso per più rispetti e prima per la figliuola la qual amava, appresso per Giacchetto se co' lui dovesse per questo fatto venire a guerra, senza niente rispondere se non che disse: Simone, al presente rispondere non ti posso per dolore che a me [èj venuto; va, ritorna dappoi a me, et io ti darò qualche consiglio, Simone doglioso si parte. Michelozzo subito pensò a Giarnierù de' Rossi suo fratello dirlo, omo di grande cuore e senno. Giarnieri, come ode questo fatto, pensò con bel modo far star contento Simone, e disse a Michelozzo che lassi fare a lui, e di presente fé' invitare tutte le consorti de' Rossi, 152 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI maschi e femmine, e simile Simone e Diana Bella, che la do- menica venghino a mangiare con lui. E con Simone invitò quello che gli avea ditto [avere] il diffetto commesso. Fatto lo 'nvito. Diana Bella, che di questo fatto niente sapea, perocché 'I marito niente gli avea ditto, allegra e baldanzosa a casa di Giarnieri andò col marito a desnare e simile li altri omini e donne della casa ; e quando funno tutti a casa, Giarnieri chiamò da parte tutti li omini de' Rossi lassando Simone e '1 parente colle donne in sala. E loro entrati in camera, Giarnieri cominciò a dir a' suoi: Fratelli e consorti miei, egli è avvenuto che noi siamo per esser in mala guerra se non si provvede, e di questo n'è colpa la figliuola di Michelozzo, Diana Bella, la quale con Giacchetto Rucellai s'ha preso piacere, di che Simone suo marito se n'è accorto et ha ditto al padre il fatto, e parmi mal disposto a vergognarci per sempre mai o metterci in guerra con sì fatte case. E pertanto, se volete fare a mio modo, da tutti i pericoli camperemo con nostro onore, altramente saremo disfatti e vitu- perati. Udendo i consorti questo fatto, disseno : Giarnieri, ordina e noi seguiremo. Allora Giarnieri disse: Or non vi sdegnate di cosa che io alle vostre donne dica, perocché tutto risulterà in bene. Tutti disseno : Di' e fa ciò che a te pare. Giarnieri, avuto licenzia, uscio di camera con tutti li altri e disse : 0 voi, omini e donne, udite quello che io vo' dire et non abbia neuno a male se io dico il vero. E però prima che noi mangiamo vo' sapere alcuna cosa. E volsesi alla moglie dicendogli: Vieni qua, puttana che sei, poiché io ti trovai farmi fallo mi sono accorto che anco vai cercando fallirmi e sai tei perdonai. La moglie di Giarnieri volendosi scusare, Giarnieri, facendole mal viso, disse: Taci, put- tana. E poi si volse a tutte l'altre donne de' fratelli et a ciasche- duna dicea per simile modo, in tanto che vergognose, tutte tre- mando, pensando de' falli commessi altri se ne fusse avveduto, stavano chete. E poi, rivoltosi a Diana Bella : E tu, madonna la puttana, che a Giacchetto Rucellai t'ha' fatto montare cento volte addosso, noi vogliamo sapere la cagione perché ciò abbi fatto, altramente noi incontcnente t'uccideremo. Diana Bella disse: 0 Giarnieri e voi altri, io l'ho fatto perché mei trovo sano. Disse Giarnieri : Simone, Diana Bella ha ragione e tu dicesti esser con- tento che sana stesse, ma ben ti preghiamo che da ora innanti con altra medicina la facci sana, minacciandola di segargli la gola, se mai più lo faràe. Simone, avendo sentito all'altre donne dir puttane, fu contento che alla sua così si dicesse. \^ DE JUST.V SENTENTIA |^ 153 40. [Triv., no 62]. DE JUSTA SENTENTIA. Nella terra santa di GerusaLem, al tempo di David re e di Sa- lamone garzone, fu una donna de' Macabei nomata Samuella bella e giovana e donna di uno nomato Melchisedec, omo di gran ^ virtù, la quale Samuella, dopo l'usare, è di lui ingravidata in uno fanciullo e quello parturio. Et sentendo Samuella che du' lo fanno più che uno, disiderosa di provare se due omini fanno quènatlo~più che^ uno, diliberò prender uno ch'a lei piacesse. Et veduto uno giovano dell'età del marito nomato Abram, quello da parte trasse dicendogli che in tutto gli avea il suo amore posto et che gli piacesse star contento di voler usare con lei et il fatto terre' secreto, Abram, che altro non are' [desiderato], tenendosi a gran ventura le parole che Samuella dicea, gli ris- puose: Io sono pronto. E dato l'ordine d'esser insieme, sì tro- vonno al fatto tempo e luogo, et prima che Abram del corpo gli discendesse du' volte la contentò. Samuella, che n'avea vo- lontà, et avendo già du' volte sentito la dolcezza, disse tra sé medesima : Il mio concetto è stato buono, che bene cognosco che duLlfi^fanno pi^ che uno. Et voltasi ad Abram, di nuovo il fatto sy^ rifornio, né prima da ìèPsi partio che cinque volte die l'acqua ^y ^^muHno. E dato l'ordine per altre volte di ritrovarsi secreta- / mente insieme, divenne che la vita che faceano adoperò in Sa- muella che gravida si sentio, et senza niente dirne steo contenta. E venuto il tempo del parturire, parturio uno fanciullo, dicendo a Melchisedec: Ora hai du' belli figliuoli, l'uno de' quali ha nome Adamo et l'altro, che ora é nato, ha nome Zaccaria. E cosi di- morano, et non molto tempo dimorò che Abram morio. Samuella dolente niente dice, stando fine che i figliuoli funno in età d'anni quindici. Il padre Melchisedec di questa vita si partio lassando il suo a' suoi figliuoli. Rimasa Samuella vedova, per alcuna ma- lattia sopravvenutagli si vide esser in caso di morte, e sentendosi il peccato commesso dell'acquisto fatto di Zaccaria, pensò di vo- lersene confessare, che mai confessato se n'era. Et avuto uno sacerdotèr"disse: Io porto una grande passione nell'anima di uno peccato che ho addosso, il quale è che la roba di mio marito 154 i^OVELLE DI Ct.OVANNI SERCAMBI consento che sia di chi aver non la de'. E colui che debitamente la de' godere con vitupero della mia persona gliela fo perdere. Lo sacerdote disse: Dimmelo. Samuella disse: Di vero l'uno de' miei figliuoli fu direttamente di Melchisedec, l'altro fu di Abram, li quali padri meco più tempo stenno, et io con loro presi mio piacere. E però quello che fu di Abram niente della roba di Melchisedec de'possedere. Lo sacerdote domandandola disse: Quale è quello d'Abram, acciò che dopo la morte tua lo possa appalesare? Samuella disse: Io ve lo dirò. Et come volse dire, l'anima di corpo se gli partio et morta fu. Lo sacerdote, ciò vedendo, tratte le persone e' figliuoli, disse tutto ciò che Samuella avea ditto. Adamo e Zaccaria, fratelli di madre, diceano ciascuno esser quello che la roba di Melchisedec posseder dovea. Et fu tanta quistione fra loro, che più volte si percosseno insieme. E di vero si sarenno morti, se non che li amici si preseno pensieri che David re determinasse tal quistione. E cosi davanti da David re funno. Et essendo Salamone alla presenzia, et udendo il dire del sacerdote e de' giovani, disse al padre: Optimo, concedete che Salamone vostro figliuolo della quistione di questi giovani ne sia assolutore. David lo concedeo. Et subito Salamone fé' sca- vare 11 corpo di Melchisedec dicendo ai du' fratelli: Qualunca di voi trarrà con una saetta più presso al cuore di Melchisedec, quello sera erede di lui. E fatto venire il corpo e dato loro du' archi con du' saette in mano et messo il corpo di Melchisedec un po' da lungi, presente David re e tutti quelli che quine erano, presente lo sacerdote, Salamone disse che l'arco tendessero et che ognuno s'ingegni di trarre diritto. Zaccaria volenteroso disse: Per certo io debbo la roba godere, e tira l'arco quanto la saetta «} lunga e percuote il corpo di Melchisedec, dicendo Zaccaria a Adamo: Ornai si vedrà chi de' avere la roba. E questo dicea con allegrezza, perocché vedea aver dato presso al cuore a poco. Adamo con lagrime di passione disse: 0 padre Melchisedec, il (juale mi deste l'essere et che in corpo di mia madre Samuella m'ingeneraste, posto che mia madre a te fallisse dappoi, pure in nel concetto di me a te non fallìo. Or come serò si malvagio, che tu che m'hai creato di carne et datomi l'essere, che sono tenuto difendere e combattere con quelli che t'offendesseno, io ora (1) debbia esser quello che ti percuota? Non piaccia al sommo (1) Ms. : IO come. DE JUSTA SENTENTIA 155 Iddio, che per tutto '1 tesoro del mondo tal fallo non farei. E voltosi a David re et a Salamone^ disse (1): Prima che io voglia il mio padre percuotere vo' che tutta la sua roba sia di Zac- caria et eziandio vo' che di cruda morte mi faccia morire. E gittato via l'arco e la saetta, gittossi (2) a pie di Zaccaria, dicendo : La roba sia tua et me uccidi prima che mio padre vegga con quella saetta ch'ò in nel corpo su fitta. Baiamone, veduto il modo di Zaccaria del balestrare e veduto il modo te- nuto per Adamo, subito sentenziò che Adamo era vero e legittimo figliuolo di Melchisedec et che Zaccaria era veramente quello bastardo adultero che Samuella avea di Abram generato, asse- gnando la roba a Adamo et a Zaccaria posto silenzio. Adamo con lagrime levatosi e trattosi li suoi vestimenti, al padre li misse, et onorevolmente di nuovo, come se allora morto fusse, lo fé' soppellire, avendogli la saetta tratta del corpo, dicendo a Zaccaria: Per amor di Dio e di mio padre ti perdono il colpo dato. E per ricompensazione di loro sono contento che la casa mia in sussidio della tua vita non ti vegna meno. David re, lo- dando Adamo di quello avea fatto, e' disse a Baiamone figliuolo lode. (1) Ms. : dicendo. (2j Ms.: gittatosi. 156 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI 41. [Triv., b" 63]. DE MERETRICIS ET JUSTO JUDITIO. Or che abbiamo trattato del senno di Sala mone in nelle due sentenzio per lui date, è di necessità al presente dire come es- sendo in Gerusalem David re con Salamone fanciullo , fu una donna nomata Belluccia e una giovana chiamata Divizia, la quale Belluccia avea uno figliuolo piccolo a petto , avuto da uno suo amico. E la ditta Divizia d'un prete avea avuto uno fanciullo maschio del tempo di quello di Belluccia, e stando le ditte donne povere, per poter meno spendere, sapendo l'una dell'altra la vita teneano, cioè che Belluccia tenea uno amico bagascio e Divizia tenea uno prete, disseno insieme se piaccia loro di prender una casa e fare una vita, che tanto mettesse l'una quanto l'altra. Et con quella spèsa , accordate le donne tra loro di dirlo a' loro ^bagasci, lo prete e l'altro contenti, sperando poter senza infamia meglio il loro fatto seguire colle donne, consentirono, et presa la casa et uno letto, dormiano con quelli fanciulli, ciascuna lat- tando il suo , e per questo modo dimoronno alquanti mesi. Et una sera in tra l'altre, essendo ambe sole presenti, lo prete e l'altro diliberonno d'andare a darsi piacere con Belluccia e con Divizia , e fenno d'avere di buone vivande e di molto vino , e cosi andarono lo giorno ciascuno sollazzandosi colla sua più volte, tenendo tra loro gran festa. E perchè le vivande erano buone e calde, e per lo buon vino, e per lo trafficare della fem- mina, si riscaldarono li omini e le donne in tanto che pare' loro esser in nel paradiso terrestro. E cenato, perch'era d'estate, e ciascuno prima che si partìsseTima volta, oltre quello che innanti cena fatto aveano , contentaro le donne e poi partirò , lassando Divizia e Belluccia e i figliuoli. Venuta la sera, Belluccia calda col figliuolo da l'uno lato del letto si coricò, Divizia col suo dall'altra proda si mise, e subilo [funnoj addormentate. E mentre che in tal maniera dimoravano, Belluccia rivoltasi senza senti- mento, addosso al fanciullo andò. Lo fanciullo piccolo di spasimo morìo , senza che la trista di Belluccia si sentisse. E stata al- quanto, svegliandosi e ritrovandosi sotto il figliuolo , tastandolo trovò lui esser morto. Senza dir niente subito preso il morto suo À DE MERETRIGIS ET JUSTO JUDITIO ìol figliuolo et allato a Divizia lo puose, et il suo figliuolo vivo prende et a sé l'accosta. Divizia, che niente sente perchè il vino ancora uscito non gli era, stava cheta. E venuto il giorno, Divizia isve- gliatasi videsi morto il fanciullo allato. Guardandolo cognobbe esser quello di Belluccia e disse : 0 Belluccia , che vuol dire ? il tuo figliuolo è morto. Io l'ho trovato appresso di me, e tu hai il mio in braccio. Belluccia fa vista di dormire e a niente risponde. Divizia la dimena, dicendo: Sta su che '1 tuo figliuolo è morto. Belluccia fa atto di svegliarsi, dicendo: Che vuoi? Divizia dice: Non vedi che hai il tuo figliuolo morto ? Belluccia dice : Il mio figliuolo ho io in braccio e se tu, come cattiva, hai il tuo morto non ti darò p?rò il mio vivo. Divizia , che cognosce il suo fi- gliuolo, affermando dice lo vivo esser suo e '1 morto di Belluccia e volselo prendere gridando: ^£Corruomo. Li vicini traggono, la quistione è grande tra costoro, che ognuna volea il vivo per sé. David re, sentita la quistione nata, fatte venire le donne col fan- ciullo vivo e morto, essendo Baiamone presente, David re disse che la ragione dicessero che il fanciullo vivo ognuna lo domanda e '1 morto ognuna nega esser suo. Salamone , udite le donne, disse a David: Deh padre perfetto, se a voi fusse in piacere che la quistione di questo fanciullo vivo io determini. David re disse: Io contento sono. Et preso Salamone di braccio a Belluccia lo fanciullo vivo, dicendole: Questo fanciullo di chi é figliuolo? Bel- luccia dice: Mio. E voltosi Salamone a Divizia disse: Di chi é questo fanciullo? Divizia dice: Mio. Salamone dice: Questo fan- ciullo é di voi due, e pertanto vo' che con una spada si divida et la metà sia di Belluccia e l'altra sia di Divizia. Prese una spada nuda, tenendo lo fanciullo dall'uno de' lati e la spada del- l'altra mano. Belluccia dice : Io sono contenta. Divizia, che vede la spada alta, dice: 0 Salamone, prima ch'io voglia che '1 mio figliuolo sia morto, voglio che voi lo date tutto vìvo a Belluccia. Salamone, vedendo questo fatto, giudicò il fanciullo esser di Di- vizia e non di Belluccia, e per questo modo Salamone die il terzo giudicio. y 158 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMRI 42. [Triv., no 64]. DE DISONESTITATE VIRI. Lungo tempo fu che lo 'mperadore di Costantinopoli, nomatojGe- sare ardito, avendo uno suo figliuolo, nomato Ottaviano, già grande d'età di anni quattordici, il quale non volendo a senno del padre fare, più volte si parti da lui. Lo 'mperadore, che più non [nej avea et era in tempo che più non [ne] aspettava, con preghi, più che con battiture, lo ritenea. Ottaviano, che avea il sangue caldo et la gioventù lo portava, dal padre si partìo. Lo 'mpera- dore, che ciò ha sentito, diliberò, poiché tante volte s'era fug- gito , se ritorna, di tenerlo in prigione, e ciò promette. Di che Ottaviano, di ciò sentendo, si partìo dal paese. I)i Costantinopoli s'assentò andando in qua et in là, facendosi nomare Borra. Et non molto tempo passò che il ditto Borra giunse a Genova, là dove li dinari gli venne meno. E poco vi steo che tuttociò ch'avea di mobile consumò, e perchè non avea arte impresa et anco perchè non si volea invilire, a niente si dava, salvo che si riducea alla^barattaria , la u' alcuna volta ricogliea alquanti dadi, et colli altri iTàfaTReri si mettea a giuocare. E talora gli venia atiutp. uno o jdu' grossi, et cosìe si vivea assai miseramente e mal vestito, et per quèslò modo dimorò in Genova più di tre anni, tenendo la vita che t'ho ditta, e talora n'andava senza cena a letto. Avvenne che un giorno, in nel principio dell'uccel- liera delle quaglie , avendo vinto alquanti grossi , vedendo un bello sparvieri, quello comprò. E perchè molli n'avea già tenuti, quello governava tanto gentilmente, che non era in Genova spar- vieri sì bello. E portando il Borra quello sparvieri in pugno, uno gentilorao genovese, nomato Spinetta del Fiesco, vedendolo e pia- cendogli, disse: 0 Borra, vendimi cotesto sparvieri. Borra disse: Messere, vender non voglio, ma so vi piace io vel vo' donare. Spinetta dice che lo vuol comprare. Borra dice che volontieri gliel dona. Spinetta risponde: Come! non ho io tanti dinari che cotesto sparvieri possa comprare? Borra dice: Dei dinari avete assai, ma questo sparvieri non si può avere con dinari, ma in dono lo potreste avere. Spinetta superbo disse: Gaglioffo e ribaldo , che mi rispondi e dici che per dinari cotesto spar- DK DISONESTITATE VIRI 159 Vieri non arei, et pensi che io voglia che si possa dire che uno ribaldo abbia fatto dono a Spinetta del Fiesco. E di rabbia glielo strappò di mano e per le guancie ne gli die tanti colpi, che lo sparvieri e le guancie di Borra tutte si fracassonno. E morto lo sparvieri e gittatolo via, disse: Ora, ghiottone, hai donato lo sparvieri, e lassollo forte piangendo. Era questo Spinetta si po- tente in Genova, che neuno osò dire niente, mentre Borra battea, ma cheti stanno. Borra, che ha ricevuto le battiture per voler esser cortese, et ha ricevuto villania, disse: Oimè tristo, quanto sono da poco! E dire che io sq¥ìq (1) figliuolo dello 'mperadore *> Cesare ardito di Costantinopoli ! E così tristamente mi lassai alla -^ ca!tività~^venire , che se io fussi a casa di mio padre e fusse in '^ buona con lui arei più baroni e re che mi farebbeno onore che non ha persone in Genova, et io cattivo per mia tristizia tanto bene ho perduto. Ma se io pensassi che '1 mio padre mi volesse ri- cevere, s'io dovessi morire io anderei a lui, ma io penso che non mi vorrà vedere. E con questo pensieri steo alquanto. Poi rivoltosi a sé medesimo disse (2): 0 cattivo me, che mio padre è vecchio. Se Dio facesse altro di lui, lo 'mperatico e la terra si pren- derà per altri, et io raeschinello mai andare vi potrei. Et per- tanto, se il mio padre mi dovesse uccidere, io convegno a lui an- dare. E subito se n'andò in arzanaia, domandando se alcuno na- ^ viglio andava verso CostantinòpoTT."" Fugli risposto di sì , e fatto motto al padrone se volea che lui andase, che non volea altro che la spesa, lo padrone udendo che non volea soldo se non la spesa, fu contento. E venuta l'ora del partire, la nave messa in punto. Borra entrato in nave con buono vento, giunseno al porto •li Costantinopoli, e messo scala in terra. Borra disse a uno suo compagno: Io ti prego che vadi al palagio dello 'mperadore e domanda di Tedei, e se ti dice perchè lo domandi, digli: Uno giovano, ch'è alla nave, ti addomanda che non lassi per nulla che a lui vadi. Era questo Tedei spenditore dell'imperadore. An- dato il nauchieri a corte, domandato di Tedei, subito Tedei fu y venuto, TfottoglI l'ambasciata del Borra, Tedei subito stimò fusse Ottaviano figliuolo dell'imperadore. Domandando il nauchieri «ome il giovano avea nome, rispuose: Fassi chiamare il Borra. Tedei subito si parte et alla nave se n'andò. Borra, come ebbe v^ (1) Ms.: sia. CoA.A.tffc (2) Ms. : dicendo. IGO NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI veduto Tedei, l'ebbe conosciuto, et ito da parte, Tedei domanda ; Qual è quel giovane che m'ha fatto richiedere ? Borra dice : Io sono. Tedei lo riguarda e pargli già averlo veduto , ma perchè era in nel viso per lo sole alquanto diventato nero, disse come avea nome e chi era. Rispuose: Io ora mi fo chiamare Borra, ma il mio nome diritto è Ottaviano , figliuolo dello 'mperadore. Tedei subito l'hae ricognosciuto, e domandandolo del padre e dello condizioni di corte, a Ottaviano tutto racconta. Tedei, che '1 vedo nudo, subito se n'andò in nella terra e di bellissimi panni lo riveste e seco lo mena; facendolo stare in una camera del pa- lagio dicendogli: Spettami. Et andato Tedei in sala, trovò lo 'm- peradore esser a taula, e Tedei dice: 0 imperadore, quanta al- legrezza sere' la vostra se il vostro figliuolo Ottaviano fusse con voi 0 si sapesse se vivo o morto fusse. Lo imperadore dice : Tu di' il vero, che se Ottaviano mio figliuolo fusse vivo, se io do- vessi spender ciò che io abbo, o cattivo o buono ch'esso fusse, lo farei d'avere, che penso che bene s'amendere'. Et questo di- cendo gittò un gran sospiro lagrimando. TedelTche ha veduto la volontà dello imperadore, subito se n'andò alla camera dov'era Ottaviano dicendogli che allegramente al padre ne vada et a lui chiegga perdono gittandosegli a piedi, et io serò teco. Ottaviano rassicurato ciò fae. E giunto Tedei in sala con Ottaviano, disse: Santa corona, ecco il vostro dolcissimo figliuolo. Ottaviano, subito gittatosi ginocchioni, al padre chiese perdono. Il padre allegro gli perdonò e fé' festa inestimabile per lo riavuto figliuolo. Di- morando Ottaviano in corte con tanti baroni, che tutte le per- sone diceano Ottaviano esser da più che il padre, poco tempo steo che lo 'mperadore passò di questa vita. E subito fu fatto imperadore Ottaviano, le tre marine e li altri signori consen- tendo. E massimamente vista in Genova l'elezione del novo im- peradore, subito i Genovesi fecero (1) ambascieria che in Costan- tinopoli si trovasseno. E funno di Genova eletti tre cittadini gen- tili e grandi, fra' quali fu Spinetta del Fiesco, il quale avea dato per le guancie dello sparvieri a Borra. E caminati, giunseno a Costantinopoli con l'altre (2) ambascierie. Lo 'mperadore davanti a sé le fé' venire, e venuto li Genovesi, cognobbe Spinetta del F'iesco, e chiamatolo disse: Messere, faceste mai oltraggio a (1) Ms.: fatto. (2j Ms.: e laltre. DE DISONESTITATE VIRI 161 persona? Spinetta disse: Santa corona, no. Lo 'mperadore dice: Non può essere che qualche ingiuria ad altri non abbiate fatta. Spinetta, ricordandosi dello sparvieri, disse: Sì che io feci in- giuria a uno gaglioffo chiamato il Borra, il quale era in Genova, et avea uno sparvieri e voleamelo pur donare, et io lo volea in vendita, e non volendomelo vendere, ma sì donare, io quello sparvieri presi e tanto ne gli diedi per le guancie, che tutto lo feci insanguinare e lo sparvieri uccisi. E questa mi pare che sia l'ingiuria che ad altri ho fatta. Disse lo 'mperadore : Or non fu ben grande? Rispuose Spinetta: Si, che poi che lo sparvieri mi piacea io lo dovea prender in dono et a lui, perch'era nudo, per ricompensazione lo dovea vestire, e però feci male. Lo 'ra- peradore disse : Et io vi sono più tenuto che a persona al mondo, perocché io fui quello che lo sparvieri avea et che ricevetti (1) da voi i colpi. Et acciò che mi crediate che io vi cognosco, voi siete nomato Spinetta del Fiesco e tali colpi dello sparvieri in nella guancia mi deste presso alla barattarla, e faceami allora chiamare Borra, e però, cognoscendo quello che io era, dispuosi ritornare a mio padre, e però io vi sono molto tenuto et obbli- gato che la ingiuria che io ricevei fu cagione di farmi ritornare. E per quella sono ora imperadore, che sarei tristo e ribaldo, e pertanto chiedi ogni grazia et io la farò. Li 'mbasciadori tutti, vedendo la benignità dello imperadore, ognuno colle grazie piene tornare. E tornati i Genovesi in Genova, narronno la cosa, per la qual cosa diliberonno in consiglio di Genova che ogni persona d'allora innanti si dicesse messere, perocché altri non può sapere, perchè sia mal vestito, che persona sia, come s'è veduto lo fi- gliuolo dello 'mperadore stare come gaglioffo nudo alla barattarla. E però questo modo oggidì in Genova s'osserva. (i) Ms. : ricevuto. Eenieb, Novelle di 0. Sercambi. 162 NOVELLE DI GIOVANNI SERGAMBI 43. [Triv., no 65]. DE NOVA MALITIA IN TIRANNO. In nelle parti di verso levante e mezzodì dove il gran Cane, el maggior signore de' Tartari, dimora (1), fu uno signore chiamato il Veglio della montagna, il quale avendo una sua città situata alla bocca d'una grandissima montagna, la qual città era fortis- sima, e dopo quella città alla bocca di tal montagna avea una gran pianura con bellissimi fiumi, circondata di monti alti, in nella qual pianura entrare non si potea se non per la città e per la porta che alla bocca della montagna fatto avea. In sulla qual porta avea uno castello fortissimo, in nel qual il Veglio si- gnore dimorava. Avea questo Veglio signore ordinato che in quella gran pianura fosse ordinato artificiosamente condutti di mele e di zuccaro, latte e vini, con palagi tutti ornati d'oro, bellissimi prati, et odoriferi frutti, con tutti ornamenti che a tali cose si richiedeano. E per più diletto avea in ne' palagi uccelli domestici, che volavano dalli arbori in ne' palagi, cantando dolci versetti e in ta' palagi di continuo con certo modo dentro vi mettea giovane belle di quattordici o quindici anni con stromenti e canti, adornate di drappi dorati, con quelle vivande che chi fusse pasciuto di quelle gli parea aver ben mangiato. Quine non vecchio, omo né donna, entrare potea se il Veglio non ve lo (2) mettea. E di quanti diletti erano che prender si possa, in quello avea ordinato che si prendesse. Dappoi avea il ditto Veglio si- gnore ordinato che ogni dì per li loro sacerdoti facea predicare molte cose secondo la loro costuma e legge. E dopo molte cose ditte conchiudea tal predicatore che chi farà la voluntà del si- gnore Veglio e che per lui morisse andava in paradiso, narrando il paradiso esser tra montagne altissime, in nel qual entrare non si potea, et in un bellissimo piano, in nel quale erano fiumi di zuccaro, mele e latte e vino, con bellissimi prati, case dorate, frutti odoriferi. Quine giovanetto (3) giovane di quattordici e quindici anni bellissime, vestite et adorne di vestimenti dorati; quine suoni, balli, canti e giuochi di prender di quelle giovane qual più gli piace; quine non fame, sete, né pestilenza, piova, pianto, nò neuna mala conturbazione; quine sempre vivendo, d'ogni di- (1) Ma.: dimorono. (2) Ms.: volea. (3) Ms. : gioventù. i DE NOVA MALITIA IN TIRANNO 163 letto di corpo potere suo agio prendere, ne mai di tal luogo desiderio di partirsi, E chi non facea i comandamenti del ditto signore avea pena inestimabile in pena di fuoco eterno. E questa predica facea ogni di dire. Et veduto il Veglio che aveva voluntà il giovano gagliardo e desideroso per la predica andar in para- diso a goder tanto bene, subito tal giovano facea richiedere, et con uno beverone lo facea dormire, e poi indormentato lo facea mettere dentro dal suo castello et per la porta Io facea condurre in nella pianura detta. Et quine era vestito di drappi dorati, e poi lo facea destare, e come si vedea esser si onorevile vestito «^ e vedutosi tra quelle montagne e comprendea le damigelle con cui egli si prendea piacere e li stromenti, suoni, balli e canti, li desnari e le cene co' condutti di zuccaro, mele e latte e vino -^ e frutti odoriferi, ricordandosi delle prediche udite, dicea: Io sono veramente in paradiso. Et avea tanta allegrezza che dire non si potea, stando sempre abbracciato o con una damigella o con l'altra, tutte giovane, vestite di drappi dorati; le vivande buone, con piaceri inestimabili. E per questo modo il signore Veglio li tenea per più giorni e quando li avea così più giorni tenuti, li facea addormentare e di fuora ne li traeva, vestendoli de' suoi vestimenti e fuora del castello li mettea. E quando [uno] si sve- gliava, si vedea mal vestito e fuora di tanto bene, ricordandosi di quello che più giorni avea sentito e provato, malinconoso stava. Lo signore Veglio, che tutto sapea, mandava per lui di- cendogli quale fusse la cagione che così malinconoso stava, di- cendo: E' sere'(l) vero che tu avessi perduto il paradiso, tanto ti veggo malinconoso? Lo giovano rispondea: Cotesto ho io bene perduto et non so come. Lo signore Veglio gli dicea: Tornere- stevi volentieri? Lo giovano dicea: Si, messere. Lo signore dicea: Tu sai che se mi ubbidisci et per me muori tu vai in paradiso, e però, se tornare vi vuoi, ti dico che facci il mio comandamento. Rispondeano che erano presti, E lui dicea: Io vo' che vadi a cotal signore et quello ucciderai e suoi vicini. Li giovani, per tornar in paradiso che assaggiato aveano, ubbidiano, et al luogo comandato andavano, e tal signore uccideano e loro erano uccisi. E per questo modo lo signore Veglio conquistò più paesi, finché '1 gran Cane noi venne a disfare. E' fece più di sessanta gior- nate intorno a se uccidere tutti que' signori. Di che il gran Cane per paura gli cavalcò addosso e disfe' lui e quel sito. (1) Ms.: essere. -\vi 164 NOVELLE DI GIOVANNI SERGAMBI 44. [Triv., no 66]. DE EBRIETATE ET GOLOSITATE IN PRELATO. Fu nella città di Lucca uno prete nomato Bernardo Brusdella, omo piuttosto da comunicare vacche che dell'ufficio, il quale, non per sua virtù ma per alcuna amicizia, gli fu dato una chiesa a governo nomata San Giusto. Lo qual prete ogni di si convenìa di vino impire il bariletto, in tanto che sempre gli durava la caldezza ^él'vino due dì (1). Non tenea chierico e, pure essendo di necessità di dire la messa, prendea alcuna volta a rispondere or questo or quello. E in fra li altri avea uno suo vicario nomato Paulo Sermarchesi, alquanto mentegatto, che alcuna volta per avarizia per chierico l'avea. Avvenne che una volta il ditto prete Bernardo avendolo richiesto che aitare gli venisse, parendo che troppo fusse stato, gli die alquante capezzate. Paulo, benché mentegatto fusse, cognobbe le capezzate che scritiano (2) , et pensò di pagamelo. E non volendo molto indugiare, la seguente mattina si dispuose punire il prete dell'opre sue e subito la sta- gnatella u' si mettea il vino da fare sacrificio empio di calcina e d'aceto. Et quando fue all'altare, prete Bernardo, che sempre il calice empia, prese la stagnatella di mano a Paulo et in nel calice, senza che s'accorgesse di niente, lo misse. E sacrato il corpo e lo sangue di Cristo e poi messosi lo calice a bocca, prima che sentisse la fortezza dello aceto et della calcina più che la metà mandò giù. Et accorgendosi si voltò a Paulo dicendogli che avea fatto. Paulo disse: Sere, se crepassi, el vr-^onverrà bere (3). Lo prete quello a mal suo grado bevve, et per questo ^ v-\/>^ 1 modo fu pagato da uno matto lo matto maggiore. (1) Poi nel ms. : e protrasela, che non intendo. (2) Così nel ms. (3) Ms.: el tei comune bere. Mi è molto oscuro e credo sia erroneo. DE SMEMORAGINE PRELATI 165 45. [TriT., no 67]. DE SMEMORA.GINE PRELA.TI. Voi avete udito quello che quel Paulo mentegatto fé' a prete Bernardo. Ora dirò che essendosi di quella chiesa il ditto prete partito, cioè di San Giusto, uno prete pisano nomato Biagio, il quale d'avarizia avanzava il ditto prete Bernardo, e teneasi da tanto che tutta la phieresia di corte di Roma, secondo il suo ^ parere, non erano da tanto quanto lui si tenea, andando col capo alto e più di tanto avanzava il canto delli^jmini (1), dimorando v/ il ditto prete Biagio in Lucca, e' talora officiava in nella ditta chiesa. E non avendo chierico, richiedea Paulo Sermarchesi che a lui aitasse la messa a dire, avendolo ammonito che lui noi trattasse come avea fatto prete Bernardo. Paulo soprascritto dice ch'è bene. E stando per tal maniera, un giorno solenne di festa^ venendo a dire la messa, disse a Paulo che faccia e apparecchi^ lo vino dilicatamente ogni cosa. Paulo mentegatto ode dire che dilicato faccia, pensò infra sé di saper che cosa er£p"dilicata, e ricordatosi dell'olio, andò alla stagnatella in che l'acqua si mettea -y e quella impio d'olio et all'altare" l'arrecò. E cominciata la messa - prete Biagio, Paulo rispondendogli venne a mettere il vino nel calice e l'acqua. Paulo, data la stagnatella a prete Biagio, il vino e l'olio in nel calice misse, e poi al lavare delle mani, fat- tosi porgere a Paulo l'acqua, lavandosi disse: Questa è buona acqua ? Paulo disse : Sì. Consacrato il corpo e '1 sangue di Cristo e venutosi a comunicare, prendendo prima il corpo e poi pren- dendo il calice, cominciò a bere, e sentendosi le labbra unte disse a Paulo : Arestemela (2) fregata? Paulo dice : 0 sete bestia ! '^ che mi domandate? Prete Biagio, rimessosi il calice a bocca e beuto, sapendogli di svanito, rivoltatosi a Paulo disse: Tu me la dèi aver fregata. Paulo dice: Anco m'avete voi a mio superbo \j culo la lingua fregata. Prete Biagio prese un lume in mano e volse vedere quello era in nel calice (3). Prete Biagio per ver- (1) Cosi nel ms. Non intendo. (2) Ms.: aresamela. • (3) Segue nel ms. un inciso evidentemente corrotto, che non mi riuscì di rimettere a posto. Eccolo: o matto che non lavra la messa. 166 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI gogna lo calice lavò dicendo: 0 Paulo, per certo tu mi dèi aver dato acqua fracida. Paulo dice: 0 smemorato, io t'ho dato dili- cata cosa. Prete Biagio prese il calice et dell'acqua si fé' porgere, non volendo vino, sperando che Paulo gli avesse il vino guasto, come fé' a prete Bernardo. Paulo, che dell'olio ha messo molto in nel calice, [disse]: Or be' in malora! Prete Biagio, avendosi udito dire più volte villania, disse: Io ti farò si crescere le orecchie, che più d'uno asino l'arai grande. E Paulo dice: Or credi che io non sappi che tu hai la cogha più grande che non è un ventre di un porco marcio, che hai bevuto tanto che do- vressi esser fracido? Prete Biagio, messosi lo calice a bocca e mandato giù, conobbe esser olio, et voltosi alla brigata lamen- tandosi di quello che Paulo gli avea fatto, Paulo disse : Tu non berai quello che n'è rimaso, e presa la stagnatella dell'olio si fuggio. Prete Biagio rimase schernito né più in tal chiesa usò di venire. f DE PRESUNTIONE STULTI 167 46. [Triv., no 72]. DE PRESUNTIONE STULTI. /" Fue nel contado di Lucca, in una villa chiamata Bargeccliia, uno cavalieri nomato Salvestro, lo quale facea l'arte di radere in nella ditta terra, et era di quelli d'una grande opinione, che prima che si fusse inclinato ad andare a radere uno fuor di casa sere' stato tutto l'anno senza radere. Avvenne che uno sa- bato del mese di luglio uno messer Bernardino, cavalieri et cat- ^ ,taja2_di Montemagno di Lucca, il quale avendo necessità di ra- derai la barba, venne a questo Salvestro, che di lungi gli era un miglio e mezzo. Et essendo il ditto messer Bernardino tra le mani di Salvestro barbieri,, mentre che '1 ditto la barba radea, disse: Messer Bernardino, io vo' che voi mi date quelli bordoni v,- della casa vostra de Schiana, che è caduta, acciò che io possa la mia racconciare. Messer Bernardino disse: E tu l'abbi. Come più oltra lo rade, disse: Messere, e simile vo' mi diate quelli tra- vicelli e le taule che a questa mia casa bisognano. Messer Ber- v nardino dice^che se li pigli. Et avendo già rasa una delle ma- scelle, venendo a radere l'altra, disse: 0 messere, io prenderò quelle belle pietre della vostra casa che vo' far fare la mia. Messer Bernardino disse : Prenditele. Avendo rasa la seconda mascella, radendogli la gola, disse: Deh messere, quelle piastre della vostra casa caduta mi sono necessarie e però vorrei me le deste. Messer Bernardino dice che per esse vada. Et avendolo quasi tutto raso, salvo i labbri, disse ; Messere, perchè io hoe una vigna che molto vino mi fa, ho bisogno di quelle du' bot- ticelle che in nella ditta casa sono. Messer Bernardino parla: 0 Salvestro, tutto ciò che io ho è tuo, va et arrecalo (1). Sal- vestro, quando l'ha raso, dice a messer Bernardino: Io soglio pigliare dodici dinari della raditura della barba; io sono con- tento che non mi date se non nov^e dinari, perocché io vi voglio fare pigiiaFe (2) tre dinari, perchè m'avete conceduto tutte quelle cose che io vi ho chieste. Messer Bernardino dice a Sal- vestro: Come potrai sostenere te e la tua famiglia a farmi _pia^ cere tanto? che se ogni volta che io rinvenisse mi lassassi tre dinari, più di du' fiorini l'anno perderesti e saresti disfatto e me (1) Ms. : aregamele. (2) Ms. : 168 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI arricchiresti. Salvestro dice: Deh, messere, state contento per questa volta di ritener questi tre dinari in dono. Posto che io cognosco a me esser danno, non di meno mi pare che voi me- ritate tanto dono, e non di meno quando verrò a Montemagno vo' desnare con voi. Messer Bernardino, ch'è ^rasp, cavatosi di borsa nove dinari, a Salvestro li die. Partitosi messer Bernardino e ritornato a Montemagno, Salvestro subito imprende tutti li omini di Bargecchia e quante bestie v'erano e lui colla moglie e colli altri del comune la domenica mattina a Schiana n'anda- rono. E giunti, subito andarono a quella casa caduta di messer Bernardino e cominciando le piastre e '1 legname a voler caricare e le botti già messe fuori di casa per quelle portare, sopravvenne il salano, che \& ditta casa con altre possedute da messer Ber- nardino tenea, dicendo a Salvestro che volea fare. Salvestro dice che messer Bernardino gliele avia date. Lo salano dice : Tu non toccherai niente fine che messer Bernardino non mi dà la parola. Salvestro dice : Vieni meco a messer Bernardino, poi che non mi credi, che mi dovresti credere. — Gnaffe, lo salano ris- ponde, io vo' che messere mei dica, e sono contento venire. Sal- vestro e '1 salano si mossero e giunsero a Montemagno, dove trovonno messer Bernardino con alquanti carri et omini in sulla piazza di Montemagno. E giunto Salvestro disse : 0 messere, io andava a Schiana per quel legname e piastre e botticelle, che ieri voi mi deste, e questo vostro salano non me l'ha volsute lassare pigliare. Però siamo venuti a voi che gli diciate che me le dia. Dice messer Bernardino: Lo mio salano ha fatto molto bene a non lassarle toccare perchè mai non mi ricordo che io te le desse. E Salvestro: Come avete poca memoria, che sapete che ieri me le deste. Messer Bernardino dice : Di vero io non me ne ricordo. Lo barbieri, raffermando, gli dice che quando lo radea tali cose gli die. Messer Bernardino dice : Doftqua m'avei lo rasoro alla gola ? Salvestro dice : Ora voi [vi] siete ricordato che quando io v'avea lo rasoro alla gola le cose mi deste. Messer Bernardino dice : Salvestro, ora che tu non m'hai rasoro alla gola, le cose non ti vo' dare, e a te, mio salano, comando che niente gli lassi toccare. Salvestro dice: Or udite, voi altri che qui siete, che per le cose che ra'avea date io gli avea donati ire dinari di quello che dare mi dovea della raditura. Messer Bernardino dice: A quest'altra volta te ne darò quindici, e cosi ti contenterò. Salvestro scornato si parti, né mai messer Bernar- dino a tale ebreo andò. DE COMPETENTI MISURA 169 47. [Triv., n" 74]. DE COMPETENTI MISURA. Altempo delle moria del quarantotto uno giovano lucchese nomato Turello andò a stare a Pisa per fare l'arte del ferro e prese una bottega e casa di quelle de' Gambacorti al tempo che loro signoreggiavan Pisa, presso al ponte vecchio. E quine eser- citando l'arte, avvenne che la moria cominciò in Pisa, di che il ditto Turello, vedendosi solo e dubitando della morte, pensò voler prendere una fantesca, che in casa lo servisse, se caso di malattia o d'altro gli sopravvenisse. E stando un giorno presso alla loggia del ponte vecchio, là u' molti gentili omini si ridu- ceano e massimamente Franceschino Gambacorta, di cui era la casa che Turello preso avea, il preditto Turello, vedendo una fantesca passare, disse se con lui volea stare a salario. La fan- tesca dice di si, ma che volea saper quello che dare gli vuole. Turello disse di dargli quello gli parea (1) che sia condecevole. La fante dice che vuole quaranta lire l'anno et a ragione d'anno. Turello, che non era ben pratico della moneta, disse: Di che lire vuoi? La fante disse: Delle pisane d'argento, di che tre sono dieci per fiorino (2). Turello dice esser troppo. La fante fa vista di partirsi; Turello la chiama dicendo ch'era contento. France- schino Gambacorta, che ode che Turello ha profferte quaranta lire, e' pensò dirgli una gran villania che lui voglia le fanti mettere a tale pregio. E mentre che in tali parole stanno, avendo fermo il patto delle lire quaranta, Turello dice che in casa ne vada. La fantesca dice ; Et anco voglio che tutta la semola, che uscirà dal pane ch'ella farà, vuole che sia sua. Turello dice: Io sono contento. Franceschino tutto ode e pensa vituperarlo. Fatto il secondo patto, la fantesca gli dice: E simil voglio tutta l'accia che io filo sia mia. Turello dice : Fa l'altre cose et io sono pur contento che l'accia che fili sia tua. Franceschino più si mera- viglia, e Turello dice alla fante che in casa ne vada. La fante \? (1) Ms.: piacea. (2) Così chiaramente nel ms. 170 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI disse: Et anco vi dirò, se faceste alcuno convito, veramente di tutti i polli che in casa si coceranno voler le penne e lo ente- rame (1) anche. Turello dice: Io sono contento che tutti quelli uccelli, a chi enterame si trae di corpo, siano tuoi e le penne; or vanne in casa. Franceschino, rivoltosi a quelli che in nella ^ loggia erano, e' disse: Or si pare che Turello è di quelli anziani } di santa Zita di Lucca, a dire che una femminuccia l'abbia col- lato a passo a passo et anco non s'è mossa. E mentre che Fran- ceschino dicea, la fante disse a Turello come avea nome. Tu- rello il nome le dice. — 0 Turello, se volete che io vi serva, io voglio ancora tutta la cenere. Turello dice : Cotesto non ti voglio dare, perocché io ho alquanto difetto che lo medico me l'ha molto lodata, et però non voglio avere a comprare la cosa che io avesse. La fante a questo steo contenta et in casa n'andò. Franceschino, che ha udito della cenere, rivoltosi a' compagni, dice: Udite savio omo che s'è sottigliato alla cenere et non al- l'altre cose. E subito chiamato Turello, Turello andò a lui ca- vandosi il cappuccio dicendo: Che comandate? Franceschino I dice: Or bene cognosco che tu se' di quelli strappazucca da Lucca, a dire che se' stato stamane uccellato da unalemmTnella e che hai profferto di darle quaranta lire di pisani et hai messo malo esemplo, che altro che dieci lire non s'usa di dare. E con questo hai promesso l'accia, la semola, le penne, li enterivoli, e la ce- nere ti se' sottigliato, matto tristo. Turello dice: Messere, se mi volete concedere che io dica il perchè ho fatto questo, forse non mi terrete matto. Franceschino dice che dica ciò che vuole. Turello dice : Io cognosco il pregio delle lire quaranta essere in- gordo, ma io vedendo che la morìa comincia, et io ammalato volendo una servente, in quel caso mi costerò' ogni dì quaranta fiorini e verrei a pagare in vinti dì quello che in uno anno. Et se caso avviene che io non abbia male e la moria cessi, io la manderò via, e non la terrò più, e questa è la cagione che tanto gli ho promesso. Franceschino dice: Io veggo che a questa parte hai ragione; or mi di' dell'altre cose. Turello risponde : Io compro ogni dì il pane fatto, né mai semola da me la fante aver non può. Appre.sso lino non compro, e come potrà filare quello che non ha? e se pur lei lo comprasse, facendo i miei fatti, non mi curo di ciò ch'ella si filerà. Franceschino dice: Ben hai ditto (1) Ms.: e la cenere, ma è un errore. DE COMPETENTI MISURA 171 delle tre parti: ormai di' dell'enterame e delle penne. Risponde Turello: Io non uso fare conviti, et se pure alcuno venisse a cena meco, mando al cuoco per un pollastro cotto, e quando compro tordi o uccelletti so che di quelli niuna cosa aver può. Franceschino be' '1 consente, ma ben si meraviglia della cenere, che non volse l'avesse. Turello disse: Io non posso fare senza fuoco. La fante, per aver molta cenere, a diletto mi consumere' le legna e potre' mi disfare ; ma non avendo la cenere non farà maggior fuoco che bisogni. Et a voi Franceschino dico : Sia l'omo esperto e savio quanto vuole, che sappia, come sa il matto, ove gli duole. Franceschino, ch'ha udite le belle ragioni, disse: Ornai ti trovo per savio, che hai rimediato alla malizia della fante. Né più a Turello disse di cosa facesse. 172 NOVELLE DI GIOVANNI SERCA.MBI y 48. [Triy., no 75]. DE VITUPERIO MULIERIS. Nel tempo che re Uberto di Napoli era signore di Prato, fu una donna de' Guazzalotti nomata madonna Cicogna, d'età d'anni vintotto, e maritata a uno ritagliatore di panni nomato Arrigo, la qual donna avea questa condizione che ogni persona vitupe- rava in presenza di donne e omini. E portava tanto alto il naso a guisa fa l'asino quando digrigna i denti avendo a^sitato l'orina, così questa madonna Cicogna facea, che tutto il paese gli putiva. E perch'era di buona casa, spesso dalli amici era invitata. Es- sendo a tali feste alcuna volta delti artifici et altre persone, a ognuno dava la sua, e pareagli ogni cosa potere fare facendo tanto delsio (1), ch'era un vitupero a vederla. Et il modo che madonna Cicogna tenea a vergognare altrui s'era che a tali feste, come uno pannaio se gli accostava, ella dicea : 0 tu mi putì d'olio, e torcea il viso col naso insieme. Et allo speciale dicea: Tu mi puti di mostarda. Et al mereiaio dicea: Tu mi puti di cuoio; et al calzolaio dicea: Tu mi puti di merda di cane, e simile dicea al coiaio. Al notaio dicea: Tu mi puti d'ongqsto. Al gentiluomo dicea: Tu mi puti di povero; e così a ogni persona dicea villania, e poche volte volea con altri a ballo entrare. Et era per Prato tanto sparta la vergogna che madonna Cicogna dicea alle persone, chè~a ogni persona era venuta in dispetto, ma per amore del padre e del marito, che erano di buona con- dizione, più volte gli sere' stato forbito la bocca, ma per loro si lassava. Et più volte gli fu detto per donne e per omini ch'ella facea male a dire villania d'ognuno. Ella rispondea: Come non si vergognano, putendo così, approssimarsi? vadanii_a,,stare_alla carogna e non mi s'accostino. E vedendo li giovani che non valea niente l'essergli ditto che s'astenesse di non dir loro vil- lania, pensonno più volte di non lassare per lo padre né per lo marito di forbirgli la bocca. E vedendo uno giovano speciale che battendola se ne potre' venire in nimistà, disse a' compagni: 0 veggiamo se ella se n'è romasa. Osserviamo a questa festa che si fa domenica, dove noi siamo stati invitati a servire, che ella vi de' essere, se non ci dirà nulla. Se non ci dirà nulla, non 4 (1) Cosi nel ma. DE VITUPERIO MULIERIS 17S bisogna che centra di lei si prenda vendetta, e se ella non se n'è romasa, lassate fare a me et io la pagherò per modo che tutti serete contenti. E '1 modo ch'io terrò a pagarla sera tale che fia vituperata, et allora vel dirò. Li compagni tutti disseno: Stiamo a vedere quel che a questa festa grande farà madonna Cicogna. Venuto il giorno della festa, la donna venuta, come se gli accostava alcuno, subito dicea: Va via, tu mi puti. Lo gio- vano speciale diliberò provare et andò presso a lei dicendo : Ma- donna, a qual taula volete esser posta? Madonna Cicogna disse: ^ Levatimi dinnanìT^ che tu mi puti di mostarda ; e torse il volto. Appresso vi venne uno giovano notaio e disse : Madonna Cicogna, dove volete che noi v'assettiamo a taula? Ella risponde: Tu mi infastidisci, tanto sai d'Qngosto. E così a uno a uno li svergo- ^ gnava e non valea niente perchè le altre donne gli dicessero : Cicogna, tu fai male a dire villania a' giovani servidori, et ogni persona ti pare che puta, guardate, et se non li vuoi tu vedere,^ lassali vedere a l'altre giovane, che non puonno esser servite per lo tuo vituperarli. Cicogna disse: Io vo' fare a modo mio e voi fate a vostro. Ristringendosi li giovani con quel giovane spe- ciale, il quale avea ditto che il giorno si provasse, disseno: Ora sappiamo comprendere costei non doversene mai romanere senza ^ colpo. Disse lo speciale: Lassate fare a me. Io so che d'omenica che viene mena uno suo fratello moglie, e sapete che noi siamo stati invitati a servire, et io so che madonna Cicogna ci de' es- sere capo-maestra, perocché io sento che si fa alquanti panni. E però allegramente state, che io la pagherò per tutte le volte. Li servidori contenti spettando che '1 giovano speciale li vendi- casse, venuto il lunedi, lo speciale ordinò maestrevolmente una vescica piena con assafetida pesta dentro, e quella fé' cucire per ^ modo in nella gamurrà al sarto di madonna Cicogna, in modo che accorgere non se potea, sotto il sedere. Et era fatta per tal modo, che quando si fusse posta la persona a sedere, la vescica pedea (1) e gittava della puzza dell'assafetida, e come si levava, la vescica si riempia di vento, e come sedea facea il simile, e ^ se cento volte si fusse posta a sedere tante volte are' paruto che pedesse e sempre spuzzava forte. Cucita che fue tal cosa secretamente, e venuta la domenica, dove madonna Cicogna fu con quelli panni, lo speciale giovano disse a' compagni servidori: (1) Nel ms. quasi sempre perdea, ma credo sia erroneo; di che potrà ca- pacitarsi chi esamini questo verbo tutte le volte che occorre nella novella. 174 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI Io andrò a madonna Cicogna e quello farò io, fate voi, e vo' che tutti veggiate il modo che io tengo. Li compagni dissero: E' mi piace, e con lui n'andonno. Lo speciale, essendo le donne rannate in via, e madonna Cicogna stava ritta per ricevere le donne, lo giovano speciale dice: 0 madonna Cicogna, noi vorremmo sa- pere da voi chi de' stare appresso alla sposa. Et ella dice : Deh sta in costà, che tu mi puti di mostarda. Lo speciale disse: Po- netevi a sedere e noi staremo tanto lungi che la nostra puzza non vi toccherà. Madonna Cicogna si puone a sedere a lato di alquante donne, et come s'è posta a sedere, la vescica fé' il moto \J del pedere forte con gran puzza, che tutte le donne et omini lo sentirò. Lo speciale disse: Madonna, voi putite per centomila privati; e turatosi il naso, fé' vista di partirsi. Le donne dissero i" O Cicogna, che diavolo mangiasti iersera, tanto puti? Ella dice: Voi siete state voi. E levatasi da lato a quelle donne, a lato ad altre si puose. E come si fu posta a sedere, eHa gittòun gran tuono con puzza. Uno de' giovani dice: MadonuEPCicogna, voi putite tanto che è troppo, turandosi il naso loro e le giovane che a lato gli erano a sedere. Madonna Cicogna, che sa che >/ non ha pedeato, dava la colpa all'altre giovane, e partendosi andava in nell'altra banca. Et i giovani, ammaestrati dallo spe- ciale, s'accostavano a lei, e come si vuolse ponere a sedere, lo .y culo gli peteggiò al modo usato con gran puzza, et per questo modo in via dalli uomini e dalle donne fu svergognata, dicendole V. tutte che a loro no s'accostasse. Madonna Cicogna, che è netta_ di tal fatto, facendo del cuore rocca, dicea: Deh, vacche che spuzzate come carogne, e volete dire che io sia quella che tale cose àhhia fatto. Li giovani diceano: Per certo, madonna Cicogna, voi siete quella che putite sopra tutte le cose puzzolenti. E stando per questo modo e venuta la sposa e messa in camera, essendovi molte gentili donne e lo speciale et alcuno giovano servidore, che andavano per vergognare madonna Cicogna, es- sendo la sposa in sul letto, madonna Cicogna si puose a sedere \/ appresso di lei. Lo culo gli zampogna con quella puzza. La sposa et le altre donne, mettendosi la mano al naso, disseno : Di vero. Cicogna, tu se' fracida dentro. Li giovani disseno: Ella ci ha at- tossecati di puzza. Madonna Cicogna si leva ritta dicendo: Deh, vacche, che quello debbo dire di voi dite di me. E di rabbia si V I puose a sedere in sulla cassa banca e fé' si grande lo__sshÌQ{ipa I con gran puzza, che li omini, che di fuora erano, disseno: Fi- stola te) turi ! Le donne e giovani, che in camera erano, di puzza \ DE VITUPERIO MULIERIS 175 si partirono di camera, quasi rivolti li stomachi, e si fenno re- care aceto e lavarsi le mani, la bocca e '1 naso, et simile la sposa di puzza venne quasi meno. Madonna Cicogna disse fra sé medesma: Che vorrà dir questo che io non fo il male et altri dice che io lo fo? E levatasi da sedere e venuta in sala, dove le donne e li omini diceno: Cicogna, o che diavolo hai tu in corpo, tanto puti?, ella disse: In verità io non hoe fatto niente e tal puzza non viene da me; e dato l'acqua alle mani e poste le donne a taula, li servidori attenti a madonna Cicogna per ver- gognarla, e poste tutte le taule delli omini e delle donne, salvo madonna Cicogna, che in pie d'una delle taule fu assettata. E come si puose a sedere, pedeò si forte, che tutti quelli ch'erano a taula, omini e donne, sentirò lo suono e la puzza, dicendo li giovani servidori: Ora potete comprendere, madonna Cicogna essere fracida. Le donne, che a lato gli erano, disseno: 0 tu ti parti, o noi non vogliamo stare a ricevere tale puzza. La sposa e suo frate, per non conturbare il convito, dissero a Cicogna che andasse a stare in camera, poich'olla sì putia. Cicogna isvergo- gnata si partio da taula e malinconosa in camera si puone a sedere. La vescica pedeò con gran puzza. Ella disse: 0 che vorrà dire questo? ora veggo che io sono quella che puto. E non sa- pendo che farsi, stava malinconosa essendosi più volte levatasi da sedere e posta, e sempre il culo gli pedea con quella puzza. Lo giovano speciale, che tutto sa, entrò incamera et disse: Ma- donna Cicogna, io cognosco il mal che avete, e di vero, se non prendete rimedio, voi siete a condizione di morte. Ma se volete che io di tal malattia vi guarisca, voi mi prometterete che tutti li panni che ora avete addosso mi darete, et io vi guarisco. Et anco voglio che mai a me né ad altro giovano non direte più che putano, altramente la vita vostra sera corta, e mentre che vivete a voi et altri puzzerete per modo, che neuno vi si vorrà accostare. Madonna Cicogna dice che è contenta di dargli tutti qua' panni, ma che lo giorno non potrà, ma ella glieli dare' la mattina vegnente. Lo giovano speciale fu contento et andonne in sala. Madonna Cicogna lo giorno malinconosa non appario là u' persona fusse. La notte, spogliatasi di tutti i vestimenti, la mattina allo speciale li mandò, e lui mandò a lei uno poco di lattovare, che prendesse, e preso mai tal puzza non sentio, e lo speciale quelle robe si godeo, nò ella mai villania ad altri disse. 176 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI (j\JO^\AA- J(Xrr '^T^-Co^ifi 49. tt^~^^ ^ [Triv., n" 76]. DE VITUPERIO FATTO PER STIPENDIARI. Nel tempo che la città d'Arezzo fu dalle genti guelfe e ghi- belline fatta mettere a saccomanno, in quella (1) città migliaia di omini di campagna si trovonno et in quella molto danno fenno, come di rubare e disfare case e masserizie per fuoco, in tanto che parea uno paese disfatto. Nondimeno delle donne di tal città si fé' quello strazio che di meretrici ; sì fenno peggio, che più di due mila donne vituperosamente funno vergognate, et in fra le altre (di che la nostra novella dichiarerà) si fu una giova na de' Boscoli nomata madonna Apollonia, moglie di Donato da Pietra- mala, d'età d'anni vintidue, assai bella e sollazzevole, la quale, essendo presa la terra e lei con più di cinquanta d'una contrada, le quali in una casa per lo remore s'erano redutte, funno da uno caporale di cento lancie prese. Le quali, com'è detto, funno svergognate, non guardando né giovana, né pulcella, né maritata né vedova che vi fusse, che tutte egualmente funno trattate. E perchè madonna Apollonia, come più atta e sollazze- vole, era più che l'altre adoperata, in tanto che ella contentissima gli parea ogni sera poter a dormire andare, e bene che il giorno avesse assai caminato, ancora la notte più miglia si dilettava di correre, parendogli leggieri tal fatica, stimando di tal fatto non averne riprensione dal marito né da' suoi parenti. E stando per tal modo, et Apollonia sollicitando di saziarsi dello appetito suo, fu per alcuno di mezzo trattato di fare accordo che la ditta compagnia prendesse dinari et la terra restituisse alti omini Aretini con tutte quelle donne aveano, e dopo tal pratica si con- chiuse l'accordo, dandogli tempo uno mese a ciascuna delle parti, cioè li Aretini aver dati dinari alla compagnia e la gente d'arme aver restituita la terra e le donne. E sentendo madonna Apol- lonia l'accordo fatto, cercò di fare come quell'omo, che avendo gran caldo di state pensò riponere in uno sopidjano tanto sole, che il verno n'avesse assai. E così pensò madonna Apollonia (1) Ms. : in nella quale. DE VITUPERIO FATTO PER STIPENDIARI 177 mettersi tanto in nella sua soppidiana, che quando sola si tro- vava col marito ne possa aver assai. E subito, sollicitando el j raccogliere, ogni di più di cinquanta persone ne riponea in nella | sua soppidiana, la quale tenea fra le coscie, in nel solaio di mezzo i alla banca forata, et acciò che per l'umido non si guastasse / volea che nel mezzo [gli fusse posto]. E per questo modo tutto quel mese, di dì e di notte, sollicitò il ricogliere. Ma che giova, j o madonna Apollonia, quello che ricolto avete, che dappoi arete / più freddo che dapprima ? Passato il mese e fatto il pagamento, ' la terra e le donne rendute, salvo alquante che di volontà n'an- darono con quelli che tenute le aveano, e tornato Donato, marito di madonna Apollonia in Arezzo, è andato alla sua casa, dove trovò la moglie tutta malinconosa. Lo marito dice: Or che vuol dire che ora che ti deveresti rallegrare 'del mio ritorno, e tu stai malinconosa? Rispuose madonna Apollonia: Or non debbo stare malinconosa, che dèi sapere che io debbo essere stata vitupe- rata a mal mio grato et sono ora qui che vorrei prima esser morta che qui fusse ? Lo marito dice: Tu dèi pensare che io tutto debbo sapere. E ben so che non è stato tua colpa, e pertanto prendi allegrezza, che ciò ch'hai fatto non t'è reputato a ver- gogna. Apollonia dice: Io lo credo, ma prima che io ad altro vegna vo' sapere dal prete se peccato no è. Lo marito disse: Va, confessalo e sappilo. Madonna Apollonia, andata al prete et dittogli la presura d'Arezzo et di lei e d'altre, lo prete, che tutto sapea, disse: Donna, tu non hai di questo peccato, ma tanto ti do di penitenzia che quello hai serbato ritegni, et di' una ave- t\ maria et assolvoti. La donna, inginocchiatasi al crocifisso, lodando \ Iddio che gl'avea in parte cavato la rabbia senza peccato e senza \ infamia del mondo, e tornata a casa del marito, trovò esser as- ^ soluta et così lieta rimase. RmiTR, NovtlU di G. Sercamli. 12 178 NOVELLE DI GIOVANNI SERGA.MBI 50. [Triv., n" 79]. DE BONA PROVIDENTIA GONTRA LOMIGIDA. Nel tempo che la nostra città di Lucca fu dalla tirannica ser- jvitù ile' Pisani liberata, di pochi mesi appresso, l'autore di questo libro fu con uno^suo zio, che avendo bisogno pér~alcune mer- canzie andare a Firenza, diliberonno portare certi drappi di Lucca d'alquanta valuta. E di quelli fenno (1) uno fardelletto et co' loro andòe uno giovano pratese, il quale in Lucca abitava. E perchè la spesa non fusse molta, diliberonno, andare a piedi e '1 fardello portare addosso, non avendo tra loro se non una lancia, e quella portava l'autore, avendo egli et li altri spada e coltello. E per questo modo uscinno di Lucca il martedì innanti il carnelevare. E come funno alla casa delliiSranci presso a Lucca a uno miglio, un fante assai male in arnese con una lancia e con un coltello li dimandò se andavano verso Pistoia. Loro sim- plicemente disseno : Sì. Lui disse in quanto fusse loro di piacere volentieri andere' con loro perchè non sapea la via, dicendo che più di dodici anni non l'avea fatta. L'autore e li altri senza so- spetto disseno che fusse lo ben venuto. E mossi insieme, anda- rono tanto, che [giunsero | a' eolli delle Bonne, là u' mal passo e scuro è sempre stato. E come quine presso funno arrivati, quello fante intrò iix novelle, e senza che neuno se n'accorgesse li ebbe condutti in uno pratello intorniato di boschi d'jtbievoli. Di che l'autore, ciò vedendo, pensando quel fante doverli tra- dire, subito la mano gli messe al collaretto et la punta della lancia messegli al petto dicendo allo zio et al pratese che la lancia e '1 coltello del fante prendessero. Coloro cosi fenno, te- nendolo sempre fermo, dicendogli: Se altri si scuopre, tu se' morto. E fatto prendere a quel fante il fardello in collo, usciti di quel pratello e venuti in sulla strada, tenendolo sempre diritto con runa mano e coll'altra la lancia alle reni, gU dissero che verso San Gennaio si riducesse, che di quine si vedea. Lo fante, di I (1) Ms.: fatto. DE BONA PROVIDENTIA CONTRA L'OMICIDA 179 paura tremando, non faciendo motto la via prese, e tanto an- donno che a San Gennaio la sera giunseno. Et essendo arrivati a casa di uno loro amico, il quale la notte li riceveo volentieri, dissongli (1) che quel fante alloggiasse in parte che senza saputa partire non si possa, e cosi fue fatto. La mezedima mattina le- vati, preseno una guida fine a Pescia, andando sempre tal fante con esso loro, avendogli ditto: Tu non dèi aver avuto a male quello che fatto t'abbiamo, perocché a loro parea che lui li do- vesse ingannare in tal luogo li avea condutti, sicché, se volseno vivere sicuri, non ne dovea prendere ammirazione. Lo fante di- mostrava che l'atto fatto gli fusse piaciuto. E giunti al borgo a Bugajio, là u' quel fante disse che più là andare non volea, e' fermossi a una taverna che si vendea vino. L'autore et i com- pagni andonno a desnare a l'albergo di Parasaco, dicendogli se •quel fante avesse mai veduto. Parasaco disse: Ieri mattina era qui et è di cattiva condizione. L'autore et compagni, che aveano udito dire a quel fante che più di dodici anni non era stato in nel paese, la novella del togliergli l'arme e del tenerlo a Parasaco disseno. Parasaco disse: Voi [ben] faceste, se non però che gli è di cattiva condizione. Desnato, caminaro a Pistoia e quine prenderono cavalli per andare più tosto, et a Firenza la sera giunseno. E giunti in Firenza, denno ordine di spacciarsi, e mentre che a Firenza stavano, lo vicario di Pistoia, sentendo alquanti 'micidi fatti in quelle parti, raunate tutte le circustanze e fatto la Gerbaia e' colli cercare, funno presi certi malandrini, fra' quali fu quello ditto di sopra. E fatto loro confessare il male, il sabato fuor di Bugano in sulla strada a un paro di forche ap- piccare li fé'. Et essendo l'autore e' compagni spacciati di Fi- renza, la domenica di carnelevare si partinno e verso Lucca ne vennero. Ma perchè '1 dì non era troppo grande e anco perchè li cavalli non erano molto forti, fu di necessità che a l'albergo di Parasaco la sera dimorassero, E come quine funno giunti, Parasaco disse se voleano vedere quel fante che con loro era venuto. Loro dissero: Non bisogna. Parasaco disse: Voi lo vedrete pure. E contò loro la novella com'erano stati appiccati sette di dodici ch'erano in compagnia, dicendo : Il modo che loro teneano si era che alcuni di loro andavano in quel di Lucca, et accom- pagnandosi con chi venia di qua, quando li aveano in luogo si- ^ (1) Ms. : dicendoli. 180 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI curo, li uccideano e rubavano, et così di qua là. E confessonna averne morti più di cinquanta e questa era la loro vita, dicendo: Voi fusto savi a tenere i modi che teneste. Et a loro parve che quelli li campassero (1), e d'allora in qua mai, come s'erano in camino, non preseno compagnia. La mattina all'uscire videno co- loro appiccati, ricognoscendo quel fante, e salvi a Lucca ritor- narono. (1) Ms. : quello la campasse. I DE DISONESTA JUVANA ET EQUALI CORRETIONE 181 51. [Trir., n" 80]. DE DISONESTA JUVANA ET EQUALI CORRETIONE. Nel. tempo che Lucca signoreggiava la vai di Nievole fu in nella terra di Pescia una giovana degli Orlandi nomata Fiorita, Vienna di uno terriere di Pescia nomato Rustico, il quale era si tiepido che non sapea dire né fare. Et la donna sua avea presp-iànto palmo, che a ogni persona dava il suo motto, e simile al marito, in tanto che Rustico non mangiava né bevea che non [gli] convenisse mangiare [e bere] a posta della moglie. E sopra tutte le donne di Pescia era motteggiera per la baldanza che preso avea contro lo marito, et non cercava a chi ella di- cesse villania, parendogli poter dire a fidanza. E tutte le più volte in ne' motti suoi dicea a femmina o omo : E' pare che abbi formiche in culo, et altri motti disonesti, nonché a femmina ma- ritata, ma a ogni fantesca. E più di quattro anni avea presa tal maniera di motteggiare; e stando per tal modo, un giorno che in Pescia si dovea fare una bella festa d'uno posdatino che preso avea una giovana di Lucca della casa de' Rosinperi, bella, alla quale festa funno invitati molti Lucchesi parenti della sposa et alquanti amici, che a Pescia colla sposa andare dovesseno, e di Pescia funno omini e donne in abbundanzia invitati, fra le quali fue Fiorita motteggiera. Et essendone colla sposa andate brigate a Pescia un giorno di maggio, quinc [fu] ricevuta onorevilmente con quelli omini e giovani di Lucca, fra' quali era uno giovano studiante in medicina nomato Federigo, giovano da ogni cosa, lui bello, schermidore, ballatore, buono sonatore e cantatore, lui atto a essere colle donne oneste onesto, colle sollazzevoli sollaciero, colle innamorate innamorato, colle motteggiere di motti gran maestro, e così in medicina cognosceva molto la pro- prietà dell'erbe e le loro virtù, e molte altre cose il ditto Fe- derigo sapea esercitare. E sposati, a casa dello sposo con tutte le brigate, le donne pesciatine et altre del paese onorevili la sposa ricevenno allegramente. Madonna Fiorita, che quine era, cominciò forte a dire: E' non mi pare che la sposa da Lucca .abbia il culo di quattro pezzi più che le pesciatine. Le donne, 182 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI che quine erano, diceiio: Deh, matta, sta cheta, non dire, non vedi tu quanti Lucchesi da hene sono venuti con lei? non fare con loro come se' usa di fare tra noi, che ti cognosciamo, forse non tei comporteranno. Fiorita dice: Deh andatevi a forbire il culo, et se vi rode vel grattate. Come ! Non si può dire a questi Lucchesi quello che alli altri? Ho io già ditto mia intenzione a' Fiorentini e ad altri, come non la direi a' Lucchesi? E non re- stando di dire male, presente la sposa e l'altre donne, in presente li omini e giovani di Lucca, in presente Federigo medico, questi (1) si pensò che Fiorita fusse qualche matta, e niente rispuose. E cavatosi li stivali e di nuovi panni ognuno fattosi bello, in casa dello sposo entrare, là u' molto confetto e vino si porse prima che l'ora del desnare fusse. E confortandosi alquanto, Fiorita di nuovo cominciò a dire: A me non pare che la sposa abbia il culo di quattro pezzi più di noi, perchè sia da Lucca, né anco questi Lucchesi che con lei sono venuti non sono per più savj ch'e' nostri. Anco mi paiono colali batanculi, che vedete quanti ne sono venuti dirieto a una che bastare' se fussero ismemorati, che io che sono pesciatina non vorrei che neuno di costoro m'ac- compagnasse, tanto mi paiono disutili. Le compagne diceano: Fiorita, tu parli male; or che puoi tu comprendere di loro fatti, come dici? Fiorita: Or non li cognosco, che mi paiano matti e non parlano? Coloro diceno: A questo puoi comprendere che sono savi, che non vogliono dimostrare male animo di tanta villania quanta hai ditta loro. Fiorita dice : Anco non ne sono andata che parrà loro peggio se io ne farò. Li Lucchesi, che tutto odono, parendo loro ricevere poco onore, diceano (2) fra loro : Costei non è matta, ma noi pensiamo, tanto arditamente parla della sposa e di noi (3), che veramente lei de' essere stata ammaestrata di dirci questa villania. Federigo, che tutto ha udito di loro e della sposa ch'era sua parente, disse a' compagni : Lassate fare a me che io la pagherò di quella moneta che cerca pagare noi. E su- bito se n'andò all'orto de' frati, e come maestro che cognoscea le erbe, prese una cipolla squilla e quella ne portò seco, e da uno speciale ebbe fior dì pietra, et accattato uno mortaiolo, et posto (i) Ms.: il quale. (2) Me.: dicendo. (3) Ms.: loro. DE DISONESTA JUVANA ET EQUALI CORRETIONE 183 molto sottile il fior di pietra, e cavato il succhio della cipolla, ^ mescolato ogni cosa insieme, se n'andò a casa dello sposo, là u' trovò !a sposa sua parente coll'altre donne in sala. E Fiorita gli dava sempre alcuni motti. E come Federigo fu venuto. Fiorita disse: 0 sposa, è questo di quelli saccienti assettaculo, che sono ^ venuti da Lucca in tua compagnia! La" sposa chéta. Le donne, che non l'aveano potuta rivolgere che male non dicesse, dissero a Federigo che non l'avesse a male, perochè la sua usanza è tale che a ogni persona dice villania. Federigo dice: Madonne, io me la cognobbi all'altra volta che io ci fui, e dirovvi che ogni volta ella mi vede dopo desnare ella ha si grande la rabbia, che non si fa se non isfregolare il culo e grattarselo, e questo addi- viene ogni volta che m'ha veduto; e pertanto non vi date ma- linconia e lassatela dire ciò ch'ella vuole. Fiorita, che ode dire che altra volta l'avea veduto, disse: Giammai non ti vidi. Fe- derigo dice : Voi dite bene a scusarvi im presenzia ora di costoro, ma elleno se ne accorgeranno bene se voi m'amate, quando di rabbia vi gratterete il culo. Fiorita, gettandogli un motto, disse: Non lasserò però che io non dica di voi il vero. Federigo chiamò la sposa in camera e disse: Tu hai veduto quanta villania questa matticciola ha ditto a te et a noi, e pertanto io la vo' pagare -- com'ella è degna. E però vieni qua; e menolla al luogo comune, dove Federigo col succhio della cipolla squilla e col fiore della pietra unse tutto '1 sedere di quel luogo, dicendole che guardasse che quine ella non si ponesse ella, ma con bel modo Fiorita vi conduca, là u' la faccia stare alquanto. E se ella dicesse che gli ponesse mente quello fusse che prudere la facesse, dille che vo- lentieri, e dimostrandole fare servigio, prendi questa pezza, colla quale Federigo avea strisciato la cipolla, fregandola forte, e cosi la lassa. La sposa, che udito s'avea a vergognare da Fiorita, disse al parente che tutto fare'. E venuto l'ora del desnare, desnarono^vantaggio, dando sempre Fiorita de' motti assai spia- ^ cevòlTaìla sposa et a' giovani da Lucca, e non valea perchè altri la riprendesse, ch'ella facea l'usanza sua ; e come ebbero desnato, le danze cominciarono, dove Fiorita si rascaldò forte, tra per lo cibo e vino preso e per li balli, che tutta sudava. Federigo, che s'era accorto ch'ella è forte riscaldata, dice alla sposa che meni in camera Fiorita. La sposa, che sa il modo, dice a Fiorita: 0 Fiorita, tu dèi sapere il modo della camera, che io vorrei alquanto fare mio agio. Fiorita dice: Andiamo, che anco io n'ho bisogno. Et entrate sole in camera e chiusa la camera. Fiorita, come 184 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI balda, subito alzatasi fine alla cintura, posesi (1) per prender suo agio a sedere al luogo comune, là u' molto vi steo, tanto cbe subito uno prudore grandissimo gli venne, dicendo alla sposa: Deh guarda se alcuna cosa vi fusse nata al culo. La sposa av- visata disse: Alquante bollicine (2), ma io penso che fregandole con uno pannicello se n'andranno. Fiorita dice: Deh spacciati. La sposa prese il panno che Federigo gli avea dato, e ìorte fre- gando, parendo a Fiorita migliorare, e come alquanto l'ebbe fre- gato, li stromenti comincianono a sonare. Fiorita dice: E' suona, andiamo a ballare. La sposa subito con Fiorita di camera usci- rono e preso Fiorita una danza, lo culo gli cominciò a prudere per tal modo, che a ogni passo vi si ponea la mano, e gratta- vaselo sì spesso che ogni donna che quine erano diceano: Fio- rita, e' pare che abbi al culo tal cosa che non puoi sostenere uno passo che la mano vi ti metti. Fiorita dicea: Io non so quello che m'ha intravenuto; e quanto più si grattava,^ tanto più le rodea. E non potendo stare al ballo, in sulle banche si fregolava, in tanto che le donne, ricordandosi di quello che Federigo l'avea ditto, disseno: 0 Fiorita, tu hai stamane molleggiato et ora veg- giamo che quello che disse Federigo è vero, che quando lo vedi hai sì grande la rabbia al culo che non puoi stare in posa. Fio- rita, che hae il dolore grande della rosa, non sapendo, stava grattandosi per modo che alcuna volta in presenzia d'altri si mettea la mano sotto i panni, credendo per quel modo la rosa mandarne, e niente gli valea. E per quel modo tutto il giorno, non che potesse motteggiare altri, ma ella non potea mangiare né bere né slare in posa, tanto era la rosa grande. E così steo tutto il di e la notte appresso. La mattina avendo simile rosa^ Federigo dice alla sposa che dica a Fiorita che se ella vuol gua- rire io la guarirò. La sposa dice a Fiorita il fatto. Fiorita, che le pare essere vituperata e non credendone mai guarire, disse : Io farò ciò che vorrà Federigo. Richiesta, in camera entrò colla sposa, G Fiorila dolendosi dell'accidente avuto, Federigo fece di- scostare la sposa alquanto e disse: 0 Fiorila, io voglio da le du' cose, se vuoi ch'io ti guarisca. Fiorita dice: Chiedi, e quesla rabbia mi leva dal culo. Federigo dice: Io voglio prima che alla sposa mai non dichi villania e che la legni per tua sorella e (1) Ms. : e postasi. (2) Ms.: bollxciore. DE DISONESTA JUVANA ET EQUALI CORRETIONE 185 ohe ti sia raccomandata ; appresso che mentre che io sto in Pescia avale, o altra volta che io rivenisse, sii contenta che con teco di nol!i mi goda. Et acciò che tu m'attegni la promessa, vo' che stanotte cominciamo. Io ti guarirò, che mai tal difetto più non ti verrà. Fiorita dice : Deh perchè non facciamo noi tal cosa di dì al presente, acciò che io potessi ballare e ricoprire la ver- gogna che ieri e oggi e sempre ho? Federigo, per farla più vi- tuperare, disse : Questa guarigione non si può fare se non di notte, e però ordina stasera io sia teco. E datole un bacio, Fiorita tutto promisse. Federigo la sera, fattogli uno unguento, la rabbia di fuori gli mandò via, e poi gli cavò in parte la rabbia dentro, e per questo modo quella che di motti credea vincere fu vinta, né mai alla sposa villania disse. 186 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI 52. il J?£yC^^^-diA^ ,1J , [Triv., no 81]. DE DEVOTIONE IN SANTO JULIANO. 0 Nel tempo che Pistoia era sottoposta alla città di Lucca, fu uno mercadante di panni di Pistoia nomato Castagna, il quale per sua devozione ogni mattino dicea uno paternostro et una avemaria per riverenzia di San Giuliano, acciò che Dio gli ap- parecchiasse per lo dì buono viaggio e per la notte buono al- bergo. E tale orazione non cessava di notte di dire e cosi la mattina. Et avendo il detto Castagna bisogno di comprare panni, diliberò andar verso Verona e fé' fare una lettera di molti fio- rini, che in Verona gli fusseno dati, et alquanti dinari per la spesa si raisse in borsa. Et un giorno del mese di febbraio di Pistoia con uno famiglio a cavallo si partio, avendo al famiglio dato la sua valigia di panni, e per l'alpe si raisse a caminare verso Bologna per andare a Verona. E quando Castagna fu giunto, lui e '1 fante, alla Sambuca, ivi (1) trovonno tre mascalzoni o vogliamo dire malandrini, li quali, come videno Castagna e '1 fa- miglio, stimonno quelli cavalli e roba essere loro. E fattosi ap- presso a Castagna, piacevolmente lo salutonno, domandandolo donde fusse e quale era il suo camino. Castagna dice: Da Pistoia sono e vo verso Bologna per andare a Verona. Li malandrini diceno : Se ti piacesse, noi verremmo volentieri teco, però che abbiamo andare a Bologna per alcune faccende. Castagna, che li vede, parendogli persona da bene et anco vedendo forte nie- vicare, disse: La vostra compagnia m'ù molto cara. E mossi, coloro comincionno a intrare in novelle con Castagna, dicendogli se lui facea lo giorno alcuno bene. "Castagna rispuose: Io ho sempre in uso di dire uno paternostro et una avamaria per amore di San Giuliano, acciò che Dio mi dia lo giorno buon viaggio e la noi te buono albergo. Coloro disseno : E noi dichiamo il vangelostro et tutta la quaresima, e siamo di sì buona pasta (1) Ms.: dove. DE DEVOTIONE IN SANTO JULIANO 187 che quello veggiamo non ci pare sia nostro se noi non l'abbiamo in mano,_ Castagna dice : Or cosi si vuol fare. E mentre che ca- miiiàno, i malandrini diceno tra loro: Oggi si parrà se costui ara buono viaggio, et anco come stasera troverà buono albergo, però che aveano intenzione di rubarlo e lassarlo in quella nieve. Et accostatisi a Castagna disseno : Deh, messere, diteci se mai v'avvenne che il dì che avete ditta l'orazione di Santo Giuliano se mai aveste mal viaggio e cattivo albergo. Castagna dice : Non mai. Li malandrini disseno tra loro : A uopo gli sarà venuta l'orazione prima che da noi si parta. E come funno presso al castello del vescovo di Bologna, in uno passo scuro, quasi l'ora di compieta, li malandrini denno di grappo alla briglia del ca- vallo di Castagna, dicendogli : Se ti muovi, se' morto. Lo fante di Castagna, che vede prendere il signore, dato delli sproni ai cavallo, subito si partio et al castello del vescovo si ridusse, non aspettando ne aitando il signore suo. Li malandrini dipuoseno Castagna dal cavallo et 1 dinari che addosso avea con tutti 1 panni, exce^to la camicia e la mutanda gli lassarono, e tutte le altre cose rubonno e quine in nella nieve, che nievicata era, et in quella che di continuo nievicava lo lassonno, dicendo: Egli si morrà da se medesimo, senza che noi l'uccidiamo. E parti- ronsi colle cose. Castagna, nudo rimase, la notte venuta, andava per la nieve tremando, facendo della bocca come fa la cicogna col becco. E quasi di freddo si moria, e più volte in nella nieve fii pir^aiffogare, ma pure la gioventù lo facea forte. Dando a caminare in qua et in là, senza che lui s'accorgesse arrivò al castello del vescovo, là u' il suo fante la sera era intrato. E non vedendo aperta la porta né casa di fuori, e nievicando forte e '1 freddo grande, non sapea che farsi, ma pure per non asside- rare andava intorno al castello, e veduto uno sporto di una casa, sotto il quale nieve non era, se non alcuna volta il vento ve ne mandava alquanta, essendovi un poco di paglia, pensò meglio quine stare, che in altro [luogo]. Posto che d'ogni lato male stasse, pur quine s'alloggiòe. Era quella casa del vescovo, in nella quale dentro vi tenea una gentile giovana nomata Divizia, la quale alcuna volta dava al vescovo consolazione. Et essendo la sera che Castagna era sotto il portico alloggiato venuto il vescovo in nel castello per voler con Divizia prendere piacere, avendo a lei fatto sentire la notte con lei volea dormire, subito Divizia fé' uno bagno apparecchiare, acciò che '1 vescovo e lei quine bagnare si potesseno, e fatto onorevilmente da cena de' buoni 188 NOVELLE DI aiOVANNI SERCAMBI capponi et altre vivande. E mentre che tale apparecchiamento la donna avea fatto, sopravvenne al vescovo una lettera, poi che la porta del castello fu serrata, che subito il vescovo fuora ca- valcasse per certi fatti di grande importanza; per la qual cosa il vescovo, montato a cavallo, uscio, et a Divizia mandò a dire che la sera nollo aspettasse, ma che altra volta verre'. Divizia, che ) avea apparecchiato il bagno dell'acqua calda e quello che tra / le gambe porta, fu malcontenta, dicendo alla fante : Poiché il vescovo non vi vene, almeno il bagno fatto lo vo' per me usare. E scesa la scala, è venuta in bottega, dove lo bagno era appa- recchiato, là dove era uno uscio che Divizia ne teneva le chiavi, perchè alcuna volta di notte il vescovo quine entrava. E stando in bottega. Divizia e la fante sentendo lamentare Castagna, il qual dicea: 0 Santo Giuliano, or sono queste le promesse che m'hai fatto, a dir che io abbia oggi avuto sì mal giorno e sta- notte malo albergo? Divizia, che questo ode, aperse l'uscio e disse alla fante : Sappi chi è quello che così si lamenta. Et preso un lume, uscio fuori e vide il giovano nudo. La fante il domanda; Castagna tutto racconta. La fante a Divizia lo dice. Divizia, che avea veduto il fante a entrare dentro, et avea sentito dire la it/ ruba, lo misse dentro e poi alla fante dice: Poiché '1 vescovo lìon ci de' stasera venire et io era molto bene apparecchiata, se ti piacesse questo giovano in iscambio del vescovo stanotte mi goda. La fante dice: A me pare l'abbi a fare. E subito ditto a Castagna che neuna malinconia abbia che ben sera di ogni cosa ristorato, e fattolo spogliare nudo. Castagna, che bellissimo era e la nieve l'avea fatto molto colorito, Divizia, che ha l'occhio alla parte che pensa inghiottire, sta contenta, vedendolo che di buona moneta la potea pagare. E stato alquanto in nel bagno, e fattosi venire panni orrevoli, lo vestio, ne molto steo a bada che cenaro di vantaggio a un grandissimo fuoco, e dappoi n'andarono a dormire, la u' Divizia si die piacere spessissimo volte, dicendo: Omai (ho| il nome mio avuto, divizia di quello che le donne desiderano. E venuto il giorno, la donna gli fé' trarre que' panni perché cognosciuti sarebbeno, dandogli di molti dinari et alcuna gonnella trista, dicendogli : Quando serai a Bologna, ti vesti ono- revilmente e comprati du' o tre cavalli, et se mai arrivi in questi paesi, l'albergo ti sera presto. Castagna la ringrazia di tutto che a lui fatto avea, e messelo per quello sportello. La mattina Ca- stagna per la porta entrò in nel castello, là u^ trovò il suo fa- DE DEVOTIONE IN SANTO JULIANO 189 miglio, e tratta (1) la valigia, de' panni suoi si vestio. E mentre che si vestia, per lo capitano della montagna di Bologna que' malandrini ne funno menati presi col cavallo di Castagna, co' panni et i dinari. E prima che di quine si partisse, li ditti ma- landrini a un paio di forche funno appiccati et a Castagna ren- duto tutte le sue cose. E montato a cavallo, fornio il suo camino, né mai lassò di dire il paternostro di San Giuliano. (1) Me.: fatta 190 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI 53. [Triv., no 82]. DE CRUDELTÀ MASSIMA. In nel tempo che messer Bernabò signoreggiava parte della Lombardia era uno cavalieri suo cortigiano nomato messer Stan- ghelino da Palù, il quale avendo d'una sua donna dal Fiesco nomata Elena quattro figliuoli, du' maschi e du' femmine, il mag- giore de' quali era d'età d'anni sette, e stando il ditto messer Stanghelino con gran piacere colla ditta madonna Elena, tenen- dosene contento quanto veruno altro gentilomo di Lombardia, amando questa sua donna sopra tutte le cose del mondo ; e come sempre la femmina sa prender al contrario, non potendo soste- nere il bene che la ditta madonna Elena avea, con atto di lus- suria si die ad amare uno giovano della terra sottoposto al ditto messer Stanghelino, in tanto che, non passando [molto tempo], la ditta madonna Elena il suo appetito con quel giovano fornio. E dimorando per tal maniera, la ditta donna non pensando [ciò che] per tal cagione ne dovea seguire, né anco non pensava che '1 marito di ciò accorgere si dovesse, di continuo quel gio- vano si tenea. Essendo alquanti mesi che messer Stanghelino non era in nelle sue parti stato, venendo a casa, dove la donna sua trovare credea, per prendersi con lei sollazzo, senza fare sentire la sua venuta si trovò in casa, et andato alla camera, trovò la donna sua con quel giovano in sul letto prendendosi piacere. E come messer Stanghelino vide tal cosa, fu lo più tristo omo diventato d'Italia, tanta malinconia al cuore gii venne, et non potendo la rabbia del dolore sofferire, subito con uno col- tello il ditto giovano uccise, e fatto confessare alla donna quanto tempo l'avea tenuto, ella per paura gli disse da quattro mesi era con lei giaciuto. Messer Stanghelino dice: Donna, tu m'hai fatto il più tristo omo che mai fusse di mio parentado, e quine u' io mi potea vantare, e già me n'era vantato, d'aver la più bella donna che persona di Lombardia, et io trovo d'avere la maggiore puttana che in Italia possa essere. Ma io ti pagherò di quella misura che hai pagato me. E fatto venir davanti a sé li quattro fanciulli, disse (1) : Or vedi, meretrice, che hai fatto, che fine a (1) Ms.: dicendo. DE CRUDELTÀ MASSIMA 191 qui questi fanciulli ho tenuti che fusseno miei figliuoli, ora per lo tuo vitupero tal credenza ho perduto e per miei no li vo' riputare. Et acciò che tu abbi del fallo commesso doppia pena, come ho ucciso colui che hai tenuto, cosi costoro in tua presenza uc- ciderò. La donna disse : Messere, tenete a certo li fanciulli esser vostri, e bene che io sia degna d'ogni male, vi prego che a co- testi fanciulli male non facciate, che vostri sono. Lo marito dice: Donna, tu mi potresti assai dire, che mentre che questi fanciulli io uccidessi, sempre arei innante il vitupero che fatto m'hai ; e però vo' che tu n'abbi all'anima la pena per lo tuo malvagio fallo. La donna piangendo dicea : Deh, messere, piacciavi a' fan- ciulli vostri la vita salvare e me uccidete, che degna ne sono. Messer Stanghelino le disse: Tu mi potresti dire assai, e però vo' che senti di quel dolore che le tue pari meretrici meritano. E presa la spada, a tutti e quattro i fanciulli, in presenzia della madre, tagliò la testa, e poi, non forbendola, alla moglie per lo petto diede e dall'altra parti la passò e morta cadde. E come ebbe ciò fatto, fece la donna et i fanciulli, in una fossa sotterrare e quello giovano a cui lo die a mangiare, e partitosi da Palìie in corte di messer Bernabò ritornò. E sapendo quello che fatto avea, gli fu per messer Bernabò ditto perchè almeno non avea campato li fanciulli. Rispuose le parole che alla moglie ditte avea. E ciò stante che fatto l'avesse, non fu però pregiato l'avere ucciso i figliuoli, ma la cagione assegnata fue assai buona ca- gione da consentirgli quello avea fatto fosse stato il meglio che averli riserbati. Et per questo modo quella cattiva di Elena per le sue cattività fé' cattivi li suoi figliuoli e l'amante e sé. 192 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBl 54. [Triv., no 83]. DE BONA PROVIDENZA. L'anno del 1350, al tempo del perdono di Roma, fu in nelle parti presso a Roma, a uno castello nomato Montalto, uno ma- landrino omicidiario di cattiva condizione nomato Suffllello, il quale avea per mal fare da venti compagni atti a rubare e fare micidio stando alla strada, et qual persona passava, che forte e bene accompagnata non fusse, il detto Suffllello con compagni lo rubava, e condutti a uno balzo d'una montagna giù li gittava. E questa vita teneano di continuo. Et essendo alquanto tempo passato del perdono, e molti pellegrini di più luoghi mossi et andati a Roma e sempre di dì in dì assai ne giungeano, avvenne che nel mese di maggio uno gentile omo francioso nomato Io- conte d'Artoi, con una sua donna assai giovana nomata madonna Bianca, con circa dodici compagni a cavallo, arrivonno appresso al castello di Montalto, là dove Suffllello malandrino con compagni stavano, et vedendo che '1 ditto conte colla compagnia erano presso a uno mal passo, pensando doverli prendere, subito in agguato si puosero. E come il conte d'Artoi giunse colla sua donna e colla brigata al mal passo, scopertisi quelli malandrini, colla lancia in mano assalirono il ditto conte et i suoi, percoten- done alcuno. La donna del conte, vedendo il conte essere assalito et alcuni lor famigli andati a terra de' cavalli, non sapendo che fare, sopravvenne Suffllello, capo di quelli malandrini, e col polso della lancia in nel fianco a madonna Bianca percosse per sì gran forza, che del cavallo la fé' cadere, e presola per le braccia, su per la montagna la conduce, dicendo alla sua brigata che faccino che sieno morti o presi, e che i cavalli e li arnesi ru- bino. Li malandrini combattendo valentemente, lo conte coi suoi difendendosi vigorosamente con quella poca d'armadura che aveano, e fatto risistenza alquanto, lo conte, vedendo li suoi a mal partito, e già più che la metà presi e li altri a quelle mene, diliberò di fuggire, perchè buon cavallo si sentia, dicendo alti altri suoi: Campate; e dato di sproni al cavallo, si dirizzò verso una terra, che quine era presso a uno miglio, e tanto camino che là giunse, dove trovò alquanta brigata da cavallo e da pie, li quali quine erano venuti per tenere quel posto securo, che i DE BONA PROVIDENZA 193 pellegrini né fusseno morti nò rubati da Suffilello, né da altri. Veduta (1) la brigata, narrato quello gli era stato fatto^ subito il capitano fé' apparecchiare le sue brigate; e mentre che il conte camina et che le brigate s'apparecchiavano, Suffllello avea condutta madonna Bianca in sulla sommità del monte a quel balzo dov'era sua usanza di gittare le persone che avea rubate, acciò di loro mai niente si potesse sapere. E quando quine l'ebbe condutta, vedendogli una bella palandra indosso, disse: Donna, ^ cavati cotesta palandra, che vo' che una mia fante la goda. La donna per paura la palandra si spogliò e rimase in una bella ganaurra, alla quale avea appiccata una borsa, in nella quale ^ avia franchi trecento d'oro. Suffllello, missovi la mano, quella gli tolse, et in nella scarsella si misse e poi disse : E cotesta ga- murra ti cava, che similmente per la fante mia la voglio. La contessa disse : Per Dio e per san Piero, non voler che io nuda e senza gamurra vada. Lo malandrino, desideroso d'averla, disse : Se non te la spogli, io t'uccido. La contessa, piangendo, la gamurra si spogliò. E rimase la contessa in uno piljccione bellissimo di ^ dossi di,jvaio. Lo malandrino, che quello ha veduto, disse: Quello a me sera molto utile a tenermelo di notte addosso in questi boschi, e disse : Subito cotesto piliccione ti spoglia, che io lo vo' per me. La contessa, che non può fare altro, dice : Piacciati per Dio e per san Piero che almeno, poiché hai aute l'altre cose, che questo mi lassi, acciocché io in camicia, che non si conviene a donna andare, io non vada. Lo malandrino superbo con mi- nacele gliel fa cavare. E rimasa la contessa tremando in una camicia sottilissima, in tanto che quasi si scorgevano le carni di lei, tanto quella camicia sottile e bianca era, e non volendola perdere, disse: Cotesta camicia ti cava, che per me la voglio. La contessa, lagrimando amaramente, disse inginocchiandosi e colle braccia facendo croce : Io ti prego che nuda non vogli che la contessa d'Artoi in istrani paesi vada, e per quello Iddio e per san Piero ti prometto che tutto ciò che fatto m'hai io tei perdono. Lo malandrino dispietato gli disse : Sai quello che io ti dico; fa che subito cotesta camicia ti cavi e pensa come cavata l'arai io ti gitterò giù da questo balzo, u' mai camicia né panni non ti bisognerà. La contessa, che ciò ha udito, ricordatasi di quello che Dio disse, aiutati che io_t'aiuterò, facendosi in nel cuore franca, disse : Poiché tu mi de' gittare, e veggo (2) che camicia (1) Ms. : vede. (2) Ms. : voglio. Rkkisb, XoveìU di G. Sercambi. 13 194 NOVELLE DI GIOVANNI SERGAMBI né altro panno m'è più necessario, tosto me la vo' cavare, ma ben ti prego che almeno fine che cavata io ne l'arò non vogli vedere la vergogna mia. Lo malandrino disse: Cotesto farò io, che la tua vergogna non vo' vedere, ma si l'utile mio. E voltosi verso il balzo, la contessa, come volto il vide, colle mani in nelle reni lo percosse e giù dal balzo lo fé' cadere. Era questo balzo più di cinquecento braccia d'altezza, senza alcuno ritenimento. Suffllello malandrino tutto sfracellò. La donna loda Iddio e pre- gato che ri Irò vi vivo il suo marito messer lo conte d'Artoi, com'ella ha morto il traditore; e mentre che la contessa tenea col malandrino la pratica, lo capitano delle genti col conte ven- nero al luogo dove la brigata del conte avea gran pezzo soste- nuto e di poco che '1 conte ritornò erano stati presi né anco dal luogo partiti non s'erano, ma già le mani aveano legate a quelli del conte e cominciato a montare la costa. E sopragiun- gendo '1 capitano e '1 conte, non potendo li malandrini fuggire, tutti funno presi et i legati funno sciolti. E non vedendovi il capo loro, cioè Suffllello, disse il capitano che n'era. Coloro dis- seno: Noi non sappiamo che se ne sia, ma tanto vedemmo che su per lo monte con una donna n'andava. Lo capitano e '1 conte subito montavano la montagna per trovar lo capo de' malandrini. E '1 conte pregava Iddio che così come aveano presi li malfattori, cosi prendino l'altro e la contessa ritrovi. E cavalcati di trotto, giunseno al balzo, dove trovonno la contessa. La contessa, ch'era in camicia per volersi vestire, contò (i) la novella. Lo capitano quelli malandrini appiccare fece in presenzia del conte. Il conte, che si vede vendicato, dice al capitano che quel capo de' ma- landrini avea alla donna tolto trecento franchi d'oro e quelli in nella scarsella se li avea messi, et che lo pregava, per lo servigio fatto, faccia quelli d'avere e suoi siano, e che se mai in nelle sue parti capitasse, che a lui fare' de' be' doni. Lo capitano, che avea desiderio d'appiccare il capo di quelli che appiccati avea, in nel fondo del bosco fé' andare, e trovarono Suffllello con più di cinquanta che morti n'avea. Fu condutto alle forche et quine appiccato in mezzo delli altri, et i franchi trecento riceuio, an- donno dal conte, et accompagnatolo tutto quel terreno, lo racco- mandò a Dio. Lo conte e la contessa giunti a Roma e confessato la contessa la morte del malandrino, liberamente assoluta fu, e ritornati in loro paesi, si goderono li lor di. (1) Ms.: contato. DE BONA FORTUNA IN AYERSITATE 195 55. [Triv., n» 84]. DE BONA FORTUNA IN AYERSITATE. Nel jempo che fra Merlale condusse e fecesi capo delle parti ^ e compagnie che in Italia si facessero, fu uno giovano di Pavia nomato Santo, nato di buone genti, il quale, piacendogli esser più omo di compagnia che prete (1) né altro mercadante, si misse in nella compagnia di fra Moriale, et essendovi stato alquanto tempo^ et avea seco una somma di fiorini trecento, diliberò della ditta compagnia uscire per du' rispetti. L'uno fu perchè gli parea che a lui fusse peccato, l'altro perchè al corpo era pericolo. Et uno giorno si partio da Napoli tutto solo a pie con una lancia et un coltello, e camino verso Salerno , e da Salerno si mosse per andare a Reggio, dove ora pensiamo d'andare, per poter al - porto d'Ancona entrare in mare e caminare a Pavia. Et essendo il preditto Santo arrivato in uno bosco assai folto d' arbori , si scontrò in due malandrini, li quali, come videro il ditto Santo solo, lui assalirono. Santo, difendendosi meglio poteo, percosse l'uno di que' malandrini alquanto colla lancia nel braccio ritto ; l'altro percosse il ditto Santo per modo, che la lancia di mano gli cadde. E cadutogli la lancia, il ditto Santo fu preso e rubato di fiorini quattrocento e tutti i panni, e '1 lassaro legato a uno arboro in camicia et andaro (2) via. Santo, che si vede legato a quell'ar- boro, stima per certo quine dover morire, raccomandandosi a Dio. I malandrini lesti caminarono a una fontanella, che non molto lungi era dal luogo, e quine messi a posare partendo i fiorini rubati, e perchè quello eh' era stato ferito in nel braccio non potea (3) portare la lancia, tra via l'avea lassata, e fattosi il braccio fasciare acciò che il sangue restasse. E mentre che costoro sta- vano in tal maniera, sopravvenne un altro malandrino al luogo dov' era Santo legato. Santo, come lo vede, se gli raccomanda. Lo malandrino dice: Che vuol dir questo? Santo dice: Io sono stato rubato da du' malandrini, che ora mi trovonno, et hannomi (1) Cosi nel ms. (2) Ms.: andatosi. (3) Ms.: potendo. 196 NOVELLE DI GIOVANNI SERGAMBI tolto quattrocento fiorini et i panni, e cosi legato mi hanno lassato. Lo malandrino dice: Or qui mi fusse io trovato, avrei la parte mia di quello t'hanno rubato. Santo dice: Se tu mi vuoi disle- gare, io mi penso ritrovarli , se meco vorrai venire , e di tutto ciò che io guadagnerò la metà vo' che sia tua , l'altra mia. Lo malandrino disse che era contento; e discioltolo, insieme cami- naro, prendendo Santo la sua lancia. E come andati furono al- quanto, trovonno la lancia di quello ch'era stato ferito che las- sata l'avea, e subito [conobbero] al sangue che andava versando che via i malandrini aveano fatto. E seguendo la traccia del sangue, alla fontana dov'erano li malandrini arrivonno, e subito Santo, che vigoroso era e volontaroso di vendicarsi di quello gli era stato fatto, per riavere il suo, disse al compagno: Andiamo loro addosso, e prima che loro possano prendere riparo, colla lancia li percotiamo, e spero, se sarai valente, noi li prenderemo, o ve- ramente li uccideremo, e poi la roba partiremo. Lo malandrino disse, che francamente li percoterà, e mossi, colle lancio basse, sopra de du'malandrini giunsero. Santo colla lancia percosse l'uno de' malandrini , che non era ferito , e passatolo dall' altro lato, morto cadde. Poi Santo e '1 compagno si cariconno addosso al malandrino ferito, il quale aitare non si pò tea. Subito l'ebbero morto, e cercato gli trovarono li fiorini quattrocento, che a Santo aveano tolto, e trecento fiorini aveano oltre quelli, che per lo simile modo rubati aveano, con alcuno gioiello di valuta di fio- rini dieci. E rivestitosi Santo de' suoi panni , tenendo sempre i dinari appresso, disse, colla lancia in mano, al compagno ma- landrino: Ora partiamo quello che guadagnato abbiamo; et in- nomerati fiorini quattrocento, disse : Questo è il mio capitale. E poi delti altri fiorini trecento fece du' parti, dicendo al malandrino: Questa parte della somma de' fiorini trecento è tua e quest'altra parte è mia, e sono contento che tutti li panni che costoro hanno con ogni loro cosa sia tua, e li gioielli siano miei. Lo malandrino dice: Or bene tu hai partito l'una somma di dinari, ora parti l'altra. Santo disse: Tu sai che io ti dissi che di quello ch'io guadagnerò aresti la metà, e però questo è '1 mio capitale e di f[uesto non dèi avere nulla. Lo guadagno è partito come io ti pro- misi e fustino contento; e se in caso che contento non fussi, puoni giù cotesti dinari et io metterò li miei e quelli ho gua- dagnati, e tra te e me la facciamo. Lo malandrino, avendo paura, quelli si tolse, e Santo se n'andò al suo viaggio; e per questo modo quelli che crcdeano rubare funno rubati e morti. DE MAGNANIMITATE MULIERIS ET BONA VENTURA JUVANI 197 56. [Triv., no 85]. ^ DE MAGNANIMITATE MULIERIS ET BONA VENTURA JUVANI. Nel tempo che re Don Alfonso, re di Spagna, regnava, un mer- ^ cadante di Barcellona chiamato Giandro, omo ricchissimo, venendo a morte, lassò du' suoi figliuoli, il maggiore dì anni diciassette, l'altro di quindici, di più di cinquantamila fiorini ricchi. Morto il ditto Giandro, rimasi li figliuoli, lo maggiore nomato Passavanti, il minore Veglio, intesi a godere et spendere in desnari e cene, ^ bagordare per amor di donna , e tutte cose facendo , che si ri- y chiede a dover consumare, non guardando che né come, e non mancando lo spendere senza alcuno guadagno, dopo non molti anni la roba lassata loro dal padre mancò (1), in tanto che alcune volte, non avendo di che, senza cena se n'andavano a dormire. E quale più era stato co' loro aitare loro consumare la roba, quegli più si f uggia. E vedendo Passavanti che di loro era fatto strazio e beffe, et anco perchè niente aveano di mobile, d'onde potessero la loro vita sostentare, diliberonno andare in Ispagna, là u' pensonno aver qualche avviamento. [Passavanti] dicendo a Veglio sua intenzione. Veglio dice che gli piacea ; e fatto dinari d'alquante loro massarizie, si partirono di Barcellona et in Ispagna caminano. Et arrivati in Sibilla, quine si concionno con alcuno raercadante, con dover aver certa parte di guadagno, e non molto tempo stero che più di vintimila fiorini ebbero guadagnato, di -^ che Passavanti disse al fratello : Io voglio che tu ne vadi in Bar- cellona con questi dinari e di quelle cose che vendute abbiamo ricompera , et intendi alla mercanzia , acciò che noi possiamo ritornare in nello onore che nostro padre ci lassò. Veglio disse ch'era contento d'andare. Passavanti rimane in Ispagna. Era questo Passavanti bellissimo quanto neuno che in Sibilla fusse e con questo era piacevole oltre misura e savio. E dimorando Passa- vanti in Ispagna, ogni di in Barcellona rimettea dinari. Veglio, che ritornato era , intendeva a godere ritrovando di quelli che fanno a aitare consumare li primi dinari, et non avendo freno (1) Ms. : mancando. 198 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI allo spendere , de' dinari portati gran parte n' avea consumati^ sempre sperando che Passa vanti ne li rimettesse, et aveanegli rimissi più di diecimila oltra li primi. E mentre clie Passavanti dimorava in Ispagna , si mosse guerra tra lo re Don Alfonso e lo re Celletto di Granata, per la qual guerra i guadagni che Pas- savanti facea funno perduti et in sul capitale si vivea, spettando che l'accordo si facesse, avendo sempre speranza, quando avesse consumato quello avea, ritornare in Barcellona in su quello che Veglio n'avea portato et su quelli che mandati gli avea. 0 Pas- savanti che pensi poter tornare in Barcellona a quei dinari, certo veruno ve ne troverai per te, poiché Veglio n'avea pochi a con- sumare! E durando la guerra tra que' du' re, e non potendo ve- nire a pace, per alcuni mezzani [fu] cercato l'accordo, e non trovandolo se non con patto che lo re Don Alfonso desse Marzia, sua figliuola bellissima di anni quindici, per moglie a re Celletto, il quale era pagano e vecchio di sessant'anni, et altramente tal pace fare non si potea, e lo re di Spagna vedendo che la pace fare non si potea are' consentito per poter aver pace di primo tratto; ma per non vituperarsi , pensò di farlo assentire a Marzia sua figliuola, dicendole che pace fiare non si può se ella non sia con- tenta d'essere sua moglie , et acconsentendo la pace sare' fatta. Marzia, che ode quello che udire non volea, disse : Padre, della pace fate come vi pare, di me fate quello che pare a me, e di tal marito non mi ragionate. Lo re, isdegnandosi contro la fi- gliuola , minacciandola, se non farà a suo senno, che al tutto è disposto che moglie sia del re Celletto, Marzia donzella al padre niente risponde e pensa fuggire tale marito. E subito a uno ca- valieri del reame, il quale l'avea più tempo amata, nomato mes- sere Aman , narrò quello che il padre di lei fare volea , dicen- dogli che se lui può trovare modo di essere in corte di Roma per fare la dispensazione tra sé e lui (perchè era il suo cusino) che altri che lui non l'ara. Messere Aman contento disse: Io sono presto. Marzia disse: A queste cose |«j vuole nuovo ordine, acciò che il mio padre isforzatamente non me ne mandasse in Granata, E' sere' di bisogno, poiché il vescovo di jTotedo (1) è morto, che quelli colonaci facesseno elezione di me, et io a modo di vescovo a Roma caminerò, e voi verrete meco e fare' mi chia- mare il vescovo Marsilio. Messer Aman dice: Voi avete ben pen- (1) Ms.: Tollelta. {/iatJ- na, DE MAGNANIMITATE MULIERIS ET BONA VENTURA JUVANI 199 sato et io arò subito le voci, e voi v'apparecchiate di quelle cose che vi piace e dinari da spendere. E subito camino in Toledo e da' calonaci ebbe che Marsilio fusse vescovo, dicendo questo Mar- silio essere suo nipote. Fatta la relazione e le carte , ritornato raesser Aman in Sibilla et Marzia apparecchiandosi per poter caminare, mentre che tale apparecchiamento si facea, vennero lettere per fante proprio a Barcellona a Passavanti, come Veglio suo frate, avendo consumato ogni sua cosa, per disperazione una sera con una fune s'appiccò e morto sarebbe, se non che la fante di casa gridando, fu dalla morte campato. La signoria, ciò sen- tendo. Veglio prender hanno fatto, e se non eh' era d'antico pa- rentado, l'arenno appiccato , ma per amore de' parenti la forca gli levarono et a perpetua carcere [fu] condannato. Passavanti, che ha inteso come il fratello avea tutto il tesoro consumato e per disperazione volutosi appiccare et esser condannato a per- petua carcere, diliberò in Ispagna più non stare, con intenzione che se trova la cosa del fratello come la lettera dice, lui dadd| vero con uno laccio appiccarsi per la gola in luogo che da altri aitato non potea essere. E con tal diliberazione fé' dinari di tutto ciò che in Sibilla avea, et missesi (i) in punto per caminare di quine a tre dì. Marzia donzella, fatta vescovo e vestita a modo di vescovo, volse che alquanti calonaci di Toledo seco andassero e ^ìttff^olte valigie di panni , dinari e gioielli , apparecchiata molta famiglia, a cavallo secretamente (2) di Sibilla si partio, lo giorno innanti che Passavanti si movesse, venendo verso le parti di Italia, senza che re Don Alfonso niente sapesse né altri , se non messer Aman, a cui la giovana s'era allargata. Passavanti, che ha tutto raccolto, si mosse a cavallo, e tanto'caminò, facendo buona giornata, che giunse dove il vescovo nuovo Marsilio era arrivato, il quale erasi posato in uno albergo con tutta sua bri- gata, là u' Passavanti arrivò. E come fu in nella sala dove lo vescovo era, subito Passavanti dal vescovo fu cognosciuto perchè più volte l'aveva veduto. E dimostratosi di non averlo mai ve- duto, lo domandò d'onde fusse e quale era il suo camino. Passa- vanti disse : Io sono di Barcellona et quine vo' ire, e sono stato gran tempo in Sibilla, dove ora è guerra grande, et pace fare non si puòe se il re Don Alfonso non dà Marzia donzella per moglie z,— \y (1) Ms.: messosi. (2) Ms. : stretamente. 200 NOVELLE DI GIOVANNI SERGAMBI a re Celletto di Granata. Et pare che la fanciulla non sia stata contenta, e dove si sia andata lo re suo padre non sa, et ha fatto cercare e cerca tutta la Spagna per lei, e dicesi che ella n'ha V portato di valsente più di centomila doble e molti gioielli. Lo vescovo dice: Io voglio che tu stii mèco,""e vo' che tu sii mio spenditore. Passavanti dice che non può, perocché in Barcellona gli conviene andare per trarre uno suo fratello di prigione, che è condannato a perpetuo carcere. Lo vescovo dice: Tu verrai meco a Roma e poi faremo il camino d'Aragona et aiuterotti (1) cavare il tuo fratello di prigione. Passavanti, udendo questo, steo contento, e fatto tesorieri e spenditore, caminano più giorni. Av- venne una sera che '1 vescovo colla brigata capitonno in una ^■> V ,villa, in nella quale altro che un albergo era, in nel quale erano capitati molti altri forestieri. Non di meno una cameretta per lo ^- vescovo con uno letto di cortina fornito et altre cose orrevoli fu trovato, e per li altri assai picciolissima cosa, che la maggior parte, cosi calonaci come altri, in nelle stalle et anco stretti • dormire potranno. La cena orrevole, [fu] messo il vescovo a letto e l'altra brigata, salvo Passavanti, il quale in sala coll'oste era stato per fare il conto e pagare, acciò che la mattina caminare di buon'ora si possa. E pagato ch'ebbe, disse : U' dormo io ? L'oste disse: In verità e' non c'è luogo veruno, che tutte le camere sono piene, e vedi che la mia donna e tutta la famiglia conviene in sala stasera dormire; ma tu puoi fare bene; io ti darò uno jgiu- «/ maccio con una carpita et in camera del vescovo in sul solaio ti corca et altro migliore luogo non ci veggio. Dice Passavanti : Come ! non hai tu veduto che i calonaci non ci sono voluti stare? L'oste disse : Deh fa quello ti dico ; noi vel metteremo per modo che '1 vescovo non lo sentiràe. Passavanti dice: Io sono contento, et acconcionno il letto. L'oste di camera uscio et a dormire si puose. Passavanti piano si misse in su quello lettuccio. Lo vescovo, che tutto ha sentito , avendo grande allegrezza di tal ventura, piano chiamò Passavanti dicendogli che in nel letto, dove lui era, entrasse. Passavanti disse: Io sto bene. Lo vescovo disse: Io tei comando che qui entri. Passavanti, per ubbidire, in nel letto entrò. Lo vescovo disse: Passavanti, metti qua la mano. E Pas- savanti la mano distende. Lo vescovo la mano prendeo et in sul ^ petto se la puone. Passavanti, che trova a modo di du' meluzze. (1) Ms.: conteroti. DE MAGNANIMITATE MULIERIS ET BONA VENTURA JUVANI 201 disse: Che vuol dire questo? Lo vescovo dice: Passavanti, sappi che io sono Marzia, figliuola di re Don Alfonso. E dicoti, se vorrai, altri che tu non sera mio marito, perocché come ti vidi tanto mi se' piaciuto, che amore m'ha stretta a perfettamente amarti. E non dubitare che di tutte tue avversitadi ti ristorerò, et acciò che vegghi che ciò sia vero, in fine arale vo' che l'anello mi metti. E trattasi l'anello vescovale di dito, a Passavanti lo die, e lui la sposò, e poi si preseno diletto ; e fu tanto il piacere che Marzia con Passavanti la notte si denno, che Marzia disse a Passavanti che ancora lo di seguente apparecchiasse in quel luogo, e la notte similmente dormisse insieme, similmente come fatto aveano. Passavanti, levatosi la mattina et all'oste ditto che ap- parecchiasse, dicendo alla brigata : Il vescovo per oggi caminare non vuole; così ei fé' come è ordinato, e la notte similmente pia- cere si denno e poi [si] denno a caminare tanto, che a Roma giunsero. E fatto fare la imbasciata al santo padre di volere par- lare, lo papa contento, il vescovo andò (1) solo con messer Aman e con Passavanti dicendo : Padre santo, posto che voi mi veg- ghiate vestito come vescovo, questo ho fatto perchè altramente a voi non arei potuto venire, e per tanto e l'elezione e la veste è stato cagione che qui sono. E però sappiate che io sono Marzia figliuola del re Don Alfonso, re di Spagna, il quale volea che a uno che Cristo non adora mi maritassi , dando nome che la pace fare non si potea; sì che io, vedendo che a uno Saracino e vec- chio di sessant'anni maritare mi volea, diliberai che voi mi deste quello che a me è di sommo piacere, il quale meco ho condutto. E quello voglio et voi prego che in luogo di mio padre mi te- gnate il dito, e lui, che qui presente è, sia contento che io sua sposa sia. Messer Aman, che sta colle orecchie levate, presto a dir sì , spetta pur che '1 papa lo domandi. Era questo messer Aman di anni quaranta e più et assai disutile della persona. Ve- duto il papa la savia domanda e '1 savio modo preso, disse : Et io son contento di tenerti il dito, ma non con cotesto abito, che licito non sere'. Marzia, ch'era ita provveduta, disse: Sicuro, padre, voi dite il vero, che in sì fatta veste maritaggio non si de' fare. E trattasela, rimase in uija palandra dorata, che parea una rosa, in tanto che '1 papa disse: Se al papa fusse licito di prender moglie , d' altri che mia non saresti. E preso il dito a (1) Ms.: andato. 202 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI Marzia, le disse : Eleggi, e Marzia disse : Costui è mio cugino, e benché a siffatte cose si sia trovato, io eleggo Passavanti. Il papa, che Passavanti ha veduto, disse : Donna, né mica se' matta aver- telo scielto bello come tu bella se'. Passavanti le misse l'anello; il papa li benedisse dicendo loro : Crescite et multiplicate il vo- stro seme. E prima che di quine Marzia si partisse, ordinò che '1 papa mandasse in aiuto a re Don Alfonso duemila cavalieri, de' quali, per ricompensazione che messer Amari non avea auto Marzia , lo fé' capitano di que' duemila cavalieri. E simile ebbe lettere dal santo padre che lo re Don Alfonso fosse contento di quello che Marzia fatto avea. Appresso fé' al signor di Barcel- lona scrivere e comandare che Veglio , fratello di Passavanti, fusse delle prigioni di[assato, e tutte le ditte lettere funno os- servate e messer Aman.^con que' duemila cavalieri e con Passa- vanti, mosse, e con que' duemila cavalieri e con Passavanti e con Marzia in Ispagna giunsero. E giunti, colle brigate cavalcarono addosso al re di Granata e tutta sua brigata missero in iscon- fitta e lo re loro [fu] morto. E per questo modo si dilivrò quella battaglia e guerra. Passavanti con Marzia si dienno pia- cere, e sempre messer Aman per la vittoria avuta et anco per la ricompensazione che Marzia gli volea fare, fu di continuo, mentre che visse, capitano generale. La signoria di Barcellona, vedute le lettere del papa, subito Veglio cavarono di prigione, e Veglio, sentito il fratello esser genero del re di Spagna, in Ispagna n'andò, né mai poi patio disagio di niente. DE RASONABILI DOMINIO ET BONA JUSTITIA 203 57. [Triv., n» 87]. DE RASONABILI DOMINIO ET BONA JUSTITIA. Nel reame di Francia, tra la Francia e la Piccardia, è uno bosco grandissimo, il quale madonna contessa d'Artese possedea, et in quello un bellissimo palagio, in nel mezzo di tal bosco, era edifi- cato, acciocché [quando] madonna la contessa andare volea alla caccia, in quel palazzo riposare si potesse con tutta la brigata. E tal bosco era pieno di moltissime bestie salvatiche, e tutto d'in- torno la maggior parte steccato, acciò che le bestie uscire non potessero. Et era il ditto~T5sco molto grande accosto a una strada che venia di Piccardia a Parigi; al qual bosco moltissimi ladri e malandrini si riduceano a mal fare, et il modo che tali rubatori teneano era questo, che uno de' ditti rubatori si ponea in sulla strada, che allato al bosco era, in forma di uno ro- meo povero, che accattasse, con uno cappello in capo di ferro "èToderato di panno, acciò che, se alcuno l'avesse percosso, non avessene auto alcun male, et uno coltello sotto con uno bordone, assai il ferro grande. E come venia la persona a cavallo o a pie, chiedendo limosina s'accostava a tal viandante, e se a pie era, subito l'aveano preso, e tirato nel bosco, l'uccidevano e poi lo rubavano. Et se era a cavallo et altri si fermasse per dare limosina, lo rubatore s'accostava e prendealo per la briglia et col coltello per lo petto gli dava, e del cavallo lo facea cadere, e conduttolo in nel bosco, quello uccideano e rubavano. E se più d'uno fusse che di quine passasse, il primo rubatore lo lassava entrare tanto, che tre o quattro rubatori trovava in nella strada accattando; e se avvenia che non si volessino fermare, faceano certo segno d'un corno, e dinnanti e dirieto uscivano loro addosso, e se non erano ben forti, quelli che passavano rimaneano morti e rubati, et eran questi malandrini gran quantità, e centinaia ne aveano morti e rubati. Un giorno madonna contessa volendo caminare a Parigi, avendo seco molta baronia, comandò ad un suo spenditore che cavalcasse innanti per poter apparecchiare per lei e per la brigata. E come il ditto spenditore, con alquanti in sua compagnia, funno in nella strada appresso al ditto bosco, 204 NOVELLE DI GIOVANNI SERGAMBI quine (1) trovonno alcuni chiedendo limosina. Lo spenditore, avendo cuore ad altro, a niente rispuose e passò via con du' com- pagni. E come alquanto funno dentro in nel camino entrati, tro- vonno chi limosina domandò. Lo spenditore fermandosi, li com- pagni innanti, come lui vuol mettere mano alla scarsella per fare elemosina, quel malandrino, facendo vista di volere la limosina prendere, gli prese la briglia del cavallo. Lo spenditore, avendo l'occhio a' compagni, li vide da alquanti malandrini gittare a terra di cavallo, e vedendosi da quello la briglia presa, e con uno col- tello gli volea per lo petto dare, come (2) valente colla spada al malandrino die in sulla testa dicendo: Ladro, tu se' morto. E cosi pensò che morto fusse, e speronando il cavallo per forza, lo malandrino non poteo il cavallo tenere. E quando in sulla testa gli die, la spada tornò in alto e neuno male gli fece, so- nando il cappello, che era d'acciaio. E rivolgendosi addietro, alcuni di quelli malandrini se gli volea parare innanti. Lo spendi- tore, essendo bene a cavallo, passò che mal non li fenno, e ri- tornato a madonna la contessa e narrato che al bosco suo era stato assalito, che quasi non fu morto, e che vide i suoi com- pagni prendere et pensa che morti siano, mandò la contessa, subito ritornata arieto, e fatto raunamento di tutti i circustanti e comandamento che ogni persona si debbia trovare coll'arme e con tutti i cani al bosco, in raen di du' die la contessa ebbe raunato più di seimila persone. E circondato il bosco da tutte parti, acciò che persona uscire non ne possa, e' misseno dentro più di duemila cani con molta gente armala. Come li cani dentro funno entrati, le bestie salvatiche mossensi e per lo bosco an- davano. Li malandrini, che ciò sentono, voleano del bosco uscire per paura delle fiere et anco de' cani e delli omini che dentro entrati erano, e credendo campare dalle fiere, erano presi da coloro che intorno al bosco a guardia erano messi, e quelli che s'avvedeano delle brigate che intorno aveano, in loco contrario per lo bosco andavano, e molti dalle fiere ne funno morti. Ulti- mamente più di sessanta diliberonno entrare in nel palagio, sti- mando che quine entrare non si dovesse. E la contessa messe le guardie intorno e la intrata dentro con resto delle brigate e tutti li cani, in tanto che venendo ristringendo il bosco fino al pa- (1) Ma.: la u quine. (2) Ms.: la u come. DE RASONABILI DOMINIO ET BONA JUSTITIA 205 lagio andò, avendone di fuori presi più di cento e dentro più di quaranta e più di cinquanta ritrovonno dalle bestie esser morti. E giunta la contessa al palagio, e vedendo li malandrini in quello essere, subito fé' mettere fuoco in nel palagio. Li malandrini, ve- dendosi a mal partito, parte se ne gittarono dalle finestre e presi funno et alquanti n'arse dentro in nel palagio. Et avutane vit- toria, tutti quelli che presi avea, così feriti come sani, e quelli che le bestie aveano morti, intorno a quel bosco li fé' appiccare, sicché più di dugento cinquanta ladri quella contessa prima che si partisse appiccare fé', fra' quali ve n'erano gran parte delle sue terre^ gentilomini, o d'altre condizioni. E tornata in suo paese, tuttociò che tali ladri aveano di mobile attribuio alla sua ca- mera, e fu la ditta contessa per la sua giustizia per tutta la Francia e per quel paese lodata, e d'allora innanti per quella via andare si potea con oro in mano senza essere offeso. 206 NOVELLE DI GIOVANNI SERGAMBI / 58. [Triv., n» 88]. QJt^ v^c DE LATRONES ET BONA JUSTITIA. ^ Fu in Genova du' fratelli ladri, li quali l'uno avea nome Bo- vitoro, l'altro Belluccio, che avendo desiderio di guadagnare senza u fatica, andavano di notte rubando e strafìggendo botteghe e case, e questa vita teneano, e più volte andonno a uno fondaco d'uno mercadante nomato Agustino, e di quello più cose furato o tolto aveano, di che il ditto Agustino più volte doluto se n'è alla si- gnoria di quello che a lui era stato fatto; e niente gli valea, perchè di continuo, quasi ogni mese, per li ditti fratelli gli era alcune cose rubate. Agustino, che vede che per la giustizia non si può trovare modo, avendo veduto dove i ladri entravano, diliberò a pie della finestra, dove in nel fondaco scendeano, •y metter uno tinelletto pieno di viscagine stemprata, acciò che, se il ladro v'entrasse, vi fusse preso. E come pensò misse in effetto. E fatto la viscagine stemprata, e messa in luogo ditto, senza che ad altri lo palesasse, divenne che una notte il preditto Bovitoro e Belluccio andonno al fondaco d'Agustino, e per lo luogo ordi- nato Bovitoro si calò entro, e quando fu per lassarsi andare, credendo andare sul terreno, gli venne andato in nel tinello della s/ viscagine. Bovitoro, che si vede nn^escato, volendosi colle mani ^ aiutare, più s'invescava, per modo che non avea balia colle mani né co' piedi potersi aiutare, ne di quello tinello uscire; ma come ,se chiavato vi fusse stava sodo. Belluccio, suo fratello, ^■edendolo a tal partito, volendogli aiutare, per le spalle il tirava e niente valea. E stando in tal maniera, aspettandosi il die, Bovitoro disse a Belluccio suo fratello: Fratel mio, io veggo che morto sono, e se qui sono trovato, a me converrà confessare li furti fatti e con cui, per la qual cosa mi converrà te nomare e verresti a dover perder la persona, né mai i nostri figliuoli arenno onore. E per- tanto ti dico, poiché a tal partito sono che campare non posso, e per scampare te e la roba, e per amore de' nostri figliuoli, che tu mi levi la testa acciò che cognosciuto non sia, e per questo modo tu camperai e la roba et i nostri figliuoli non aranno I vergogna. Belluccio, che ha udito il suo pericolo, vedendo che ) '1 fratello campare non può, subilo con uno coltello il capo dalle DE LATRONES ET BONA JDSTITIA 207 Sfalle al fratello levò, e quello ne portò col pianto a casa. Li figliuoli dell'uno e dell'altro, vedendo piangere Belluccio, non sa- pendo il perchè, comincionno eziandio li fanciulli e le donne a piangere. La mattina levato Agustino e trovato quello senza capo in uno tinello, lo podestà subito avendo fatto prendere quel corpo, non potendo sapere chi si fusse, pensò doverlo far portare per la terra, pensando che coloro di chi parente fusse dovessero piangere, imponendo al suo cavalieri che quine u' sentisse pian- gere ricercasse, che di quella casa il corpo sarebbe. E fattolo mionere in su una carretta, con uno tamburo innanti, per la terra "^ fu portato, e quando a casa di Bovitoro fu arrivato, il cavalieri sentìo piangere donne e fanciulli. Subito salito le scale, diman- dando quelle donne perchè piangevano, loro, che niente sapeano, disseno: Noi piangiamo perchè Belluccio stanotte tornò molto piangendo. Lo cavaheri disse: 'Ve Belluccio? Le donne e i fan- ciulli disseno: Egli è incamera. Belluccio, che sente la famiglia dimandare il piangere, pensò subito potersi scusare per certo modo, e preso uno coltello, in sulla mano si die per modo, che molto sangue versò. Lo cavalieri, giunto dove Belluccio era, ve- dendolo piangere, lo domandò della cagione. Lui disse: Perchè m'ho fatto male, come vedete. Lo cavalieri, quando vede il sangue, subito con aspro viso minacciandolo, disse : Tu se' quello che hai morto quell'omo in nel tale fondaco. E legatogli le mani, subito lo condusse al podestà. Lo podestà, che conosceva Bovitoro e Belluccio, gli disse: Che è di Bovitoro? Belluccio disse: Egli è andato un poco altro'. Lo podestà disse: Quando di fuora [andò]? Belluccio disse : Ieri, in sulla terza. Lo podestà, che avea veduto Bovitoro presso a sera, disse : Deh, ladro, tu mi credi ingannare, che io so che Bovitoro tuo fratello hai morto. E pertanto non volere ch'io ti guasti della persona, confessa il peccato commisso, altramente io ti darò tanta colla, che tei converrà confessare, v^ E fattolo spogliare, Belluccio, senza esser più guasto, confessò tutto. Lo podestà lo domandò [dove] avea la testa del fratello. \ Belluccio quella appalesò, e confessato i furti fatti col fratello, 1 e datogli il termine, a uno paro [di] forche lui e '1 fratello morto appiccare fé', facendo ristituire le cose tolte. E per questo modo / li du' fratelli avanzare. 208 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI 59. [Triv., nO 89]. DE MALITIA HOSPITATORIS. N->>^ ] /IL ^i tempo del marchese Alberto da Este, marchese di Ferrara, .^ fu uno ostieri nomato Rustico, il quale con una sua donna chia- mata Bontura faceano uno albergo appresso a Ferrara in sul Po, alla torre della fossa, e compravano dal marchese la gabella del suo ostiero, come oggi si fa. Avea questo ostieri e Bontura uno figliuolo Gavesteo d'anni tredici, il quale dal padre e dalla madre avea imparato a che modo si monta col culo in sulle forche, cioè che avea dal padre e dalla madre in che modo s'uccidea e rubava, et era tanto venuto esperto di tal mestieri, che di con- tinuo, come vi venia alcuno ostieri ricco, lo diceva al padre et alla madre che tale si volea uccidere e rubare. E la maggiore parte di quelli che al suo albergo veneano, se non era ben forte e ben provveduto, erano morti e rubati. Et alcuna volta accadea v^ che alcun fante soldato con una sua panziera indosso capitava di di a quel posto. Rustico, volendo (1) quel fante rubare [e] per forza non are' potuto, lo domandava se quella panziera che in- dosso portava vendere volea, dicendo : Io la compro buon pregio, se ella mi piacesse. E tanto dicea, che il soldato la panziera si ca- vava, e come Rustico la panziera in mano avea, dicea : Questa panziera è perduta. Lo soldato dicea : Perchè? Rustico rispondea: ') ì Perchè senza bulletta la panziera, che per vendere portava nel * 1 terreno di Ferrara, gli volea cavare. E per questo modo quello che per forza rubare non potea, lo rubava con lusinghe e ma- lizia. E per questi modi n'avea tanti morti e rubati, ch'era uno stupore. Et essendo uno messer Nisierna, giudice, venuto di Fri- goli da officio colla sua donna, figliuoli e famigli, e co' suoi ar- nesi, et in fra l'altre cose avea una valige, nella quale ave' più di mille ducati e tazze e gioielli d'argento d'una gran valuta, avendo del marchese lettere di passo, arrivò all'albergo di Ru- stico ditto, al quale messer Nisierna disse che quella valige gli serbasse, che dentro v'era gran valuta d'argento. Rustico allegro (1) Ms.: vedendo. DE MALITIA HOSPITATORIS 209 disse: Volentieri. E non vedendo Rustico il modo di poter e '1 giudice e la sua brigata uccidere, avendo desiderio di rubare quella valige, pensò per altro modo fare d'averla, e colla moglie e col figliuolo ordinò che la valige si legasse in una fune, e con uno tovagliolo sotto l'acqua del canale si fermasse, gittando la valige in nel canale. E poi ordinò, quando messer Nisierna fusse a letto, che si mettesse fuoco nello albergo. E come sapete, quelle \^ case sono tutte di paglia e di vincastri, che poca fatica è a ar- dere. E come pensò fé', che veduti tutti quelli che con messer Nisierna erano andati a posare. Rustico, Bontura et il figliuolo a un colpo in tre lati della casa ebbeno cacciato il fuoco. Messer Nisierna, sentendo il fuoco, subito prese pensieri di campare le persone, non curando d'altro e [con] pochi panni fuori della ca- setta uscirono. La casetta arse con tutti arnesi di messer Ni- sierna. E fattosi a vedere con malinconia, dicendo all'oste dove avea la sua valige messa, l'oste risponde che la valige con tutte sue cose sono arse, facendo grande scalpore e dicendogli: Voi m'avete arso lo mio albergo con tutte le mie masserizie et ar- nesi. Messer Nisierna, che in più offici era stato, e già di molti ladri avea già fatti appiccare, cognoscendo la malizia di quello Rustico ostieri, gli dicea piacevolmente, per venir al fatto suo, dicendogli: Io ti prego se sapessi in Ferrara fusse persona che mi volesse servire di fiorini trecento o dugento almeno, per compensazione del danno che hai ricevuto, e perchè io ne po- tessi tornare a Siena, et io li rimanderò. Rustico dice: Io non vel so chi vi prestasse uno marchesano. Lo giudice dice: Non ti dispiaccia, io vo' andare a Ferrara, et al giudice del podestà, che è di mio paese, lo farò stare mallevadore della somma che io ho ditto. Rustico dice: Cotesto potete fare, e fate che '1 mio danno mi mendiate. Messer Nisierna disse: Io lascio la mia fa- miglia, che prima che io mi parta tu sarai ben contento. E fatto ad alcuno suo famiglio cenno, disse che ponessero ben mente che l'oste non si partisse, che sempre co' lui stiate, colla moglie e col figliuolo, fine che io ritorno. Lo famiglio saccente steo av- ^ veduto che Rustico non si partisse , dandogli parole. Nisierna a Ferrara n'andò e subito dinnanti al marchese s'ingenocchiò, dicendogli chi egli era e d'onde venia e come colla sua donna, figliuoli e famigli all'albergo di Rustico, alla torre della fossa, era capitato, e tutto per ordine raccontò al marchese, dicendogli che in nella sua valige erano più di mille dicati e molte tazze e gioielli, e penso che, se arse fossero, lo fuoco non esser tanto Rkkieb, XovelU di G. Sercambt. 14 210 NOVELLE DI GIOVANNI SERGAMBI potente che consumati li debbia aver ne fonduti. E pertanto vi dico che se tra la cenere si trovano, Rustico non esser in colpa del fuoco et io tutto gli vo' mendare, e se tali ducati e gioielli non si trovano, lui de' esser stato quello che '1 fuoco, per ardere me e tutta la famiglia, misse, per rubarmi la mia valige. Lo mar- chese, che molte cattività avea udito dire di Rustico, die fede a Nisierna, e subito mandato per messer lo podestà e dittogli tutto, lo podestà in persona, col suo giudice e famiglia, con messer Nisierna alla torre della fossa andarono, dove Rustico, la moglie e '1 figliuolo e tutta la brigata di messer Nisierna [trovarono] quasi nudi. E fatto cercare la cenere, trovandovi la fibbia e le spranghe di una cinterà che messer Nisierna portava cinta, e' disse al podestà: Poiché vedete che questa fìbbia non hae avuto per lo fuoco alcuno guastamento, che, vedete, fine i chiovellini con che erano chiavate le spranghe sono interi, che dovranno esser li ducati e le tazze? Lo podestà, veduto che alcuna cosa non vi si trovava, fatto prendere Rustico, Bontura e '1 figliuolo e messi alla colla a uno albero, cullando Rustico e Bontura, con- fessonno dove la valide era, e quella aperta, vi si trovò li du- cati e tutte le cose ditte. Lo podestà fé' a messer Nisierna ri- stituire ogni suo danno e Rustico, Bontura e '1 figliuolo a uno paio di forche, che per loro si fenno, funno appiccati, et ogni loro bene si tribuiò alla camera del marchese, e cosi morinno quelli ladri. i DE FALSATORES ET BONA JUSTITIA 211 60. t J X M. [Triv., no 90] DE FALSATORES ET BONA JUSTITIA. Nel temgo_che '1 dugio Draconetto, di ca' Dandolo di Vinegia, fu3ugio, venne uno stranio nomato Fiordo, il quale con sue mani ^ibbficava d'ottone, ovvero di rame dorato, ducati proprio al cungio che la città di Vinegia cugna, e moltissimi n'avea già cugniatT, et in molti luoghi quine, u' riconosciuti non erano, n'avea spesi in quantità. Divenne che un giorno nel mese di luglio venne il ditto Fiordo alla città di Vinegia onorevilmente vestito, et andato di- mandando oro filato e fregi, fugli ditto o mostrato il luogo, dove Fiordo s'accostò a una di quelle merciaie, che tali cose vendono, domandandola se di quelli fregi o oro avea. La donna, nomata madonna Marchesetta, disse: Assai ce ne sono; e mostrògli di molti fregi e oro, che valesse la somma di ducati cinquecento. Pesate le cose e messe in assetto e fattone uno fardelletto, il preditto Fiordo disse a madonna Marchesetta che seco andasse al banco per vedere innomerare li ducati che aver de'. La donna contenta, perchè i suoi fregi e oro avea ben venduto, con Fiordo al banco n'andò. Cavato fuori una borsa verde, in che avea du- cati cinquecento nuovi di zecca, e quelli [dati] al banchieri, disse se alcuno ve ne fusse che non fusse recipiente. Lo banchieri disse: Questi ducati sono nuovi e non hanno alcuna mancanza. Fiordo dice alla donna che innomeri se sono cinquecento. La donna li tira a sé. Fiordo glieli gitta a quattro a quattro, tanto che cinquecento li hae trovati, et messoli Fiordo in quella borsa verde, con una poca di cera la borsa suggellò, dicendo alla donna: Andiamo alla bottega. Avendo quella borsa in mano, presente la donna, alla bottega ne vanno, e mentre che caminano. Fiordo trasse fuori del seno una borsa simile a quella in che erano li ducati, piena e suggellata, [e vi| avea ducati cinquecento falsi dorati d'ottone, e riposesi (1) quella de' veri. E giunti a bottega, la donna prese la borsa suggellata credendo che fusseno quelli che al banco veduti avea, e dato il fardello de' fregi e dell'oro (1) Ms. : ripostasi. ^ ^ 212 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMEI a Fiordo, Fiordo, che le cose avea in punto, subito in una barca entrò e dato de' remi in acqua in suo paese ritornò. Madonna Marcbesetta, aperto la borsa sopra uno tappeto, vide quelli du- cati lustranti, avendole paruto guadagnare la quarta parte, avea grande allegrezza. E mentre che ella in tale allegrezza dimorava^ sopravvenne uno suo figliuolo nomato Tano. La madre gli dice : Tano, oggi abbiamo avuto il buono guadagno d'una vendita fatta di ducati cinquecento di fregi et oro venduto, che se ne gua- dagna il quarto. Tano, che ode quello che la madre hae fatto, steo contento dicendo : U' sono li ducati ? La madre la borsa gli porse. Tano quella aperse, e veduto li ducati quelli esser falsi e d'ot- tone, disse (1) alla madre: Noi siamo disfatti. La madre dice tutta il modo tenuto di quel ladro. Lo figliuolo, come savio, disse : Madre mia, di queste cose non fate motto fine a tanto che io non ho parlato alla signoria. E mossosi, subito con quella borsa de' ducati falsi alla signoria n'andò, e contato quello che alla madre era incontrato della moneta falsa, mostrando li ducati ri- cevuti, la signoria vedendo lo 'nganno fatto e '1 tradimento di colui che tali ducati in Vinegia condusse, disse (2) a Tano : Poiché tu non sai chi tali ducati t'ha dati e noi non possiamo questa sapere, e pertanto è bene, a voler rinvenire questo fatto, che tu e tua madre di tale spesa non dobbiate a persona appalesare, né dimostrarvi malinconici, ma sempre attenti se quel ladro ri- capitasse, e questi ducati lasserai in palagio, acciò che spandere la novella non si possa. E Tano, cognoscendo che non v'era altro rimedio a dovere il suo riavere, subito se ne tornò alla madre, la quale dogliosa trovò, dicendole tuttociò che la signoria gli avea ditto. La madre, come savia, in sé tenne celato quel fatto, aspettando tempo. E stando per tal modo senza sgan^fì^si niente della cosa, passato uno anno, il preditto Fiordo, avendo sentito che neuna cosa s'era ditta di ducati lassati in Vinegia falsi, pensò ancora di nuovo l'arte sua mettere in effetto. E venne a Vinegia, dimandando, come stato non vi fusse mai. Ultimamente venne alla bottega dove madonna Marchesetta dimorava, dimandando fregi et oro. Madonna Marchesetta, che ricognosciuto l'ebbe: 0 messere, io hoe la più bella mercanzia che mai vedeste, e perchè altra volta mi faceste buono pagamento, io vi mostrerò tutto ciò che (1) Ms.: dicendo. (2) Ms.: dicendo. DE FALSATORES ET BONA JUSTITIA 213 io hoe in bottega. E cominciando a spiegare fregi et oro, die una maraviglia parea, Fiordo avendone messi da parte gran quantità, la valuta di più di ducati mille, sopravvenne Tano, figliuolo di madonna Marchesetta, dicendogli la madre: 0 figliuolo mio, questo è quello buono amico che da me comprò tanti fregi, di che gua- dagnammo cotanto. E però io ti prego che vogli che stamane desni con esso noi. Tano disse alla madre: Io sono contento, e 'partitosi, alla signoria n'andò, e raccontato la venuta di colui che i ducati falsi avea alla madre dati, subito la signoria lo mandò a prendere, e conduttolo al palagio e fattolo cercare, trovonno ■che Fiordo avea indosso più di du' mila ducati falsi e ben mille dugento ducati nuovi d'oro. E fattolo confessare il modo del bat- tere e dello 'nganno che di tali ducati facea, non volendo altre prove, la signoria gli fé' cucire sopra una palandra tutti li du- cati falsi, e con quella al fuoco fu messo. E così morio et a ma- donna Marchesetta et a Tano funno ristituiti li ducati cinquecento, e cinquanta più per lo suo interesse, stando poi la madre e Tano «con li occhi più aperti. 214 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI 61. [Triv., n" 91]. DE MASSIMO FURTO. In nella città di Milano, al tempo che madonna Reina moglie- di messer Bernabò Visconti era donna di messer Bernabò signore di Milano, la quale, la ditta madonna Reina, tenea il suo tesora in uno casamento torniato di uno procinto, e con molte chiave di usci e le camere serrate, in nel quale luogo non stava per- sona alcuna. Uno sensale nomato Taisso, avendo alcune volte veduto il luogo dove madonna Reina lo tesoro riponea, perchè alcune volte col tesorieri v'era andato per fargli comprare mer- canzie, et vedendo che grandissimo tesoro era in quel luogo^ volendo tosto ricco diventare, pensò tollere di quello tesoro. E perchè solo tal cosa fare non potea, diliberò di dirlo a uno suo fratello minore di tempo di lui nomato Orso, e fattolo sapere al fratello Orso, contento, una notte si mosseno et andarono con una scala di funi al luogo là u' il tesoro era, portando Taisso uno buono mazzo di candele di cera. E giunti, la scala attacconno a' merli e diliberato Taisso, perchè il modo dell'entrata sapea e quine u' si teneano li denari, di voler lui andare, lassando il fratello a ricevere quello che rubasse, e montato in sul muro, tirò su la fune con la scala di funi e dentro la lassò andare, avendola al merlo fermata, e scese giù, e quine apprese il fuoco, che portato avea da farne, e con quelle candele^rsè il luògo quine u' stava ìa serratura et aperse l'uscio, e cosi andò facendo tanto che al cassone, dove lo tesoro era, giunse, e col fuoco aperse lo cassone, e di quine ritrasse una borsa di fiorini diecimila e quelli giù li calò al fratello. Lo fratello, che era stato informato da Taisso, li portò a casa et in nella stalla li sotterrò. E ritornato, Taisso, che era andato allo cassone, quindicimila ne trasse in du' borse, e simile al fratello li diede, facendone come delli altri, e tanto fece Taisso col fratello, che fiorini ottanta mila n'aveano tratti. E vedendo venire il giorno, non potendovi più stare, se ne uscio fuori, ritirando la scala, acciò che persona non se ne potesse accorgere; et andatosene Taisso et Orso a casa, disse Taisso: Noi siamo grandi ricchi se sappiamo fare. E perchè io sono stato alcuna volta a veder il tesoro col tesorieri, penso. i DE MASSIMO FURTO 215 quando aneleranno a guardare, vedendo il danno fatto, che non me ne danno la colpa, e pertanto ti dico che bene è che tu te ne vadi a Vinegia, et io cambierò questi fiorini e rimetterotteli, e di poi me ne verròe e potremo sempre mai godere. Orso disse -^ che gli piacea, e diliberò la mattina riQyegnente andare verso - Vinegia e portare tremila fiorini, e così fé'. G-iunto Orso a Vi- negia, Taisso subito se n'andò a uno giovano cambiatore nomato Gione, dicendogli: Io vorrei cambiare per Vinegia fiorini duemila. ) Lo giovano disse: Io sono contento. E preso da Taisso duemila Bormio gii fé' una lettera in VinegiaT che a Orso fusseno dati e cosi li riceveo. E per non molti di steo che di nuovo disse a Clone che volea cambiare con lui fiorini tremila per Vinegia. Clone, che avea ben guadagnato la prima volta, prese quelli dinari et una lettera fé' che a Vinegia fusseno a Orso dati. Ve- dendo Taisso che Gione liberamente lo cambio facea, gli disse che simili lettere volea per fiorini tremila che in Vinegia a Orso fusseno dati. Gione, che vede che Taisso questi dinari gli dà, e sapea che non era ^soflìciente a cinquanta fiorini, stimò ^ per certo Taisso doverli aver ruT)ati, e chiamatolo in nel banco gii disse: Per certo, Taisso, tu dèi aver rubato questi dinari, e però, se non me ne fai parte e dichimi a chi tolti li hai, io t'andrò accusare. Taisso, che la paura lo fa tremare, disse : Deh Gione, non voler sapere a chi tolti sieno. Io sono contento che d'ogni cambio che meco farai il terzo tuo sia, e fine a ora di questi tremila fiorini, che farai in Vinegia che a Orso mio fra- tello siano dati, io te ne darò qui fiorini quattromila cinquecento. Gione disse : Io sono contento. E fattogli la lettera de' tremila, riceveo quattromila cinquecento, dicendogli Taisso: Io ti farò il più ricco banchieri di Milano. Gione, come giovano, sta fermo al guadagno. Taisso disse: Gione, io vorrei che di quattromila fiorini mi facessi lettere, et io te ne do seimila. Gione dice : Vo- lentieri ; ma vo' vedere se il banco di Vinegia l'hae dinari, al- tramente li prenderò d'altri. Gione, contento di fare la lettera, vede che quelli di Vinegia non hanno di loro più dinari. Parlò /, al fratello suo maggiore dicendogli esser di bisogno che noi pren- [ dessimo per Vinegia fiorini quattromila. Lo fratelicTdice: Or come~può essere, che più di fiorini novemila avevamo là ? ora come accatteremo noi dinari a-oce (1) d'averli? Gione dice: Fratel (1) Cosi nel ms. Non so che voglia dire. 216 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI mio, tutti quelli che quine avevamo, io l'ho cambiati con gran- dissimo nostro profitto, et holli qui auti contanti. Lo fratello dice: Ora con cui s'è possuto fare si grosso cambio? Giono disse: Con y/ Taisso. Lo fratello di Clone dice: Gol diaule! o egli non ha il valore d'un grosso ! per certo se co' lui fatto l'hai, lui li de' aver rubati; ma io mi meraviglio che tanti n'abbia potuti rubare, ch'io non so chi si possa essere quello mercadante che non se ne fusse già saputo la novella. Giono dice: Di vero lui m'ha con- fessato che tolti l'ha, che mettendogli paura m'ha tribuito lo terzo, che d'uno cambio che ultimo fece di fiorini quattromila cinquecento, et ora di questo me ne vuol dare seimila et io gliel faccia di quattromila. Non m'ha voluto dire a chi. Lo fratello di Clone, sentendo il pericolo che venire ne potea a lui et al fratello, diliberò al tutto voler sapere a chi Taisso li fiorini avea tolti, dicendo a Clone che al banco lo faccia venire e che ar- rechi li seimila fiorini e tu gli farai la lettera. Giono cosi fa, e '1 fratello resta in bottega. Taisso venuto con dinari, Cione lo V mena in fondaco, dove era il fratello. Lo fratello di Giono gli "disse: Taisso, io vo' sapere a chi tolti hai questi dinari, acciocché noi ancora possiamo prendere partito, e come hai fatto patto con Giono, cosi ti voglio osservare che la terza parte sia nostra, e le due parti tue, e se cento [mila] fiorino fusseno, tanto l'arò più a grado. Et ora sono contento di prendere questi seimila; io ti farò la lettera di quattromila. Taisso dice: Or che leva? io li ho tolti a persona che poco danno ne può avere, e sono più di ottantamila. Se io avessi avuto più della notte, io n'arai più di dugentomila, e penso, se verrete meco, e' sere' che in meno di du' notti ve li metterò in mano. Lo fratello di Giono dice: Ohimè per Dio, Taisso, faciamlo e tienmi secreta la cosa. Ciò che vorrai da noi arai, e per poter fare più secreto e meglio, io voglio mandare Clone a Vinegia, che si trovi con Orso con tutti questi dinari, e li altri manderemo a loro due. In fiiije^ayale. w sono contento che il nostro e '1 tuo vada a comune. Taisso dà fede alle parole e disse: Buono è che Cione tostcT camini. Lo fratello di Cione dice a Taisso : Va e mena giù uno cavallo, che vo' che incontanente vada per non perdere tempo. Taisso si parte e per uno cavallo è andato. Lo fratello di Cione dice a Cione che subito della terra si parta e porti seco quelli seimila fiorini, et in fine che non manda per lui non torni. Gione am- maestrato, come il cavallo fue venuto, salio a cavallo, dandogli una lettera di quattromila ducati di Taisso, e che quelli desse DE MASSIMO FURTO 217 a Orso in Vinegia. Montato Giono a cavallo e caminato fuora del distretto e forza di messer Bernabò, auto il fratello di Gione da Taisso come li dinari avea tolti a madonna Reina, donna di messer Bernabò, disse a Taisso che mettesse in punto la scala per la notte. Taisso se n'andò alla sua casa per racconciare la scala, se bisogno fusse. Lo fratello di Gione subito se n'andò a messer Bernabò, narrando tutto ciò che Taisso avea fatto. Messer Bernabò volse tutto sapere e trovò esser vero. Subito fé' pren- dere Taisso et al fratello di Gione disse che il fratello facesse tornare. E così Gione tornò senza avere alcun male. E dato Taisso in mano di madonna Reina, che di lui facesse quello gli piacesse, e ben la pregava, poiché Taisso avea avuto tanto cuore et che avea fatto sì bella ruba, che lo campasse. Madonna Reina, vedendosi essere rubato il suo tesoro da Taisso, fattolo confessare e quine u' nascosi li avea, Taisso tutto narrato, come in nella stalla avea più di sessantamila e lo resto, salvo li seimila, avea mandato a Vinegia al fratello, et avuti quelli che in Milano erano, là u' fé' il male, quine fé' fare un paio di forche e per la gola lo fé' appiccare, et Orso suo fratello lo isbandigiò. Né mai si curò tornare Orso a Milano ; con dinari si die buontempo, avendo perduto il fratello. 218 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI 62. [Triv^, n» 93], DE MAL V AGITATE YPOCRITI. AAy^ ^ y/ Nella terra d'Ascoli, al tempo di papa Griovanni quarto, fu uno bizoco ipocrito e arcatore di parole nomato fra Bonseca, omo d'ogni cattiva vita, e secondo l'opere sue costui dovea esser uscito di quel mal sangue di Giuda Scariotto, e perchè mi pare che fine a Scariotto sia buona~e~Tunga la via, penso che la bri- gata a mezzo il cammino si vorrà rinfrescare, e pertanto del ditto fra Bonseca [dirò] per oggi du' novellette, e questa sera l'una e poi dopo il rinfrescamento dirò l'altra. Essendo questo fra Bonseca vestito in abito da frate, nomandosi di quelli di Sant'Antonio, et tale vesta e nome s'avea messo e posto solo a fine di rubare et ingannare qualunca di lui si fidava, _cliè. (1) lui possa 0 altra dignità di frate non avea. Et in fra l'altre cat- tività, di centinaia che ne fé', ve ne conterò una al presente, fatta ad uno contadino di Pisa in Toscana, la qual comincia, che es- sendo pervenuto questo frate Bonseca in Toscana in una villa Guosa del contado di Pisa, posta in sul Serchio, et capitato con scatto sotto il nome di Sant'Antonio e nella ditta villa a casa di un lavoratore massaro nomato Michele, il quale avendo questo Michele ììhà^bella giovana di vintiquattro anni per moglie no- mata Rica, buona filatrice e massaia, et era questa giovana sì dispirata, che tutto ciò che udiva le parea fusse vero, e con "qùèsfcTera caritativa di fare elimosina, facendo di continuo la masserizia di casa, in tanto che ogni anno facea fare una buona tela di panno lino; venuto fra Bonseca a casa di Michele e ve- duta una bella pezza di panno lino, che il giorno l'avea Michele ricolta dal tessandro, stimò subito quel panno dover avere, e comincianTlo a pregare la donna e Michele che la predica che dir vorrà di Santo Antonio udire debbiano, cominciando a dire Santo Antonio essere devoto santo e__che molti miracoli fa eche vuole che limosina non sia dinegata a chi per suo amore la chiede, e' tante cose dice che madonna Rica, simplice di pasta, . (1) Ms.: ma che. fy»^ rySiJ^ DE MALVAGITATE YPOCRITI 219 di tenerezza lacrima. Frate Bonseca, che ciò vede, subito com- prese: Io arò di costoro ciò che io vorrò. E liyrato sua predica, dimandato che la mattina Michele lo tegna per amore di Santo Antonio a desnare. Michele fu contento, et apparecchiato e tro- vato le vivande, fra Bonseca, ch'è presso al fuoco posto a sedere, prese una chiappa d'aguto, che molte in nella scarsella n avea, et in nei fuoco la niisse, e come vide che era ben focosa, disse a Michele: Io ti prego che mi vadi per un vasello d'acqua al Serchio, perchè i nostri pari non benno vino, se non malvagia e senz'acqua. Michele, preso il vaso et al Serchio andato, frate Bonseca dice alla donna che un porro dell'orto la rechi, _£erchè Sant'Antonio n'è molto vago. La donna presta in nell'orto a cavar iFpon'O- Fra Bonseca, cavata quella chiappaella d'aguto dal fuoco, in quella pezza del panno da uno de' canti Fa misse dentro, e torna tosto a mangiare. Mangiò prestamente con Michele et con madonna Rica, dicendo loro che non mai disdicano che per amor di Sant'Antonio fusse loro chiesto, sia cosa si vuole, perchè Sant'Antonio ne mostra spesso evidenti miracoli ; e dato loro questa regola, levatosi da mangiare, della scarsella si trasse quattro barbe di sesamo, dicendo a Michele et a madonna Rica : 'Ténetè^'tlersénsamo di Sant'Antonio, e la metà die all'uno e l'altra a l'ai tra7 ET voi tosi, vide la pezza del panno, disse: 0 Mi- chele e tu madonna Rica, vi chieggo quella pezza di panno per amore di Sant'Antonio, che se ne fare' lenzuola a' poveri suoi. Michele disse: Frate, cotesto non ti farò io, che la donna mia ha durato gran fatica a filarla, et io ho speso più di vinti soldi a farla tessere. Lo frate disse: Santo Antonio ne mostri miracolo. Et uscito di casa, sonando la campanella in qua e in là, subito la donna e Michele, vedendo fumare il panno, dissero (1) : Or come saressi appreso a questo panno il fuoco di Santo Antonio? E spiegandolo, videno che già incominciava ad ardere da l'uno lato; subito dandosi della mano in nel petto e per la bocca di- cendo: Male abbiam fatto a non aver dato il panno al frate. Et uscita la donna di casa, chiamando lo frate che arieto tornasse, lo frate, che tutto sapea, facendo vista di non volerla udire, disse Rica : Venite, che noi abbiamo paura che il fuoco di Santo Antonio non ci arda la casa e le carni, come hae incominciato ad ardere il panno che chiedeste. Lo frate venuto, inginocchia- (1) Ms.: dicendo. 220 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI tosi, facendo vista di orare, dicea fra sé: Questo mi toglio e di me non ti voglio, e prese il panno, e segnato lo fuoco colle mani spegnendo, e' prese il panno dicendo: Io lo vo' mandare per mare, con altro che a Pisa n'ho, a Santo Antonio, et penso quine ritornare. Madonna Rica, che già gli parca aver Sant'Antonio in corpo, lo prega che di quindi ritorni. Frate Bon- seca andò a Pisa e quello panno vendeo e co' dinari a Guosa ritornò, e capitato a casa di Michele dove sonando la campa- I nella, Michele, che a lavorare di lungi più d'uno miglio era, sentio il suon della campanella e disse":' lì frate sera ritornato, e pensò d'andare a casa. Madonna Rica, come vide il frate, disse: Ben siete venuto, che poiché vi partiste m'è sempre paruto aver Santo Antonio in corpo. Lo frate disse : Donna, et io ci sono ve- nuto solo per metterti Sant'Antonio in corpo, e però sta riversa. La donna gittatasi riversa, lo frate, appoggiato l'uscio, li panni dinnanti gli alzò. Rica dice : 0 che fate, frate ? Lo frate, calate le >/ mutande, e ri^ojl basalisco, le vuole montare addosso. Rica disse: Frate, cotesto non è Santo Antonio, che non sono si cieca che io non cognosca cotesto da Sant'Antonio. Lo frate disse : Lassalo intrare per amore di Sant'Antonio, altramente al tuo .jiann^ecchio s'apprenderà il fuoco come fé' alla pezza del panno. Rica, che~paura ebbe che '1 fuoco non s'apprendesse al suo pen- necchio, lo fuoco e la rabbia del frate in nella tana cieca lasciò entrare. E mentre ch'ellino stavano a questìòneg'gTare, soprav- -4 venne Michele, et aperto l'uscio, trovò frate Bonseca, che il basa- lisco aveà in nella tana cieca di Rica sua moglie, dicendo : Or questo che vuol dire ? Lo frate, volendosi levare le brache, che alle gambe gli aveano fatto traverse, non attamente levare si poteo. Michele, preso uno bastone, a frate Bonseca die tanti colpi, che per morto lo lassò, e quel basalisco, che prima grandissimo era, lo fé' assai piccolo divenire, et a Rica disse perché avea tal cosa consentito. Rispuose: Per paura che il fuoco di Santo Antonio non mi s'appiccasse di sotto al pennecchio, come s'era appiccato al panno. Michele, perdonandogli, spettò che '1 frate, che tramortito era, si risentisse, e come fu risentito, disse: 0 I frate, io cognosco che chi ò perfetto amico di Sant'Antonio non terre' li modi che hai tenuti è"non penso che Sant'Antonio fa- cesse per si fatte persone, come tu se', miracoli; e pertanto fa di dirmi in che modo il fuoco al panno s'apprese, e non m'andare in ciancio, altramente con questo bastone te ne darò tante, che morto ti lasserò. K prima che il fi-ate avesse aperto la bocca DE MALVAGITATE YPOGRITI 221 per parlare, Michele gli die du' grandissime bastonate, dicendo: Di' tosto. Lo frate, che appena la voce potea porgere del dolore, disse: Mentre io chiedea Michele spranga una gran basto- nata in sulle spalle dicendo: Fusti tu che quel fuoco mettesti? Lo frate disse: Sì; e domandando del modo con darli du' basto- nate, lo frate, che a male mani si vede, gliel disse, e tutto come avea seguito, e quello che n'avea fatto. Michele, presogli la scar- sella, tanto quanto gli parea che valesse il suo panno, tanti de- nari ne trasse, e datogli una bastonata, disse: Per la vergogna e per lo 'nganno fatto alla mia donna, oltra le bastonate avute, vo' che due^ di nuovo n'abbi ; e poi prese quattro fiorini di quelli del frate, dicendo alla donna : Questi siano tuoi, acciò che risto- rata sii del vituperio che tu hai fatto. Et aiutato Michele a ti- rarsi su le brache, che più di quattro punti gli convenne ri- stringere, per le battiture che l'avea fatto sottile diventare, e mandato fuora della casa, minacciandolo, se mai in quello di Pisa lo ritrova, d'ucciderlo, cosi frate Bonseca, credendo beffare, riceveo beffe e danno, né più in quello di Pisa si lassò trovare, e più mesi convenne che il frate in nello spedale dimorasse prima ch'andare potesse. 222 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI 63. [Triv., n" 94]. DE MALITIA IN INGANNO. i. y V Come avete udito in nella precedente novella di quello frate d'Ascoli, come fu guarito delle bastonate ricevute in quello di Pisa, pensò dover trovare in quello di Lucca omini e donne non meno matte che madonna Rica di vai di Serchio. E partitosi dallo spedale il ditto frate Bonseca, si dirizzò verso il ponte Sanpieri, presso a Lucca a du' miglia, con intenzione di rubare per qualche modo meglio gli venisse. E perchè il nome che te- ^ nuto avea s'era già spanto, dicendo uno frate di Sant'Antonio ha fatto tale cattività, pensò non come frate seguire lo suo me- stieri, facendosi indivino e medico. E passando presso a Lucca senza entrare in Lucca, e' camino verso Moriano, facendo suoi esperimenti di parole, campandosi la vita fine che giunto fu in nella villa di Decimo, sottoposta al vescovo di Lucca, in nella quale il ditto frate pensò poter l'arte sua dello inganno seguire, parendogli le donne gimpliciotte et anco parte delli omini assai mentegatti. E cognoscendo la terra essere ben posta, si per la sua stanza, si eziandio per le circustanze, pensò far molti dinari. E capitato in uno albergo e secretamente domandato delle con- dizioni delli omini di Decimo, e simile delle donne, fugli tutto ditto, per la qual cosa lui avea tutto a mente. Or perchè di tutte le particelle e cattività che il ditto frate Bonseca fece io ne dirò una delle cento e più in Decimo ne fece, et in fra le altre che io hoe intenzione per nostra novella contare si è questa che ora io vi dirò, che essendo informato di uno giovano nomato Gilastro, omo piuttosto a voler di quello del compagno che del suo ad altri dare, e molto scarso e con questo buono procaccino^ che ogn'anno si vendea suoi dieci o venti porci salati, e_cosi^ campava la sua ventura. E quello anno con gran fatica Gilastro avea insalato quattro porci, e perchè gli pareano che fusse assai piccola provenda, avendo comandato a sua moglie giovana no- mata Bovitora, assai materiale e di pasta grossa, che di quella carne non toccasse, però che l'avea promessa a serbarla a marzo, Bovitora, udendo dire che la carne serbava a marzo, di quella non toccava. Lo frate, che lutto hae inteso, pensò di voler avere DE MALITIA IN INGANNO 223 quella carne, et appostato che Gilastro in Decimo non era, ito in Garfagnana per suoi fatti, s'andò un poco diportando verso la casa di Gilastro, e come è presso alla casa, vide Bovitora che filava in via. Domandatola se figliuoli avea, ella disse di no, ma che volentieri ne vorre'. Lo frate disse : Or non avete marito giovano? Bovitora dice: Io ho hene marito giovano, ma non giova. Lo frate dice: E con altri setevi provata? Bovitora dice: Si, più volte, e non mi valse. Lo frate disse : Se non che a me, non è molti mesi, che per voler fare impregnare una me ne fu data tanta penitenzia che in fine avale la sento, io farei che voi impregnereste. Bovitora dice: Deh, per Dio, insegnatemelo, acciò ch'io possa avere qualche figliuolo. Lo frate disse: Per certo, donna, io ti cognosco esser da tanto, se qualche figliuolo avessi, sere' poi papa e tu seresti la madre del papa, tanto mi pare che ^saccente^ sii. Bovitora, crescendogli la volontà de' figliuoli, cre- dendo che papa fusse, disse: Deh, frate, insegnatemi la medicina. Lo frate disse : Or se il tuo marito non volesse che fusse papa e volesselo fare imperadore, come ne seresti contenta? Bovitora disse: Or come non? or come non è lo imperadore un grande omo? Lo frate disse: Sì. Bovitora disse: Deh, per Dio, insegnatemi a lo fare. Lo frate disse: Se vuoi che io t'insegni il modo che impregnerai, io vo' che mi segni uno che io vo' cercando, che m'ha promesso certa carne. Bovitora disse : Chi volete ? Lo frate dice : Gilastro. Bovitora dice : Egli è mio marito, dicendogli : Come avete nome? Lo frate dice: Io ho nome Marzo. Bovitora dice: Ben mei disse ch'io ve la desse e che a voi la serbava. Marzo, che di nuovo s'ha dato nome, dice: Se vuoi che io t'insegni im- pregnare, fa che la carne si porti al mio albergo, et io ti farò un breve che come l'arai addosso avrai volontà d'avere figliuoli, e come il tuo marito torna, usa con lui, e se non tornasse, con altri, e impregnerai. E scritto il breve e postologli in mano, di- cèncfogli che addosso il tegna, Bovitora, lieta della buona ventura che alle mani gli era divenuta di Marzo, prese la carne et al- l'albergo la portò. Et il frate subito quella all'oste vendeo per fiorini sedici d'oro, e presi li dinari verso il borgo a Mosano prende a caminare. E_non rnolti passi di Decimo si fu mosso, che Gilastro _scontrò non cognoscendolo. E tornato a casa, Bovitora d'aUegrgzza si scomp^isciava, dicendogli: Io hoe avuto uno breve da Marzo, ch'ha avuto la nostra carne, il quale mi farà impre- gnare, e nascerà un papa, o vorrai imperadore, secondo che quel frate Marzo m'ha ditto. Gilastro, che sapea leggere, disse: 'Y'è 224 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI questo breve? La donna, che in mano l'avea, gliel diede. Gilastro legge il breve e vide quel dicea, il quale contenea in questo modo : Bella sei e buono culo hai, fattel fare e impregnerai. /Gilastro, veduto quel frate aver beffato la moglie e toltosi là carne, pensò di pagarlo per sempre, e camino verso il borgo. E come fu fuora della terra del vescovo, queLfrate uccise, e tut- tociò che addosso avea gli rubò, e raddoppiò in tre doppi la va- luta della sua carne, tornando a casa et ammaestrando la moglie che non sia mai più cosi credente. DE CIECO AMORE ~^25 64. [Triv., n" 95]. DE CIECO AMORE. Nel^ tem^o^he Jjucca^era sottoposta a Pisa, dimorava in Lucca uno Pisano assai di cattiva condizione, nato d'adulterio e non di legittimo matrimonio, nomato Scarsino dalli Scarsi di Pisa. Avendo questo Scarsino una moglie bellissima e molto servente di quello \\ q/ i ch'ella potea a ciascuno giovano che lei richiedesse, nomata madonna Giandina, e con molti giovani avea più volte provato sua forza e con tutti ella ne rimanea volentieri di sotto, tanto il giuoco gli piacea ; e posto che il ditto Scarsino di molti si fusse accorto che colla moglie si godeano, anco lui alcuno giovanotto bello, il quale el ditto Scarsino, come di cattiva condizione, contro l'uso della natura lo tenea , consentendo che tale giovano per ricompensazione colla moglie si giacesse. Madonna Giandina, che di quello che il marito con altri facea le dispiaceva forte, che il marito tale arte tenesse , ma avendone poi ella il diletto di tale giovano, stava contenta. E questa vita tenea la ditta ma- donna Giandina, stando a casa il ditto Scarsino in nella contrada di San Mazzeo, là u' tenea, oltra l'altre cattive [cosej che facea, la barattarla, con farvi condurre or questo or quello giovano, e molti in tal luogo funno disfatti, e tutto il guadagno che quine si facea si volea per sé. E vedendo uno giovano nomato Fran- ceschetto Manni, vicino a quattro case della ditta madonna Gian- dina, la bellezza di lei, et udendo quello che spesse volte avea fatto e che avveduto se n'era, come giovano isfrejaato e volunteroso, v^ un giorno trovandosi all'uscio di lei, comTD'^ò a ragionare d'a- more, dicendogli che lui l'amava sopra l'altre donne e che vo- lentieri sere', se a lei piacesse, suo innamorato. Madonna Giandina disse: Franceschetto, a che fine vorresti tu esser mio innamorato e io tua? Franceschetto dice: Per piacere. La donna dice: E se per piacere vorresti diventare innamorato, or perchè tal piacere non domandi, però che la donna più tosto acconsente al mag- giore suo bene che al minore? Franceschetto vergognosamente le disse: Io non l'oserei dire. Madonna Giandina disse: Poiché se' venuto a tanta pratica, ti dico che mi dichi l'animo tuo. Fran- ceschetto prese vigore e disse: Madonna Giandina, io vi prego Rbnikr, Xovellf ili C. S'erc/iinbi 15 226 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI che vi piaccia ch'io con voi carnalmente mi goda, e che diate l'ordine al modo che tener debbo. Madonna Giandina, che volontà avea di trovarsi con lui, come trovata s'era con delli altri, disse che a lei piacea che lui di lei prendesse piacere, ma l'ammae- strava che tenesse si cauti e onesti modi, che Scarsino non se ne possa accorgere. E perchè sii avvisato donde entrare dèi, ti dico che ti conviene montare in su uno muricciuolo, che è dirieto appresso alla finestra della camera et per la finestra in camera entrerai , e quine ci potremo dare piacere prima che Scarsino sia venuto a dormire , perocché ogni sera dimorano in bottega sotto quella camera a tenere il giuoco più di sei ore. E come Scarsino sera per venire, avendo io chiuso l'uscio della camera, te ne andrai donde venuto serai. Franceschetto, che intende il luogo e quello ha provveduto che era molto agevol cosa a fare, disse: Et io verrò stassera, et acciò che io non possa esser sen- / tito, io non arò scarpe, ma in puntali di calze verrò, per andare più leggieri. Era questo Franceschetto della persona gagliardo, in tutte le cose, e con una spada in mano are' fatto vergogna a più di mille, e con questo corrente et ardito. La donna lieta steo fine alla sera. Venuta l'ora data, Franceschetto salito su per lo muro, in nella camera intrato , dove trovò madonna Giandina apparecchiata , con cui Franceschetto si die sommo piacere più volte prima che Scarsino si partisse dal giuoco, e venuta l'ora che Scarsino a dormire se ne volea andare, chiuso l'uscio a quelli che v'erano, e montato la scala, madonna Giandina, che Fran- Iceschetto avea di sopra, fornendo il suo fatto, in tanto Scarsino giunse alla camera. La donna, che s'avea levato il carico d'ad- dosso, partitosi Franceschetto e per la finestra uscito, la donna a Scarsino aperse, e tornato Franceschetto a casa del padre, avendosi dato piacere e diletto con madonna Giandina, et in nel- l'ultimo pensando che Scarsino vel dovesse aver trovato , dicea fra sé: Io non vi resterò omai tanto, che a sì stretta ora mi coglia. E passata la notte, dienno ordine con certo segno, che la donna, con una tovagliola che alla finestra metterà, Franceschetto saprà che ella contenta era. E non passava du' di che madonna Giandina volea che la produra Franceschetto gli cavasse, e di- morando per tale maniera, non restava però che madonna Gian- ) dina , oltra l'usare che con Franceschetto facea , che con altri per mutare pasto talora si godea, e come la fortuna volse, una sera che Franceschetto montava su per lo muro, Scarsino, es- sendo uscito alquanto fuori per orinare, vide Franceschetto che I DE CIECO AMORE 227 per la finestra era intrato. Non dimostrando niente, lassa la donna sua prendere consolazione a beli' agio , dimorando alquanto più che non solea; e quando gli parve a Franceschetto tempo di doversi partire, per la finestra uscio. Scarsino, che stava a ve- dere dove colui entrava , e' cognobbe chi era quello che colla moglie era la notte stato. E mandati quelli che giocavano, andò Scarsino a letto, dicendo alla moglie : Io mi penso che stasera abbi auta la buona sera senza ch'io n'abbia sentito. La moglie dice: Forse potresti dire il vero. Scarsino dice: Orche modi tieni, quando vuoi che l'amico vegna a dormire teco? La donna dice: Metto una tovagliola alla finestra, et egli è avvisato e viene per quella finestra dirieto. Scarsino dice: Almeno, poiché cosi ti vuoi contentare, dovresti almeno spettare che altri non fusse in casa. La donna disse: Io veggo che dici vero, io noi farò più. Scar- sino, ch'è mal ventriglo (1), la mattina dice alla donna che vada per la sera a stare a casa della sorella, perocché lui pensa d'aver qualche cosa dì vantaggio. La donna dice: A tuo piacere, et an- data ,~che~anTr7i5rserrféT a casa della sorella , Scarsino , fatto disfare lo solaio rasente a quella finestra , dove Franceschetto entrato era, et avuti suoi ladroncelli, coll'arme in nella bottega di sotto alla camera li misse, e lui avendo fatto colla tovagliola segno a Franceschetto che venisse, Franceschetto la sera dove più volte andato era, vedendo lo lume in bottega, come l'altre volte veduto ve l'avea , credendo trovare la donna e credendo, per lo lume che vede, siano persone che giocare debbiano, senza alcuno sospetto montò in sulla finestra, e credendo scendere si- curo, come già fatto avea , al mutare del passo , lo solaio , che levato n'era, gli venne meno, et in bottega fu caduto, là u" Scar- sino con quelli ladroncelli era". E colpendolo di molti colpi, l'uc- cisej[2) e poi in nel luogo comune lo gittò, né mai di lui il padre non ebbe sentimento, posto che dalla (3) maggior parte della vicinanza e d' altri, per l'usanza che madonna Ciandina facesse, fusse fatto morto, e per paura neuno osa dire. Chi s'ebbe il male si sei pianse, e madonna Ciandina pensò d'un altro. (1) Così nel ms. (2) Ms. : uccìsero. (3) Ms.: la. 228 NOVELLE r»r Giovanni sercambi 65. [Triv., no 96]. DE CATTIVITATE STIPENDIARJ. Essendo la guerra fra Pisa e Firenza dopo la morìa del mille trecento sessantatre, Pisa facendo molti soldati da pie e da ca- vallo et Firenza altresì soldava e dava soldo a simile genti per poter ciascuno di loro, cioè il comune di Firenza contastare et offendere il terreno di Pisa , cercando d'aver caporali niraici a spada tratta di Pisa e delle terre a lei sottoposte. Et simile Pisa x>r\ ^ pensò d'aver la compagnia dell'inghilesi, della qual ne fu prima -'■t+yoj capitano messer Albert, coi~quaTr^sa grande onore ebbe. E perchè Pisa vedeva che Firenze avea preso molti usciti di Pisa et di Lucca per capo e guida di parte delle loro brigate, pensò il comune di Pisa aver capi di fanti da pie che fosseno di Firenza ^ cordiali nemici, mettendosi a sentire se in luogo alcuno ne fusse, di che Pisa sì potesse fidare, che ne fusse ben servita. Et avuti certi cognoscenti del paese di Firenza che ne mettesse loro alle mani alcuni con profferire buon soldo, et andati alcuni per sen- tire di tali capi, scognosciutamente si trovonno in Firenze, dove molti malcontenti ve ne trovonno e che volentieri si sarebbono partiti da Firenze, se avessino potuto la lor vita Jraricare, altro che per via di soldo o d'altro mestieri, che a loro fusse messo innanti. Et in fra li altri che in Firenza fusse malcontento fu uno de' Peruzzi nomato Folaga, omo di smisurato corpo, che non • si sere' sazio di un__paiuolo di maccaroni , tanto francamente si ■y portava in sì fatte guerre, né miga si sere' mosso per cinquanta fanti quando sei ponea in cuore. Et sentendo Folaga, et alcuni come lui malcontenti et di gagliardia pari (1), quello che il co- mune di Pisa ricercava, di voler caporali valenti per contastare ^ al comune di Firenza, pensò volere questo procaccio fare con un suo discreto amico nomato il Tromba de' Salviàti, di Firenza nato. E avutolo in secreto, disse: 0 Tromba, io vorrei che noi pjrocaccias- ' Simo d'andare al servigio di Pisa, perocché io sento cìie vogliono omini da fatti e nimici di Firenza, e tu sai quanto io sono va- I (1) M.S.; d'alcuni come lui malcontento et di garjiardia di pari. DE GATTIVITATE STIPENDIARJ 229 lente, che sai che a tutte le mischie che stato sono sempre, quando fu mangiato, abbiamo poi largamente bevuto. Et non so chi possa meglio servire questo fatto che noi. Dice Tromba, che non meno che Folaga era valente : Io sono contento di tale soldo prendere. E però è bene che noi parliamo con certi secreti che ci sono venuti da Pisa e diciamo loro che non potranno trovare in Fi- renza né altri due più valenti né arditi di noi, ma ben diciamo loro che di Firenza non ci cavino a un'ora, perocché se la co- munità di Firenza lo sentisse che tanta fortezza n'uscisse quanto è la nostra, che agevolmente lo comune di Pisa non ci potrebbe aréfénr però è bene che di tutto s' informi chi ci è venuto. Folaga disse : Va e menamelo, et io gli parlerò alto, per modo che c'intenderà. Tromba, che volontà grande ha di provarsi della persona, subito trovò quello che secretamente a Firenza andato era, dicendogli: Folaga de' Peruzzi, omo di gran virtù, ti vuol (lire alquante parole di secreto, che altri che noi e tu vogliamo che ci sia. L'amico andò con Tromba dove Folaga trovonno, che per esser più gagliardo aveasi fatto venire dinnanti, perch' era sabato, una gran padella piena di maccaroni. E sbottonatosi d'innanzi,~a'cavalcioni in s' una banca per mangiare si stava, e già n' avea più che la metà mangiati , che più di sei n' arenno avuto assai. E non restando il mangiare, sopraggiunse il Tromba col compagno, li quali come mangiava videno: — Folaga, Tromba gli disse, 0 per noi non ce n'ha? Folaga dice: Assai ve n'é ser- bati, ma, che cotestui vegga quanta valentia regna in me, ho fatto fare questi maccaroni, dicendo a Tromba che prenda quelli che in una cassa avea messi in du' grandi catinelle; perse e per lo compagno li apparecchiò. Folaga, che mangiato ebbe quella grande padellata di maccaroni, disse : Ornai potrai fare relazione che tu hai trovato il più valente campione che in Firenza sia, et quello che più nimichevolmente Firenza disfarà, narrandoti che cinquanta persone non mi faranno muovere più che io vo-^ lessi ; et cosi come vedi la mia persona bella, grande, forte, cosi pensa che tutte l'altre virtudi cardinali regnano in me e non; pensi il comune di Pisa di poter trovare omo di maggiore for- tezza di me, né più securo, che quando io dormo non curerei dugento persone bene armate, essendo io pure con una corazza indosso. Sappi che farei quando io non dormisse e fosse col ta-; volacelo e con tutta l'armadura ! Dicendogli : Io sono della più valente casa di Firenza, e sono tanto valente, che se il comune di Firenza sapesse che tanta forza, quanto è la mia, di Firenza i^ 230 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI si partisse, non mi lasserenno per dinari : ma perchè i fiorentini non amano i miei parenti, e per la fortezza mia li lassono stare qui, io non li amo. Et se pure mi dispongo a venire, io et il Tromba, che quasi in tutte le valentie a me s' accosta, salvo che non è così grande, ti dico che non ci meni a un'ora, che non si potre' fare tanto celato che le nostre forze non si sentisse e non aresti quello che cercando vai. E fino avale ti dico che io voglio con- dotta di cinquanta fanti e per lo Tromba venticinque, giurandoti che noi spaccieremo tutto ciò che ci verrà dinnanti, se ci venisse tutta la masnada di Firenze da pie e da cavello. L'amico dice: Io sono contento che tu. Folaga, abbi condotta di cinquanta fanti, et il Tromba di venticinque, et sono avvisato che prima per te si mandi e poi pel Tromba; e ben che il Folaga avesse sé molto vantato, l'amico dicea lui esser grande, giovano e ben fatto, et anco è d'usanza de' Fiorentini dire se sono gagliardi; e cosi si partio di Firenza e tornò a Pisa e raccontò tutto ciò~^e avea trovato. J^Ma perchè del Tromba al presente non vi dirò in questa novella, I ma in altra lo conterò, tornerò al Folaga, che fattolo venire a Pisa e datogli condotta per cinquanta fanti, fu con alquante bri- gate da cavallo e da pie mandato a danneggiare in sul terreno di Firenza in nel vai d'Arno di sotto, e come il Folaga fu fatto apparecchiare e dato loro dinari e fatta la mostra in sulla piazza di Pisa, Folaga dicea: Omai si parrà la valentia che Folaga de' Peruzzi farà, che vegna chi vuole, non mi troverà che mai mi serri, né mai per genti che addosso venire mi vegga non muterò passo, né per prigione non m' arrenderò, dicendo alli altri che faccino come lui. E dopo molti vanti usciti di Pisa e caminato apresso i monti e quine mangiato di vantaggio ognuno e mas- simamente Folaga, che avea più di dieci'pani con più d'un quarto d'agnello diluviato, si missero a camminare in verso Montetopoli, dicendo: Omai siamo in sul terreno di Firenza, a che ciascuno conviene essere valente; Folaga, che^,^à^ lajpaura gli fa stancare et anco lo molto mangiare della mattina gli avea avallato il pasto della sera, e venutagli volontà di vuotarsi quel saccojristo, si discostò solo, lassando i compagni in sulla strada, e calatosi le mutande et alzatosi li panni per voler l'agio suo fare, ung rastej- Jetto, che alle reni dava d'accosto, gli prese li panni. Folaga, che pensa che siano i nimici, dice: Io m'arrendo prigione, e me e cinquanta compagni, che meco sono. Lo rastello li panni gli tiene, Folaga replica le parole, che lui s'arren(Tè£rcon cinquanta com- pagni ; a niente gli è risposto; Folaga, che sta appiccato al rastello. DE CATTIVITATE STIPENDIAR.! 231 cominciò a gridare dicendo: Soccorrete il Folaga, che le male genti l'hanno preso dirieto, che dinnanti non hanno avuto ardire di venire. I compagni et altri, al romore che Folaga fece, tras- seno là, e trovonno Folaga esser preso da uno rastello per lo culo dirieto, avendo ancora le brache calate. Dissero : Odi buono van- tatore, che prima dicea che per tutto il campo de' fiorentini non si volgerà, et ora s'ha lassato per lo culo a uno rastello prigione prendere. E non che lui s' arrendesse , ma ancora arrendea li cinquanta suoi compagni! Or vedete valente persona da guidare brigate in campo! 232 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI 66. [Trir., nn 97]. DE VILTATE. Come avete sentito il bisogno che Pisa avea di fare soldati, avendo condutto quello valentissimo Folaga e fattolo capitano di cinquanta fanti e mandato per Io compagno nomato Tromba, il quale condutto era con venticique compagni. E giunto colui che condurre dovea Tromba a Pirenza, narrandogli che il comune di Pisa volea che subito si mettesse in camino perocché l'oste tra Pisa e il comune di Firenza era cominciata, e che già~Fò^ laga era caminato alla guerra, dove pensava avere grande onore, come a suoi pari s'appartiene, e però s'affrettasse nel caminare. Tromba, che già avea i suoi, preso pensieri, disse che di quine a du' dì se ne verrebbe verso Pisa. Lo 'mbasciadore disse : Et io per lo bisogno che Pisa hae di te, t'aspettarò. E mentre che lo 'mbasciadore spettava Tromba, riceveo una lettera da Pisa con- tenente che si desse a sentire i modi che quel capitano di ven- ticinque fanti, nomato Tromba, tenea, acciocché di lui non pos- sano ricevere biasimo né danno, come di Folaga s'è ricevuto. Inteso lo 'mbasciadore tale novella, sollicitando Tromba che si mettesse in camino dicendo : Noi staremo troppo ad andare dove il campo è contro i nimici, Tromba dice: Se io mi coniungo con Folaga, sia chi si vuole, che noi lo (1) mettiamo per ferra, di- cendo allo 'mbasciadore: Ornai puoi cominciare, che io sono presto. Avea Tromba per andare orrevole a Pisa venduto tutto ciò che avea et fatto dinari et comprato cavallo, armadura et arnesi, et molti se ne misse in borsa, che a tempo e luogo gli faranno bi- sogno. Montati tutti e du' a cavallo e messi in camino per ve- nire verso Pisa, facendo la via da Pistoia, e quando funno al Poggio a Gaiano, Tromba volle bere et alquanto mangiare. Lo 'mbasciadore di Pisa nota tuttociò che il_. Tromba fa per la let- tera avuta, e passato in sulla strada presso Pistoia, Tromba, che un omo vede che in sulla strada si pone a voitarsi il corpo, perchè molta uva mangiato avea, facendo quine assai di quella trista ma- (1) Ms.: non. DE VILTATK 2:H3 teria, Tromba che ciò vede, volge il viso verso Prato. Lo 'mba- sciadore disse: Or perchè hai volto il viso verso Prato tanto disdegnoso? Rispuose il Tromba: Per mia valentia, che mi parea\ vedere circa cento e io, poco curandoli, mi volsi quasi a dire, \ per cento non mi muoverei. Lo 'mbasciadore sta a vedere e tutt^ 1 nota per non averne riprensione, e passato alquanto. Tromba vede ' colui della strada essersi partito et avere lasciato assai buona piumata. Il_Trqmba portava il capo alto, colli occhi al cielo, quasi ^ tra se dicesse: Io non vedrò quella puzza. Lo 'mbasciadore dice: TrombaTor che"vuòl"dire che cosi colli occhi e colla testa vai alto verso il cielo? Il Tromba dice: I' vo' che sappi che sen- tendomi tanto gagliardo stimo me poter salire in cielo. Lolmba::. sciadore, senza dir niente, tutto ciò che Tromba dice e fa, nota. In nel camino suo e venendo verso" Pistoia, Tromba, essendo presso quella nera euligine [che] era da quel poltrone lasciata y^ in sulla via, non volendo (1) vedere, il Tromba si volge verso mezzodì. Lo 'mbasciadore, che vede il Tromba volto verso mez- zodì, disse : Deh Tromba, non ti basta avere veduto il cielo e la terra per altezza e lunghezza, che anche per traverso veder la vuoi? Tromba dice: Io mi sento tanto gagliardo, che non che le parti di qui mi dica il cuore di conquistare, ma le parti barba- resche vincerei. Lo 'mbasciadore nota ciò che dice e fa, per poter a' suoi signori di Pisa fùTEo^idiro. Et non molti passi andati fu- rono, che Tromba disse, essendo presso, ovvero sopra a quello fastidio, voltatosi verso la marina per quello non vedere. Lo 'mbasciadore si maraviglia, che tanto lo vede mutare; disse: Deh Tromba, narrami perchè verso la marina ti se' volto. Tromba dice: Così come Alessandro signoreggiò la terra, l'aria e l'acqua, così intendo io di soggiogare per la mia valentia. Lo 'mbascia- doreJjiltQ_jn nel cuore in nota mette, e passato piìnJT'una git- tata di pietra lo sterco, che TnT sulla strada era, senza che Io 'mbasciadore di niente avveduto se ne fosse, avendosi Tromba posto in nell'animo di non veder più tal tristizia, passati, com'è ditto, più di una gittata di pietra. Tromba, rivoltosi per vedere quello che vedere non volea, fu mosso da ira e da poco senno voltando il cavallo subito, quasi come uno moscone punto l'avesse ritornò indirieto. Lo 'mbasciadore, che vede il Tromba furioso tornare arieto, pensò doversi tornare senza lui, dati di sproni (1) Ms.: volerla. 234 NOVELI-E DI GIOVANNI SERCAMBI al SUO cavallo, sopraggiunse. Il Tromba, che già del cavallo di- , sceso era, e ginocchioni stava con arabe le mani alli occhi ster- 1 pandoli (1) dicendo: Sfamatevi a vedere, sfamatevi a vedere ; et questo disse più volte. Lo_^mbasciadore,, che anco accorto non s'era dello sterco, stavasolo^lflitti a vedere che Tromba facea, ( per poter a Pisa ogni cosa raccontare. E stato alquanto. Tromba, calata la faccia, colli occhi aperti e colla bocca in su quella piota, di merda die per sì gran forza, che tutta la bocca, il naso, li occhi et tutta la faccia se ne impieo dicendo: Or ti sfama, dan- dovi più volte. Lo 'mbasciadore, che alquanto da lungi stava, non potendo alquanto bene comprendere il modo, disse di do- mandarlo: e venuto presso a lui, vedendolo sì merdoso, gli disse : 0 Tromba, or dove se' stato, poiché da me ti partisti, che se' sì merdoso? Tromba disse tutta la maniera dal principio che funno passati al Poggio a Calano fine al punto dicendo: Or come non mi sazierei delle genti, che sono tanto valenti, s'io d'una poca di merda non m'avesse saziato ? Lo 'mbasciadore tutto nel cuor no- tato, av-fìa, e montati a cavallo, a Pisa ne girono. Lo 'mbasciadore narrò tutte le convenenze che il Tromba avea fatte. Li pisani cognovero di vero costui essere simile al Folaga, dispuosero di dirgli che fine che il Folaga tornava stesse in Pisa a darsi pia.- j cere senza soldo e dappoi che tornato sere', volevano che amendue fusseno capitani generali di tutta l'oste. Tromba lieto, l'aspettare non gli rincresce, fine che dinari ebbe in borsa. Lo comune di Pisa, tenendo sempre il Tromba sotto speranza che il Folaga tornasse, e' per questo modo consumò tutto e niente rimasegli. Fu costrètfo [andar] per lo pane, che d'altro non era. I (1) Così il codice. DE FALSITATE MULIERIS 235^^ ^ 67. '■■''' ^M [Triv.. n» 98]. DE FALSITATE MULIERIS. Del tempo che '1 duca d'Atene signoreggiava la città di Fi- '^ renza per parte, di^cìttà fiTscacciato uno cittadino, in fra IfanriT nomato Azzo de' Pulci, omo assai di bona pasta et con questo molto vago d'usare con femmine ; e capitato solo senz'altra com- pagnia, perocché non avea moglie, a Ancona, dove quine prese < una fantesca di mezza età, nomata Giorgiana, la (1) quale, ollX,e L,, l'altre masserizie ch'ella facea, con Azzo alcuna volta carnai- i' mente usava. E ciò stante, che Azzo con Giorgiana spesso si tro- vasse, piacendogli alcune donne anconese, con Giorgiana trovava modo spesso d'averne quine per dinari, e quando per amore, con tali Azzo si dava piacere, ne altra mercanzia parea che in Ancona facesse se non in darsi piacere. Et stato Azzo ad An- cona più tempo e con lui Giorgiana, divenne che '1 duca d'Atene di Firenza fu cacciato. Per la qual cosa Azzo diliberò in Firenza colli altri ritornare, e menato seco Giorgiana a Firenze e stata alquanto tempo, fu Azzo costretto dai suoi parenti a prendere donna, per la qual cosa Giorgiana convenne lassare, et ella se n'andò a Vinegia, dove quine si pose a stare per fante. Avendo Azzo preso donna et andato alla masserizia, come poco pratico di mercanzia, diliherò andare a Vinegia, poiché colla donna stato fu più anni, e messosi fiorini cinquecento novi in borsa, camino verso Vinegia, per quelli spendere in qualche buona mercanzia. Giunto Azzo presso Vinegia e statovi alcuni dì in uno albergo presso a San Marco, venendo il sabato, dove gran mercato di più cose in sulla piazza di San Marco si fa, Azzo, che tante belle cose vede, non sapendo pensare qual mercanzia facesse per lui, domandava delle perle di pregio, mostrando quelli fiorini cin- quecento nuovi, dicendo che quelli volea spendere, e non accor- dandosi, andava provvedendo gioielli, |robe, fregi, speziarle, et a tutti quelli fiorini cinquecento mostrava e con neuno si sapea accordare. Era in Vinegia una Giorgiana d'anni 25, meretrice. (1) Ms.: colla. 236 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI la quale per madre e per padre fu d'Ancona, in una contrada dove molte sue pari si riducono a guadagnare per servire ad altri, e quine v'è molti rofiani. Coloro dimorano presso a Rialto in una via assai a quel mestieri atta. Vedendo questa giovana quelli fio- rini che Azzo andava a uno giovano del mercato mostrando, fra sé disse: Se io avessi quelli fiorini, io serei ricca; e non par- tendosi del mercato per veder quale camino Azzo fa, per poter al pensieri suo dare effetto, sopravvenne Giorgiana fante in mer- cato, e conosciuto che ebbe Azzo, subito corselo ad abbraciare e basciarlo facendogli somma carezza. E domandandolo di molte cose, Azzo tutto gli dice, e la cagione perchè a Vinegia era ve- j nuto; e quine u' erasi posato et in quale albergo. La giovana an- conetana meretrice, che vede Giorgiana d'Ancona fante fare I tante carezze a Azzo, pensa da Giorgiana sapere quello volea. E partitasi Giorgiana d'Azzo, avendogli promesso di mandargli al- l'albergo una gentildonna veneziana per godere, s'è partita da lui: quella giovane meretrice che cognoscea Giorgiana, e Giorgiana lei, la chiamò dicendole chi era colui che tanta carezza gli avea fatto. Giorgiana gli dice tutto come ella era stato con lui in An- cona quando era stato cacciato Azzo de' Pulci di Firenza al tempo del duca d'Atene, e che l'avea molte volte avuto addosso, che / Azzo era molto vago di femmine,' in tanto che per mezzo^dijn^ J in Ancona, ne toccò più di venticinque, e fra le altre io gli fa- cesse avere, fu una donna vedova, gentile e ricca, nomata ma- donna Nicolosa de' Calcagni d'Ancona, donna bellissima, e quella più mesi tenne, dandosi insieme piacere, tanto che ritornò a Fi- renza, là dove con lui andai. E perchè prese moglie, mi convenne abbandonarlo e non lo vidi poiché da lui mi partii salvochè ora, J ch'è caregato bene |di] cinquecento fiorini nuovi, li quali m'ha mostrati, e sotti dire che stasera gli farò avere una gentile gio- vana, che '1 marito è patrone della galera del mercato, et anco penso mi varrà una gonnella'. La giovana meretrice anconetana, che tutto intese, dice a Giorgiana che vada a fare bene e preso t- pensiei'i quella_Ja]setta, subito mandò una fanciulla, di quelle che l'arte le facea imparare. Et all'albergo, dove Azzo era, la mandò, mandandogli dicendo: Una gentil giovana vi vuole parlare, la quale m'ha pregata che io a lei vi meni. La fanciulla, che già era falla maestra, disse: Lassate fare a me. E giunta all'albergo dove Azzo de' Pulci era, domandando d'Azzo, Azzo, che si vede richie- dere, disse: Che vói ? io sono Azzo de' Pulci di Firenza. La fanciulla disse: Una gentil giovana vi manda pregando, poiché '1 marito DE FALSITATE MULIERIS 237 SUO non è in Vinegia, che a lei vegnate, che io da voi non ini parta, che la via v'insegni. Azzo, che gli pare essere molto avventurato, dice: Per certo qualche bella giovana m'ara veduto, e serassi di me innamorata, perocché in Vinegia non è omo più bello di me; e dice alla fanciulla ; Fa la via et io vegno teco. La fanciulla lo guidò dove la giovana meretrice era , la quale es- sendo ben vestita et in capo di scala spettando Azzo, Azzo, entrato in casa , dove credea che fusse in nella più onesta contrada di Vinegia, salio la scala: la giovana scesa alquanti scalini, subito I injronte basciò Azzo, e preselo per la mano, e con alcune pa- jl rolette lo menò in camera, dove quine era uno letto tutto ador- I nato di fiori e d'altre cose odorifere e con bellissimi adornamenti. I Azzo, che vede tanta adornezza, sperando quella giovana godere ' in tal letto, disiava essere tosto alle mani. La giovana, rivoltata ad Azzo, basciandolo con lagrime alquanto gittate, Azzo, che vede la giovana lagrimare, disse: Io mi credea venire a prendere pia- cere teco, et ora io veggo che tu di dolore pare che abbi il capo pieno. La giovana dice : Io ho oggi la maggior allegrezza che mai io abbia [avuto, avendo] veduto colui che mai non vidi e quello che m'angenerò. Azzo, che tali opere ode dicere: Deh, perchè dici tu tali parole? La giovana dice: Io sono certa che voi mio padre siete e ben mi meraviglio che di tanto tempo quanto voi fuora d'Ancona siete stato, che la(l) mia dolce mamma madonna Nicolosa de' Calcagni d'Ancona, vedova in quel tempo che ad Ancona dimoravate, di voi mai niente sentì, né io vostra figliola nata di quella mamma senti' di vostro essere, salvo che oggi la buona fortuna mi v' ha messo innanti. E per lo dolce amore che la mia dolce mamma vi portava, mi puose nome Azzina figliola d'Azzo de' Pulci, per padre, da Firenza, per madre d'An- cona : et abbracciato Azzo di tenerezza, dimostrò ad Azzo molto amore; e rizzatasi disse: 0 padre optimo, non pensate, perchè io ingenerata fusse da voi in nel corpo della bella madonna Ni- colosa de' Calcagni, cui voi tanto amaste, che non meno cara mi tengo d'esser vostra figliuola che se di marito legittimo nata fusse, perchè voi oltra li altri di Firenze d'onore portate pregio ; e la mia dolce madre et a voi dolce amica madonna Nicolosa sopra l'anconetane donne di bellezza, gentilezza, onore portava nome e me per la sua ricchezza ha maritata tanto magnamente che (i) Ms.: alla. 238 NOVELLE DI GIOVANNI SERGAMBI fine a qui ne sento. È ben vero che '1 mio marito per fare grandi guadagni ha fatto buona compagnia et colle navi è ito a gua- dagnare, ne non so signore che non dovesse stare contento tro- vare, come avete trovato voi, una figliuola tanto savia, onesta, gentile, e ben maritata come Azzina vostra figliuola, la quale ora è quella che per amore vi bascia. E presolo, lo basclò. Azzo, che ha udito a costei contare tutto quello che maife', disse: FigHuola, io non arei mai né te né altri richiesto per figliuola, perchè mai tua madre niente mi mandò a dire. E questo dicea lagrimando, e poi disse: Deh dimmi, nata dolce, come hai saputo questo fatto, perché io debbia esser tuo padre? Azzina dice: Mia dolce madre più volte mi disse che io figliuola era d' Azzo de' Pulci da Fi- renza, ma per non vergognarsi non volse mai scrivere di me: ma di punto in punto mi disse : et ora io cognosciuto non v'arei, se non che una fantesca nomata Giorgiana d' Ancona, avendola più volte pregata che se qui veniste mei facesse assapere, e però v'ho cognosciuto, dolce mio genitore. Azzo, che per fermo crede d'essere padre di Azzina, lieto [si] dimostrò. Azzina, essendo presso a cena, ad albergo volle che Azzo rimanesse, il quale accettato, credendosi essere con figliuola, e ad albergo in una camera fu messo, dove per lo gran caldo si spogliò et in giubbettino, trattosi ogni panno e quelli fiorini cinquecento che in una scarsella avea in su una cassabanca lassò. Et volendo il suo agio fare, mostratogli per quella fanciulla il luogo dove ponendosi a sedere [il potre'J, in nel canale cadde, in nel quale gridando, uno rof- fia no facendosi alla finestra disse: Se non ci lassi dormire, io verrò costaggiù e darotti di molte bastonate. Azzo dice: Deh fate che mia figliuola Azzina senta come io sono qua caduto. Li vicini disseno: 0 buon omo, per lo meglio che puoi, briga di partirti di costì, se non vuoi esser morto, però quine u' tu se' sono genti di assai cattiva condizione. Azzo, vedendosi a mal partito, meglio che potea del canale uscio, e addomandando se ne andò all'albergo e con alcuni suoi amici si dolse del caso, dicendo: Una giovana nomata Azzina m'ha ingannato. Li amici disseno: Abbi per certo Che in questa terra non è donna che Azzina si faccia chiamare; ma tu sarai stato beffato, come già ci sono stati beffati delli altri. Azzo, malcontento, senza mercanzia e senza dinari, a Firenze si ritornò. DE MAI.ITIA HOMIXIS 239 68. f " [Triv., n" 99]. DE .MALITIA HOxMINlS. In Fisnelle contado di Firenza era e anco è uno monesterio de donne assai famoso per la loro santità, lo quale non nominerò per non dimjnuire in parte la loro fama, in nel quale erano otto mònaclie giovane con una badéssa assai giovana, le quali per loro ortolano aveano uno famulo assai simplice. E non contentandosi del salario, che a lui dato era, fatto conto e ragione col castaido delle monache, a Lamporecchio^ donde egli era, ritornò. Il quàT, tra gli altri, lietamenté'fu ricolto da uno gioA^ano forte e robusto, essendo omo di villa, con viso assai piacevole, il cui nome era Mustachjp. Domandando a quello, che Nuto avea nome, donde era venuto che tanto tempo era stato senza ritornare, disse come era stato in nel tale monistero lavorando l'orto, et alcuna volta attingea loro dellacqua et andava al bosco per legna, di che, dandomi poco salario, et anco perchè mi paiono tanto giovane che abbino il diaule addosso, e per la ricada (1) che mi davano, mi partii, che mentre io lavoravo venia l'una e tolleami la zappa, e dicea: Questo non sta bene; e l'altra distendea la mano e sca- vava li erbucci che io messi avea dicendo: Questi non voglio qui stare. Et era tanto questo affanno, che di liberai di partirmi. E quando me ne venni, mi pregò il loro castaido che, se io tro- vasse uno, che là lo mandasse. Mustachio, udendo le parole, gli venne in nell'animo una voglia si grande di trovarsi con quelle monache, comprendendo per quella andata potergli venir fatto il suo pensieri, e pensò niente dire a Nuto perchè fatto niente gli verrebbe, ma di trovare altro modo pensò, e secretamente da Lamporecchio si partio, con una scura in collo, mostrandosi mutolo, e camino al monistero ditto, dove quine per amicco chiedea y da mangiare. Il castaido, omo di servigio delle monache, lo vede, con amicchi lo chiama in nel chiostro, e datogli mangiare, uno legno che Nuto fender non potè il castaido al mutolo fender lo fé'; lui come giovano così fé'. E preso il castaido piacere del mutolo, con uno asino al bosco lo menò e con amicchi le legna (1) Sic. Fnrsp iir,a4a? Ma 4 del tempo e dell'uso toscano? 240 NOVELLE DI GIOVANNI SERGAMBI gli fé' tagliare et al monistero portarle. Et avendo il castaido a fare fare molte cose, più giorni lo tenne, dandogli ben da man- giare e della fatica assai. Avvenne che un di la badessa lo vide dimandando chi era, il castaido disse: Costui è uno mutolo po- vero, che venendo per limosina, ne l'ho fatta, et hogli fatto fare molte cose che bisognavano, e penso che saprà lavorare che se n'ara buono servigio e anco perch'egli è mutolo non potrà queste vostre monachetto motteggiare. A cui la badessa disse : In fé' di Dio tu dici il vero, et è bene che noi il ritegnamo, e tu fa che gli dii qualche capellina vecchia. Mustachio, che presso era quando la badessa'~ciò dice, in fra sé medesmo dice: Costà dentro mi mettete, io vi lavorerò il vostro orto che mai sì bene non vi fu lavorato. Lo castaido domandando co' cenni Mustachio se quine dimorar volea, lui co' cenni disse si, imponendogli che l'orto lavorasse, e poi andò a fare suoi fatti. Et avendo alcuno di incominciato a lavorar l'orto, le monache comincionno a fargli noja, come soleano a Nutò fare, dicendogli le più scellerate pa- role del mondo, non credendo che lui le 'ntendesse. La badessa, che stimava senza coda fosse come senza lingua, di quelle parole poco si curava. Due giovane monache, che per lo giardino an- davano, s'appressarono a lui, facendo [egli] sembiante di dormire; cominciarono a risguardarlo. L'una, ch'era alquanto più baldan- zosa, disse all'altra: Se io credessi che mi tenessi credenza, io ti direi alcuno mio pensieri, che più giorni noe avuto, e forse che a te ne tornerà utile. Rispuose l'altra: Di' sicuramente. Al- lora la baldanzosa disse: Tu sai come noi siamo tenute strette che omo"éhtrare non ci può, e tu dèi sapere, quando le donne sono venute , che hanno ditto che altra dolcezza è nulla a rispetto di quella dell'usare collomo; e però m'ho posto in animo, poiché altri entrare non ci può, d'usare col mutolo nostro, perchè mi pare che da ciò sia, et perchè volesse non lo potre' dire, e però da te vorrei udire quello che a te ne pare. — Ohimè, disse la compagna , non sai che noi abbiamo promesso a Dio virginità? Ella rispuose: Quante cose s'im promettono che no s'at- tegnono! Che se noi gliel' avemo promesso, trovi un altro che l'attegna. La compagna disse : 0 se noi ingravidassimo ? come andrebbe? Rispuose: Tu pensi la cosa prima che avvegna: e quando venirà allora [ci penseremo] (1). Ella disse: Or come (1) Qui il ms. dice: se quando venire alora come allora. Ho cercato ca- varne un senso. DE MALITIA HOMINIS 241 faremo? A cui colei rispuose: Tu vedi che d'in sull'ora che le monache sono a dormire in nell'orto non è persona; io lo pren- derò per la mano e condurrollo nel capannello dov'ei fugge quando piove, e l'una stia dentro con lui et l'altra faccia guardia. Mustachio udia questo, disposto a ubidire, che altro non spettava ; appressandosi la prima monaca, lui destò, e con atti lusTnghevoli preselo per la mano, lui facendo cotali risa sciocche, lo menò in nel capannetto, dove Mustachio, senza farsi troppo invitare, la fornio dj__vantaggio di quello che ella volea. Et ella, come leale compagna, avuto quello volea, diede all'altra luogo. E Mu- stachio, pur simplice mostrandosi, quella fornio, né prima da quel luogo si partirono, che più volte ciascuna da Mustachio fu fornita; e poi le monache tra loro ragionando che buona cosa era a provare l'omo, e che il loro pensieri era stata ottima cosa, da poi prendendo convenevole tempo, con Mustachio for- nirono loro volontade. Avvenne un giorno che una loro compagna da una finestra della cella avvedutasi, a du' altre monache gio- vane lo mostrò, tenendo ragionamento d'accusarle alla badessa ; poi mutarono consiglio, che accordatesi insieme, funno partecipi del podere di Mustachio come le prime, alle quali cose l'altre '< monache, per diversi accidenti, divennero compagne delle prime in vari tempi. Ultimamente la badessa, che di questi fatti niente sapea, andando un dì tutta sola per lo giardino, siando il caldo - grande, Mustachio trovò, il quale di poca fatica el di per lo troppo cavalcare della notte n'avea assai, tutto disteso all'ombra di uno amandolo dormiasi, e venendo alcuno vento, li panni le- v vati dirieto di Mustachio, stava tutto scoperto, il che la badessa riguardando, in nel medesimo appetito cadde | inj che le sue mo- nache cadute erano. E destato Mustachio, in nella sua camera lo menò, dove più dì [stette] con grandi querimonie delle giovane monache, afflitte che l'ortolano non venia a lavorare il loro ter- reno. La badessa riprovando quella dolcezza, che prima [inJ llìTtre biasimare solea, ultimamente la badessa lo rimandò al- l'orto con promissione ad amicchi che a lei ritornasse, rivolendolo e volendo la badessa di lui più che parte. Non potendo Mustachio a tante satisfare, s'avvisò che il suo esser mutolo gli potrebbe, se più stesse, in grave danno riuscire, e però una notte, stando colla badessa, cominciò a dire: Madonna, io hoe inteso che uno gallo basta a sei e dieci galline; ma che dieci omini possono male e con fatica a una femmina satisfare, dove che a me mi con- verre' servire nove, il perchè per cosa del mondo durare non Kehikk. \uifUe (li G. Strcambi. 16 242 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI potre', perocché per quello ho fatto non posso fare né poco né molto. 0 voi mi lassate andare con Dio o a queste cose trovate modo. La donna, udendo costui parlare, il quale credea che mutolo fusse, tutta stordì e disse: Che è questo che io credea che mutolo fussi? Mustachio disse; Madonna, io era ben così, ma non per natura. La badessa lo dimandò che volea dire che avesse servito a nove. Mustachio le disse tuttociò che colle mo- nachette fatto avea. Accortasi la badessa che l'altre monache erano state più savie di lei, che prima aveano assaggiato Mustachio che lei, pensò di non lassare partire Mustachio; et colle sue monache trovar modo acciò che tutte di pari si potessero con- tentare. Et essendo morto di pochi die il loro castaido, elessero Mustachio castaido, partendo le giornate per modo che Mustachio le potea sostenere, in nel quale monistero il ditto Mustachio acquistò molti monachini e cosi steo fine che la badessa morì ; e Mustachio, diventato vecchio, con molti dinari avuti da quelle monache a Lamporecchio ritornò, dove domandato quine u' era stato et come ch'avea roba guadagnato, rispondendo disse che Cristo trattava cosi chi corna sopra '1 capello gli pone. DE SUBITA HALITI A IN MULIERE 243 69. [Triv., no 100]. DE SUBITA MALITIA IN xMULIERE. Fu nej_cfliitaj3o,di Spoleto un donna nomata Turcora, nata assai di vii genti e maritata^ un lavoratore di terra nomato Orsuccio, il quale prendea diletto grandissimo, per avarizia, solo in lavorare et quello era il suo sommo piacere. Turcora, che di natura era fervente con darsi piacere talora con uno e talora con un altro, et in tale cosa molto si dilettava, lassando al marito il pensieri di lavorare e darsi della fatica quanto portare ne potea; Turcora, che per avarizia non volea esser dannata, disposta a spargere delle sue cose et anco di quelle che lo marito talora raunava, e in questo stava di continuo attenta a servire a chi ne doman- dasse, e questo modo la ditta Turcora tenea che con più e più spessissime volte s'era con piacere trovata abbracciata. E in tra li altri giovani che Turcora amava, e con cui ella più di continuo si ritrovava, era uno nomato il Riighia, il quale per bella e grande masseri2m_che di sotto appiccata tenea gli fu tal nome imposto. E spessissime vòlte Turcora con" lui trovavasi. Divenne che un giorno Orsuccio tornando a casa e l'uscio trovando serrato, per una fessura dentro riguardando, vide Turcora abbracciata con Rughia in su uno supidano^ il perchè, a Orsuccio tale atto dis- piacendogli, con furia percosse l'uscio. Rughia, che ode la voce di Orsuccio, dubitando dice alla donna: Noi siamo a mal partito. Turcora, rilevatasi, aprendo uno uscio che dirieto alla casa era, per una selva si fuggia. Rughia dirieto a lei ne vae. Orsuccio, che prima ha veduto il modo che la moglie tenea e poi ne l'ha veduta andare e il giovano dirieto, con furia l'uscio aprendo, e con una lancia dirieto alla moglie e al giovano correndo, ne fu ito. Rughia, come giovano, la donna passò. La donna, che si vede il marito con furia venire dirieto, stimando delle sue mani non poter campare, pensò con qualche scusa raffrenare la furia del marito. Orsuccio, che è sopraggiunto a Turcora, dice: Ahi me- retrice e cattiva, ora non potrai avere alcuna scusa di non con- fessare tu avermi fallito, poiché co' miei occhi ho veduto tu essere abbracciata con uno giovano prendendovi piacere, e per più vituperio ora te ne fuggivi con lui, ma mercè n'abbiano i 244 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI miei piedi che t'hanno qui giunta, dove farai conto dell'opre te- nute. Turcora dice: Deh, marito mio, ti prego che mi dichi la verità se meco in casa alcuna persona vedesti e poi se dirieto a me lo vedesti venire, perocché, se così fusse, sere' di bisogno che altro ti dicesse. Orsuccio dice: Deh, meretrice malvagia, come non vidi uno giovano che t'era addosso e tu lo tenei stretto ab- bracciato e come mi sentisti picchiare te ne fuggivi via, e il gio- vano ti venne dirieto e non l'ho potuto giungere, ma te pure ho giunta qui, meretrice, che ti volei con Dio andare? Turcora, con lagrime che sogliono gittare tali femmine, dice a Orsuccio: Omai cognosco che tutti n'andiamo a un modo, perocché mia madre mi disse quello che ora Orsuccio mio hai ditto, che quando io fusse presso alla morte che io serei veduta che parre' che uno mi fusse addosso, e poi che io me n'andasse via e lui mi venisse dirieto. E così mi disse la mia amorosa mamma che alla tua mamma divenne, e quando la mamma mia venne a morte, lo mio savio babbo vide quello che ora tu, vezzoso mio marito, di me veduto hai. E però ti dico, poiché tu me l'hai ditto, che mai non mi dicesti bugia, ti prego che prima che io muoia, che la vita mia non può esser oltra a quindici dì, secondo quello che alle mie ■/ antiche e parenti é intravvenuto, di mandare per un notaio, che io ^^ vo' fare testamento, e prima vo' che 'I mio corpo si sopgellisca ^ dove la mia^savorosa mamma fu soppellita, e la mia dota vo' che si stribuisca, in questo modo: et prima per l'anima di mio dolce padre vo' che si dia il poder della Falombra, e per l'anima della dolce mamma si dia il poder del Ventospazza con»tutte le pertinenze, et alla nostrii benedetta chiesa si diano le vitelletle nate delle mie vacche, et a Rusteco nostro lavoratore lascio la mia bella gonnella, et a Rughia della villa di buona misura gli lasso il podere, che del terreno di mia madre uscio, nomato (1) '- Frallermecóscie sicuramente; mentre che io vivo lolavori senza mancare, e quando serò passata di questa vita ne faccia quello che vuole. E perchè tu, Orsuccio mio, m'hai preditto che io morir debbo, non vo' che tu abbi de' miei fatti altro che quel podere cX^ si chiama il gombo di frate gabbo e quella vigna che si chiama la tigna della piacciola, altra cosa non vo' che abbi, poiché si giovana m'hai preditto che morire debbo. Erano questi du' poderi, oltra le triste cose che Turcora avea, le più triste. Narrato quello i\)U^.:u' .idee. ^ ^ ^^ h ^' A,i^\J^'<^'^ ■■^' DE SUBITA MALITIA IN MULIERE 245 che vuole che il suo testamento dica, dicendo a Orsuccio che prestamente per lo prete e per lo notaro vada; Orsuccio, che udito hae quello che la sua Turcora dicea, gli disse: Turcora, e' non è bisogno che tu tal testamento facci, perocché niente ho veduto, et quello t'ho ditto ti dicea per vedere quello che tu mi dicevi. Turcora con vezzi dice: Tu lo dèi pur aver veduto , quel giovano che m'era addosso; io ti prego, odore del mio sedere,/ che tu mei dichi, perocché io non vorrei morire senza pendenza. Lo marito giura non averla mai veduta; la donna gliel fa più volte giurare; Orsuccio giura. Turcora dice: Poiché tu mi dici il vero, io voglio stare contenta a quello dici senza fare testa- mento, e vo' che ogni possessione sia tua, salvo che per rimedio dell'anima di mia madre Rughia possegga la possessione mia Frallemiecoscie fine che io viva sarò, o lui ; et poi ritorni a te, odorifero marito. Orsuccio dice: Io sono molto contento, e con allegrezza Orsuccio ne rimenò Turcora a casa, dove poi Rughia possedeo tal podere senza sospetto a suo piacere. Turcora si confortava, lassando la fatica del lavorare al marito, lei dandosi buon tempo. 246 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI 70. [Triv., no 101]. DE MALA CORRETIONE. Nel contado di Parma, in una villa chiamata Boera, dove molte bestie grosse si menano a pasturare, era uno garzone d'età d'anni sedici , nomato Passarino , il quale avendo madre senza padre, perocché morto era, la qual madre era chiamata Gadonna, aveano molte vacche, con le quali la lor vita manteneano, guardandole in torma coll'altre il ditto Passarino. Et simile in nella ditta villa era una donna vedova nomata Narda , la quale solamente una figliuola bellissima"avea, chiamata Bellocora, d'età anni quindici, 1/ le quale eziandio di bestiame la lor vita cavavano, guardandole in torma Bellocora colle altre perchè a guardare le menasse. Essendo moltissimi mesi stati insieme a guardare vacche Passa- rino con Bellocora , un giorno in fra gì' altri , Narda madre di Bellocora dice alla figliuola che, se Passarino gli volesse montare addosso, non lo lassi montare, ma dimandagli che ti dia du' o tre caci e anco poi non consenti. Bellocora, ch'era pura, non sapendo che ciò volesse ancora dire montare addosso, disse a la Narda sua madre: Or che vuol dire questo montare addosso? Narda disse: Si io te l'insegnerò. Et postasi Narda in terra riversa , i panni alzandosi, le gambe aprendo, disse: A questo modo ti con- verrà stare ch'egli ti salirà addosso. La fanciulla disse: Cotesto J saprei io avale ben fare. La madre gli dice : Guarda che tal cosa non facessi, perocché io te ne pagherei; ma se Passarino ti di- cesse di volerlo fare, fatti dare li caci e poi non consentire. La fanciulla, che tutto ha inteso, gli pare mille anni che sia l'ora d'andare a mettere [fuori] le vacche. E stata alquanto, Passarino ^ giunge e dice: Bellocora, metti fuor li buoi. Bellocora presto li / buoi manda fuori et alla pastura con Passarino se ne va. Passa- rino, che senza alcun pensieri si sta , Bellocora gli comincia a ' dire : 0 Passarino, se mi vorrai montare addosso , tu mi darai Itre caci ; e questo ditt' ha Bellocora^caiit^do : Deh Passarino, se mi vorrai montare addosso, mi darai tre caci. Odendo cantare Passarino quella canzonetta, a Bellocora incominciò a rispondere in canto: Or [per] che modo si monta addosso, or [per] che modo si monta addosso? Bellocora, quello udito rispondere cantando, \ DE MALA CORRETIONE 247 gittatosi riversa e scopertasi , aperte le coscie , disse : A questo modo starò io, e tu starai di sopra, come mamma m'ha insegnato; et simile queste parole dicea cantando. Passarino, che era in nel tempo che la natura da sé medesima cognoscea quello che Bello- cora volea dire, gittatosi Passarino senza brache, che ancora por- tate non avea, giuso, per volergli montare addosso, Bellocora disse: Arrecami prima tre caci. Passarino, che già l'amore lo comincia a pungere, disse: Io andrò per essi, e mossesi et andò a casa, e senza che la madre il sapesse, tre caci a Bellocora portò, e a lei li diede. Bellocora quelli prese dando indugio a Passarino; la sera li caci ne portò alla madre. Narda, che vede che Bello- cora ha recati tre caci, la dimanda se Passarino addosso gli era montato ; ella disse di no, perchè io non volli, come voi m'inse- gnaste. La madre dice: Benedetta figliuola , or cosi fa sempre. Passarino, che già avea il core a Bellocora, tornatosi a casa, stava pensoso per Bellocora. Bellocora, che già il carnale appetito l'avea mossa, et anco il conforto della madre, e per beffare Passarino spettava l'ora di andare a mettere li buoi in pastura; soprav- venne che, essendo mal tempo, come d'usanza aveano di mettersi Passarino e Bellocora uno sacco per uno in capo, acciò che dal- l'acqua li campasse, cosi la mattina con ragione fenno. E solli- citando Passarino l'andò a chiamare. Passarino, col sacco in capo, mette fuori li buoi. Passarino subito mandati li buoi al pasto, n'andarono dove Passarino disse a Bellocora che si lasciasse montare addosso. Bellocora, dopo molto dire che Passarino fatto avea, disse : Io sono contenta ; ma prima vo' che tu mi baci il culo. Passarino, clieJ^mor^^li_avea_^ià accresciuta il senno, disse ch'era contento. E sempre piovendo, tenendo Passarino e Bellocora il sacco in capo, alzandosi Bellocora li panni dirieto, dicendo: Omai mi ti lassa montare addosso, Bellocora disse: Non farai, che mamma m' ha ditto che io non mi ti lassi montare addosso. Passarino scornato non può altro. Bellocora, ritornata alla madre, la madre dimandandola quello che il dì fatto aveano, ella rispuose, che Passarino gli avea baciato il culo e poi io non volsi che addosso mi montasse. La madre dice : Benedetta figliuola, or cosi fa sempre. Bellocora, che vede che la madre l'ha lodata, mettendo in canzone la persona di Passarino, quando fu tempo, andò a chiamare Passarino, dicendo in canto: Baciaculo e sacco in capo, metti fuor li buoi. Passarino, che intende, li buoi mandò al pasco, volendo montare addosso a Bellocora. Ogni di più volte il culo gli baciava, ne mai alcuna cosa da lei avere potea, nar- 248 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI rande a Narda sua madre ogni cosa et ella confortandola che tal maniera tegna, e di continuo Bellocora chiamando Passarino sempre gli dicea: Baciaculo e sacco in capo, metti fuor li buoi. Gadonna, che più volte ha udito chiamare il figliuolo a Bellocora, parendogli male, ebbe Passarino, domandandolo di tutto. Passa- rino gli dice tutto ciò che Bellocora gli avea fatto, e come Narda gli avea insegnato. Cadonna, che ha veduto lo strazio che al fi- gliuolo era siato fatto, diliberando di vendicarsi di tal fatto, prese una bella borsa, et a Passarino la diede dicendogli : Mostra questa borsa a Bellocora, et prima gli di', che tu vuoi mettere il tuo pincoro in nel suo c^mio, e poi gli darai la borsa. E quando ciò It^ai fatto, non gli dare la borsa, e torna a me, et io t'insegnerò quello arai a dire altro. Passarino, lieto, colla borsa se n'andò al pasco, mostrandola a Bellocora. Bellocora lo prega gliela dia. Passarino dice : Lassami- mettere lo pinco in nel conno tuo, et io te la darò. Bellocora, desiderosa della borsa, fu contenta e las- gossl ferrare, e piacendo a l'uno e a l'altro, più volte, prima che sera fusse, fenno il mestieri. Chiedendo Bellocora la borsa, Pas- sarino senza dargliela se n'andò a casa et alla madre raccontò tutto. La madre disse: Or se oggimai Bellocora ti dirà più quello che t'ha ditto, tu di' a lei, pinco in conno, e sacco in capo metti fuor li buoi. Et posto che Bellocora non avesse avuto la borsa, niente di meno, per lo piacere avuto, disiderava al pasco ritor- nare. Et levatasi, andò a casa di Passarino cantando e dicendo: Baciaculo e sacco in capo, metti fuor li buoi. Passarino cantando rispuose: Pinco in conno e sacco in capo, metti fuor li tuoi. La madre di Bellocora, che ode tal suono, pensò la sera dimandare del fatto, e andati al bosco, Bellocora sollicitando Passarino che il pinco in nel conno mettesse, Passarino [fuj presto a ubbidirla, né più d'altro fra loro si ragionava. Narda, la sera tornata Bello- cora, dice quello che dir volea Passarino, quando dicea pinco in conno e sacco in capo, metti fuor li tuoi. Bellocora tutto narrò fine a quel punto. Narda, che vede la figliuola avere meglio im- parato che non gl'avea insegnato, ordinò che Passarino fosse suo marito, e vedute le parti, senza cantare si denno poi buon tempo. DE AVARITIA MAGNA 249 71. [Tnv., n» 102]. DE A VARITI A MAGNA. Al tempo che la guerra era tra Firenza e Pisa, fu in nella città di Pisa uno medico nomato maestro Pacie di Barbaricina nato, per natura tanto avaro, che spessissime volte non mangiava per non ispendere, et simile la donna sua e l'altra famiglia avea si ammaestrata in avarizia, che quasi come lui erano avari do- ventati. Et infra l'altre avarizie che il ditto maestro Pacie facea, s'era che non tenea fante neuno. E più volte essendo da' suoi amici ripreso della avarizia che in lui regnava, e massimamente di non tenere uno suo pari uno o du' cavalli con uno fante al- meno, lui rispondeva (1) che non potre' cavallo tenere che più di fiorini trenta l'anno non costasse, et il fante, senza le spese di salario, almeno fiorini quindici converre' pagare, si che più di cento fiorini ogn'anno spendere gli converre', dicendo che ca- vallo non bisognava, perocché quando (2) bisogno fusse che ad altri convenisse fuori di Pisa andare, che tale per bisogno il ca- vallo e '1 fante gli prestare', e per Pisa poco si curava di cavallo né di fante, perocché sempre il garzone dello speziale non gli verre' meno, e meglio è che io mi guadagni l'anno quello che i cavalli e '1 fante consumassero, che tristamente spender li fio- rini cento l'anno per serbarli a chi bisogno n'ara. Li amici, che odono quello che maestro Pacie dice, cognoveno di vero che Ta- varizia lo movea a tener tali modi [et] diliberonno più di tali cose non ragionarne, lassandogli fare dinari a suo modo. E tanto crebbe il guadagno del ditto maestro Pacie, che più migliaia di fiorini guadagnati ebbe. E crescendogli i dinari, gli crescea l'a- varizia, in tanto che per tutta Toscana era sparta la novella che maestro Pacie era ricco a fondo et era avarò1)iù che Mida, che del suo vedere si potea, ma non toccare. E dimorando per questo modo, certi omini atti a rubare del contado di Recanato, soldati del comune di Firenza, avendo sentito quanto maestro (1) Ms. : rispondendo. (2) Ms.: qvÀne. 1 250 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI Pacie da Pisa era ricco e avaro, diliberonno con un bel modo gran parte della sua roba avere. E dato tra loro ordine del modo, come mercadanti si vestirono, e per la via di Siena a Pisa ca- v^ valcarono qnorevilmente vestiti, [essendo] omini d'un medesmo luogo nati. E giunti in Pisa et alloggiati all'albergo del cappello, quine u' all'oste disseno che li facesse fare bene ad agio, dando y/ suono d'esser mercadanti di molte mercanzie , l' oste, che "ono- revili e con buoni cavalli li ha veduti, e per lo buono pagamento^ " li facea ben godere. E dimorati alquanti die, l'uno di loro, somi- gliante di magrezza a maestro Pacie, maliziosamente si finse in- fermo. Li compagni disseno all'oste che di un buon medico aveano bisogno per la malattia del loro compagno. L'oste disse maestro Pacie esser buono. Coloro, che altro non cercavano, dissero al- l'oste che con loro andasse tanto che sapessero il camino. L'oste li condusse a casa et a bottega di maestro Pacie, dove trovan- dolo, al compagno lo menarono, mostrandosi molto malato. Maestro Pacie, tastandogli il polso, dicea : Poco male mi pare che abbi ; lo infermo dicea : Per certo, maestro, se voi di tal malattia, quale io hoe, non mi guarite, non so chi guarire mi debbia né possa. Li compagni diceno: Deh, maestro Pacie, studiate bene in Ga- lieno et in Avicenna, in Mezuè et in Ipocrate, non si dimentichi anche (1) in nelli altri libri, sicché il nostro compagno per voi sia guarito, et acciocché in ne' ditti libri possiate studiare, tenete al presente questi dieci fiorini, acciocché tosto ce ne facciate lieti. Maestro Pacie, che vede fiorini dieci, rallegrato disse: Per certo I io diceva male da prima, perocché a me pare avale abbi quel male che dici; dicendo: Io ordinerò di buone cose7 sicché colla grazia di Dio tosto ve l'arò dato guarito. Et partitosi, alla bottega se n'andò ordinando di molti confetti. Li compagni tutto pagando, dicendo a maestro Pacie che spesso solliciti di visitare lo infermo, lo medico cosi fa. et era tanto assecurato maestro Pacie ad an- darvi a ogn'ora per li fiorini che ogni di toccava, che più di vinticinque fiorini avea avuti forse in otto di e lo speziale più di dieci, e l'ostieri più di vinti, che costoro non arenno saputo chiedere cosa che non l'avessero avuta. Vedendo un giorno li compagni che un bel tempo s'era messo, dissero al maestro Pacie che a loro parea che '1 malato si potesse ormai contentare et in - cataletto portarlo fuora (2). E lo medico dice: E cosi pare anco (1) Ms.: e che. (2) Ms.: potere. ^ ^ DE AVARITIA MAGNA 251 a me. Di che ellino diceno all'albergatore che faccia conto di ciò che avuto aveano e pagato lui e '1 medico e lo speziale, met- tendo in ordine uno cataletto per lo di seguente, pregarono (1) il medico che gli piaccia prima di venirlo a vedere per dare ordine della vita ordinando alcuno confetto ristoratone. Et così si seguio. Messo in assetto ogni cosa e venuto lo die seguente, li compagni, fatti sellare li cavalli, e' una bara ligarono (2) in su du' cavalli per modo forte con uno mal^^assìno e piumaccio ac- concio, che dentro vi si possa agiato stare con una coverta di sopra, salvo un poco donde la testa starà senza copertura. Et come tutto fu in assetto, uno di loro andò per mastro Pacie, di- cendogli che vegna a vedere lo 'nfermo. Lo maestro, che non avea fante neuno, con quello compagno all'albergo se n'andòe, e come li altri videro venire il medico, disseno all'oste che con l'uno di loro andasse allo speziale per confetti, avendo informato colui che andò che tanto lo tenesse a bada che loro avessino fornita la loro faccenda. Et cosi l'oste allo speziale se n'andò con uno compagno. Maestro Pacie guidato in nella camera dove per- sona non era se non di quelli compagni, e giunto che quine fu, subito cacciandogli la mano alla gola l'abbavagliarono con ligargli le mani e i piedi, et involto in uno piliccione in un lenzuolo, in scambio di colui che 'nfermo s'era fatto, giù per la scala lo por- tonno, in nella bara lo misero, et coperto molto bene che neuno vedere lo potesse, montarono (3) a cavallo. Intanto Toste con quello compagno venuti dallo speziale con confetti, prendendo commiato dalla famiglia dell'oste, pregando l'oste che con loro andasse fine alla porta, acciocché la via insegni loro; l'oste disse: Volentieri. Et mossi dall'albergo, verso porta San Marco se n'an- darono, et come alla porta funno giunti, l'oste disse a' guardiani che quello era uno malato e passò via, et uno di quelli compagni, mettendosi mano alla scarsella, ne trasse du' fiorini dicendo: Uno di questi che sia tuo per un paio di calze, e l'altro darai a maestro Pacie che se ne comperi un altro paio; e raccomandati a Dio caminoro verso MartiJ4). E quando funno presso a Castel i/tf^-^^' del bosco, dove si teneano sicuri, avendo quasi passato il terrena di Pisa, dislegarono il maestro Pacie, et in su uno cavallo lo (1) Ms. : pregando. (2) Ms.: ligata. (3) Ms. : montati. (4) Gos^-nel— ms- 252 NOVELLE DI GIOVANNI SERGAMBI misero senza levargli bavaglioro e condusserlo in del Vald'arno, là u' quine lo dislegarono et facendogli onore assai, acciocché dinari facesse assai venire, lo teneano a buona guardia. L'oste, ch'è ritornato dentro in Pisa, andato a richiedere maestro Pacie per dargli quello fiorino, lassò (1) allo speziale la 'nbasciata che se tornasse gli avea dare uno fiorino, et così tutto '1 di passò. Venuta la notte, maestro Pacie non tornando a casa, la sua fa- miglia stimando fusse alla bottega, lo speziale che molti che aveano del maestro richiesto mandava a casa per sapere quello che di maestro Pacie fusse, e non trovandosi, n'andarono a l'al- bergo, dove l'oste [disse] che quine non era stato se non quando lo 'nfermo si partìo. Et non potendosene saper nulla, la notte ne stenno in grande pensiero. Maestro Pacie, che si vede essere mal condotto, prega quelli che preso l'hanno che la persona gli salvino, e che di dinari dare' loro tanti che riccamente potranno ad agio stare, dicendo : Io per avarizia non ho voluto tener fante, et io come fante sono stato tra^pato. Li compagni, che sapeano che maestro Pacie potea agiatamente pagare fiorini sei mila, dis- sero: Noi siamo sei et però vogliamo subilo per ciascuno fiorini mille. Lo maestro, che avea disiderio d'uscire loro dalle mani per ritornare a Pisa, [disse] ch'era contento, e fatto una lettera ■ che in Firenza tali dinari fusseno pagati e mandata a Pisa alla ^ famiglia e a' parenti, prestamente li dinari pagati funno, e maestro Pacie tornato a Pisa, per la novella contata dispuose poi di vo- lere di continuo tenere du' famigli, acciocché seco in ogni lato andassero per non poter più a forza essere ritenuto. Et così, dopo il perdimento dell'asino, la stalla chiuse. (1) Ms. : lussando. DE INGANNO IN AMORE 253 72. ì^ WJ^\%y [Triv., no 103]. 1 DE INGANNO IN AMORE. Nel tempo_di Grimaldo giudice in ^j;borea fu una donna ve- dova~lK)raata Manta, donna già stata del signore di Castri, la quale donna per la sua bellezza e senno entrò d'amore in nel- l'animo del ditto Grimaldo, giudice d'Arborea, in tanto che fat- tala domandare per moglie, lei prese, dandosi piacere con ma- donna Manta alquanto tempo. Et essendo lo ditto signore di grande stato, tenendo corte grande con cavalieri e famigli, come i grandi signori fare sogliono, avvenne quello che Dante mette che Ta- more.al cuor gentile ratto s'apprende. Tale amore al cuore d'uno y (acconciatole di cavalli s'apprese, in tanto che non guardando ta' ragazzo sua condizione, della donna di Grimaldo s'innamorò per tal modo, che altro che pensare quello che alla ditta donna fusse in piacere non era l'animo suo. Et allora si parca beato quando la donna cavalcava il cavallo che lui conciava, andan- dogli a pie sempre alla staffa, e come le toccava i panni, l'amore più l'infiammava, intantochè non potendo all'amor durare, dili- berò dover piuttosto morire che in tale stato rimanere. Et co- gnoscendo per lettere o imbasciate che a lei mandasse niente gli sere' valuto, et anco se da sé gli avesse il suo desiderio appa- lesato piuttosto la speranza gli sere' fallita, per altro modo pensò adempiere il suo disiderio. Et una sera senza lume nascoso in una sala, dove da quella in nella camera del signore et in nella camera della donna entrare si potea, si puose spettando rimedio t/ al suo fatto. Et non molto tempo dimorò della notte, che Gri- maldo all'uscio della sua camera, involto nudo in un mantello grande con una candela accesa in mano e con una mazzuola, giunto all'uscio della camera della donna, du' volte percosse l'uscio della camera. La camera da una cameriera aperta, lui entrato, spejise (1) it lume. Grimaldo, entrato in nel letto, colla donna si die piacere. Il ragazzo, che tutto ha veduto, dà ordine di avere uno mantello e una candela e una mazzuola, e la notte seguente, (I) Ms. : prese. 254 NOVELLE DI GIOVANNI SERGAMBI non potendo più l'amore celare, in nella preditta sala di di si nascose, et venuta la notte con una pietra e con acciaio, che portato seco avea, fece del fuoco et la candela accese, et involto nudo in nel mantello colla mazzuola alla camera della donna di Grimaldo n'andò et percosse du' volte. Una cameriera tutta son- nacctiiosa la camera aperse et il lume di mano al ragazzo levò, credendo che fusse Grimaldo. Entrato in nel letto, mostrando al- quanto corruccioso, senza parlare più volte la donna fornio ; e poi tra sé dicendo: E' mi potre' lo troppo stare costare caro, posto che malvolentieri dal disiato diletto partir si sapea, dili- berò una volta prendere piacere con madonna Manta e poi par- tirsi (l)e così e' fé'. Madonna Manta, che stima essere col marito, niente gli dice, perchè le pare sia alquanto pensoso. Lo ra- gazzo, ripreso il mantello e '1 lume, della camera uscio et in una gran sala sopra la stalla colli altri ragazzi a dormire se ne andò. Grimaldo, stato alquanto, uscio fuori della sua camera et a quella di madama Manta se n'andò, e picchiando gli fu aperto, et en- trato in nel letto, madonna Manta disse: Deh messere, che avete in pensieri stanotte di fare, che poca ora è che qui veniste e oltre l'usato m'avete contenta? E pertanto vi prego che non vo- gliate tanto seguire la volontà che della persona vi guastiate, che vi de' bastare stanotte avere avuto meco a fare sei volte, che non so quando vi divenisse, et io, perchè io vi vedea malin- conoso senza parlare, vi lasciai fare lutto ciò che voleste, e però vi prego che per stanotte più fare non vogliate. Grimaldo, che ode la donna sua quello chiedere, stimò che altri in modo che lui venire dovea. Per non vergognare sé né la donna, dice : Tu dici bene et io cosi vo' fare. Et partitosi cosi, stimò della famiglia esser colui che tal cosa fatto avea, et pensò fra sé dicendo: Quello tal cosa fatto ara, non gli sarà ancora la paura uscita dal petto; et subito se n'andò in nella ditta sala, dove molte letta erano, dove i ragazzi e li altri dormiano, e cominciando a cer- care a uno a uno, non trovando quello che trovare volea, venne a quel ragazzo, che più volte avea diliberato fra sé molti pensieri vedendo quel signore, ultimamente diliberò fare vista di dormire. Et Grimaldo, come la mano gli mise al petto, trovò che '1 cuore gli battea che parca volesse uscire del corpo, e subito fra sé disse: Io ho trovato colui che io volea, et per non fare remore (1) Ms. : partitosi. DE INGANNO IN AMORE 255 et per non vergognarsi, stimò per nuovo modo farlo morire. Et subito preso dell'ongosto, che in uno calamaio quine era, e' in sul collo sopra a' panni [lo] tinse, dicendo : Domattino cognoscerò colui che Manta s'ha goduto in mio scambio, e partissi. Lo ra- gazzo, che ha sentito e veduto quello che Grimaldo avea fatto, pensò al suo scampo, che levatosi e preso l'ongosto tutti li altri ragazzi e famigli in quel medesimo luogo signò. La mattina Gri- maldo, prima che le porte del palagio siano aperte, fé' davanti a sé venire tutta la famiglia e raguardando per quello che se- gnato avea, vedendoli tutti segnati, disse fra sé: Colui che in mio luogo con madonna Manta si trovò, ha trovato savio modo che io non possa sapere chi é. E cognoscendo che vergogna grande gli era voler sapere chi stato fusse, et anche che simile vendetta non salvava lo suo onore, et anco stimò madonna Manta non essere stata consenziente, che sempre ella avea stimato e stimava con Grimaldo essere stata, disse: Se altro sentire vo- lesse, lei poter dimostrare per l'avvenire esser contenta, diliberò tacere, e disse : Chi l'ha fatto di voi noi faccia più. Li ragazzi, che niente sanno, diceano fra loro : Or che vorrà dire lo signore? Colui che fatto l'avea tenne segreto, né mai si trovò che la for- tuna l'avesse a sì fatto punto messo come fatto l'avea. / KMV*- 256 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI 73. [Triv., n" 104]. DE INVIDIA. Nella nostra città di Lucca, al tempo che messer Marco Visconti ■^■^C) \l di Milano la lassò in pegno a' tedeschi, molti cittadini Lucchesi per male stato^di Lucca si partirono, in fra' quali fu uno messer Bartoló~dl Bocca di vacca cavalieri, il quale si condusse in nelle 3y( terre di messer Mastino della Scala, signore di Verona. Et quine prendendo una casa per poter la sua vita senza molta spesa [lassare, stato alquanto tempo il ditto messer Bartolo in Verona, fu per alcuno cognoscente di ditto messer Bartolo parlato a messer Mastino dicendogli che bene era che di grazia al ditto messer Bartolo una podestaria gli desse, in qualche terra a lui sottoposta. Messer Mastino, per le preghiere dello amico mosso, in uno suo castello nominato Marciano gli die officio, nomando- velo podestà con certo salario. Messer Bartolo, che di ciò avea bisogno, allegramente (1) acceptò, promettendo far buono officio, ,Q \ /et andato all'officio, e' pensò, come Lucchese, che il giuoco de' dadi in nella terra né di fuori per neuno si faccia. E mandatone il bando con gran pena che giuocare a dadi non si debbia, fa- cendo cercare spesso, divenne che alquanti gentili cavalieri e altri che usi erano di tal giuoco, lamentandosi che sì strettamente li avea ridutti, e niente valea, messer Bartolo non volendo V lor consentire che tal giuoco facessino, diliberonno a taule giuo- care, e non essendone mandato bando cominciarono a giuocare. Lo podestà, ciò sentendo, fece mettere bando che nessun giuoco V di Jaule si possa fare. Gli gentilotti et altri, che di giuoco si di- f «^nW^-- Iettavano, jlolenti di sì fatti comandamenti, et poco valendo, si V redusseno a giuocare a scacchi coi dadi et allo siniglieri coi dadi, e quine si davano piacere con giuocare in poca e gran somma. Messer Bartolo, che i giuochi di prima avea fatti vietare più perchè lui non era omo da neuno piacere et volea che altri come lui fusse di sollazzo netTo, e sentendo che aì~grQOco dell! scacchi èOTsiniglieri tra la gente si trastullava , pensò tal diletto via levare. E rimandato bando che a neuno giuoco, dove dadi s'adoperasseno, giuocare non si potesse, li gentilotti 'r^ (1) Ms.: altramente. DE INVIDIA 257 mormorando di tanti comandamenti, tra loro diceano : Lo podestà ^ ^■^*- dé' essere di quelli d'f santa Luchisenda, che non volendo né sa- v^ pendosi pigliare piacere, non vorrè"n:5H'e altri se ne prendesse. Et avendo tanti comandamenti addosso, diliberonno darsi piacere a scacchi et a siniglieri senza dadi, dicendo tra loro : Omai messer Bartolo ci lasserà stare, e tal giuoco giuocarono d'assai e di poco. La maledetta invidia del podestà non potendo patire che altri 3 -r si dessepiacere, fe'^Tteto che né a scacchi né a siniglieri giuo- «^ care non si possa. Li gentilotti con mormoramento diceano al '^ podestà: Perchè ci volete tenere si stretti, che alcuno piacere prender possiamo ? Or come sono li omini di Lucca della vostra condizione, che non potendosi dare alcuno piacere non vogliono che altri se ne dia ? Lo podestà disse : Sì, et però non vo' che a tali giuochi , di che ho mandato il bando , si giuochi. Li gentilotti, udendo si tristamente parlare il podestà della sua terra, l'ebbero spacciato per una zucca vota , diliberando nondimeno "^ j^'>-À osservare li suoi bandi, ma per altro modo prendere piacere. E comincionno a giuocare alle nocciole e poi alla piastrella et alla palla et a colali giuochi d'ossa e di trottole, come li fanciulli fare' sogliono, con mettere dinari assai et pochi, secondo che di loro piacere era. Lo podestà, che crepa d'invidia che vede che ^ Au-^ altri si prende piacere ora a un modo ora a un altro, diliberò tali giuochi divietare , mandando il bando che i giuochi nuo- vamente cominciati fare non si possano. Li gentilotti disseno: Omai ci converrà filare come le femmine, poiché tutti li diletti che li omini pigliare sogliono questo nostro montone maremmana. ^ ^ /" di podestà ora ci ha dilevati. Et non potendo^iu darsi piacere, uno gentilomo allegro disse alli altri : Poiché tutti i giuochi che fatti avevamo (1) ci sono tolti, e io ve ne vo' dare uno che '1 podestà toUere non vi potrà, dicendo : Chi ha voglia di giuocare vegna fuori meco e quine vi mostrerò il modo che giuocare po- trete senza pena e tal giuoco molti giuocare potranno. Udito li altri quello che quel gentilomo avea ditto, di furia più di cento si missero e dirieto a tale n'andarono, e come funno fuori andati, a unajneta_di paglia s'accostarono dicendo: Ognuno che giuo- ^ care vuole metta quello gli piace che egualmente si metta. Di che accordati più di loro a mettere quattro grossi per uno, lo gentile omo disse: Qualunque trae maggior paglia di quella meta " (1) Ms. : aveano. Rbhibr, Novelle di G. Sercambi. 17 258 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMUI con du' dita guadagni tutti quelli dinari accordali. Couiinciarono, e quello che maggior paglia traeva vincea. Piacendo a tutti il giuoco, si divisero e per tutta quella contrada erau moltissimi che a tal giuoco giuocavano. Lo podestà, che hae veduto andare molte persone in fretta di fuori, pensò che tali fnssero iti per prendere piacere, poiché giuocare non potHano. Oo)i intenzione tale piacere levare lor via, e' comandò (1) ad alquanti suoi fa- migli che a vedere andassero. I famigli, giunti dove i gentilotti erano a giuocare alla paglia, vedendo molte brigate e non po- tendo loro niente dire, tornoro al podestà, narrando il piacere che quelli si davano et il bel giuoco. Il pode.sià, ciò udendo, non potendo più sostenere, fé" comandamento che a neun modo giuo- care si possa, che colle mani e co' piedi nenna oosa che a giuoco appartegna toccare si possa. Li gentilotti, che tutto hanno perduto, disseno: Omai ci sotterriamo vivi, poiché tutto c'è stato dilevato nostro diletto. E stati per tal modo, uno geiitilomo voluntaroso di piacere disse: Noi possiamo giuocare *eiiza pejia e non toc- cheremo niente. Il modo si è questo che tu dichi primo tuo a •^ un fiorino e l'altro dica io son contento, et andiamo per la via, e "1 primo che noi troviamo dimandisi del uome se (30gnoscere non si può per noi e tal nome sia di tale eli*' lia ditto prima mio, e poi il secondo, et allora chi gli par«^ aver juiglior nome inviti e rinviti qual prima sa. Subito andando per la terra, giuo- cavano con tanto piacere, che parea che tutta l'allegrezza fusse in loro, quando .scontravano li nomi dell'uno h .lell'altro. Messer Bartolo, che sente ora in una contrada ridere ora in nell'altra, volse sapere il perchè, et come di mal sant'Ut p.nsò tal diletto di levare et divietollo (2). [Vedendo] che tutto il piacere era tolto per invidia, dispuoseno que' gentiloti^i di andare a messer Mastino che a ciò prendesse riparo; e giìinti diunanti da lui, dis- puoseno quello che messer Bartolo avea fatto in nidl'ofììcio a lui dato. Gognoscendo che per invidia del bene clu- ad altri vedea tali leggi fatte avea, messer Mastino, come savio, roouobbe il po- destà essere da poco, lo dilevò deirotìici(\ né mai d;i lui orificio poteo avere. Et a quei gentilotti die licenzia r\w piacere si pren- des.seno, non facendo ad altri oltraggio. s»'nipre adoperando in nel giuoco discrezione; e ritornati si denno buon tempo et messer Bartolo colla invidia si steo e con quella trista menti- morio. (1; Ms.: comandato. (2) Ms.: divietato. DE LUNCìO INGANNO 259 74. [Triv., no lo5]. DE LUiNGO INGANNO. Nel tempo che messer Giovanni dell'Agnello fu signore di Pisa, du' marchiani nati della terra d'Ancona (li nomi non metto- perchè spesse volte si fanno chiamare a un modo et poi a un altro, ma hen dico l'uno esser giovano e l'allro di settanta anni vecchio) si mossero d'Ancona per ingannare e per rubare et in"" nelle parti di Toscana preseno loro camino. E prima che giun- seno in quello di Firenza, più e più persone con loro malizia ingannoro. Avvenne che essendo eglino in Firenza, dove xom- pronno alcune mercanzie, fra le quali fu una bella scarsella et una cintora di cuoio, con tali di Firenza si partirono, venendo verso Pistoia. Era, in quel giorno che preditti giunseno, in Pistoia venuto uno giovano pistorese abitante in Pisa con Simone Be- nedetti speciale, nomato Lemmo, il quale da Pistoia s'era mosso e caminato verso S. Miniato, Firenza e Prato, e venuto a Pi- stoia per ricogliere dinari per lo suo maestro. Et perchè era assai simplice, essendo a una bottega di speciale, dove quelli du' marchiani erano, il preditto Lemmo cavando fuora li dinari ri- colti innoraerandoli, per quelli du' (unno veduti. Et investigato della via che '1 ditto Lemmo fare dovea, seppeno la sua via esser verso Lucca. Di che '1 preditto vecchio e '1 giovano marchiano di Pistoia uscirono, dando loro credere come in nella novella pentirete. Il giovano marchiano si partio e camino verso Serra valle, che altre volte per simili mestieri v'era stato, e quel vecchio si fermò all'oste di fuori di Pistoia aspettando Lemmo con una canna in mano. Et non molto tempo dimorò, che Lemmo da Pi- stoia a pie uscio, e venuto presso all'oste dove trovò quel vecchio, che gli disse (i) dove fusse il suo camino. Lemmo, ch'è giovano di tutte cose, disse: Verso Lucca. A cui il vecchio disse: Io pur ho a venire verso Lucca et non potrei avere migliore compagnia che la tua, però che tu mi pari persona da bene et teco non potrò male arrivare. Lemmo, che gli pare aver trovato buona (1) ÌM^.: dicendogli 260 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI ventura, allegramente disse: A me piace la vostra compagnia^ che potremo andare a nostro bell'agio: e fattosi dare bere alla taverna, caminarono verso Serravalle, andando questo vecchio di parola in parola scalzandolo del mestiere che facea e come giovano era amato dal suo maestro, e tante buone cose gli in- segnava, che Lemmo tutto s'appiccò a dirgli i modi, la via, i di- nari ricolti avea, e come addosso li portava a Pisa, ma che prima gli convenia essere a Lucca, dove riceverre' molti dinari. Lo vecchio dice : Io t'accompagnerò fine a Pisa, poiché a Lucca rimaner non dèi. E con queste e simili parole funno giunti al mezzo il poggio di Serravalle, dove, per una via che attraver- sava a quelle vigne e terre, lo giovano marchiano di sopra ditto venia mormorando e biastimando, tanto che giunto fu dove era Lemmo e quello vecchio, E vedendolo quel vecchio: Deh, gio- vano, che vai così lamentandoti? sere' ti stato fatto alcuno ol- traggio? diccelo, che noi ci guarderemo. Lo giovano marchiano dice: Uno villano lavoratore mi domandava se io questa cinterà e scarsella volesse vendere, et io dicendogli di sì, m'ha profferto du' grossi, che mi costò quattordici in Firenza et per questo mi sono tanto corrucciato. Lo vecchio dice : Tu fai male ; come non è licito altruPproIferire quello vuole? già non te l'ha egli tolta. Lo giovano disse: Io non me ne posso dar pace, a dire che quel villano me n'abbia profferto du' grossi. Lo vecchio disse: Deh, mostramela a me; forse, se me ne vorrai far piacere, io la compro per uno mio nipote che sta a Lucca, e piacendomi che ne vuoi ? Lo giovano dice: Io ne vo' almeno dodici grossi fiorentini. Il vecchio dice: Ora non mi corruccio io, che t'odo dire tanto gran pregio, ma io ti vo' dare'qùàttro'^rossi. Lo giovano dice: Deh, vecchio marcio, non ti vergogni che dèi sapere del mondo quanto un altro, che pensi che questa scarsella e questa cinterà non debbia costare quello te n'ho chiesto. Lo vecchio dice: Chi non domanda la buona derrata non la trova, e però, se me la vuoi dare per quattro grossi, io la prenderò. Lo giovano marchiano iroso disse: Io la giocherei innanti che io la vendessi. Lo vecchio disse: Io non so giocare a neuno gioco. Lo giovano dice: E tu ti fa fare il gioco al compagno tuo. Lo vecchio rivolto a Lemmo dice : Sai cognoscere li punti de' dadi ? Lemmo dice : Sì, ma io non so giocare. Il vecchio dice: Or veggiamo a che gioco vorre' costui giocare. E dimandato il giovano marchiano se lui avea dadi, lui disse di no. Lo vecchio, mettendosi la mano in uno car- niori, disse: Stamane, essendo in una taverna, un dado mi pei- DE LUNGO INGANNO 261 cosse la mano et io lo colsi e in nel carnieri mei misi. E trattolo fuori : Ornai con questo dado mi di' a che modo la scarsella gio- care vuoi. Lo giovano dice: A chiedere al punto. Disse il gio- vano : Io chieggo sei. Il vecchio dice : Et io anco vo' sei. Lo giovano dice: Io sono contento. Lo vecchio dice: Or come può essere sei du' volte in uno dado? Lo giovano, come sciocco, dicea: Io arò sei e tu arai tre, du', uno, che fa sei, e a questo modo potremo giocare. Lo vecchio disse: '^u^^'^^i V^^^ un beccarino, io ^ non vorrei essere ingannato; dimmi un'altra volta quello che io aver debbo. Lo giovano dice : Tu abbi tre, du', uno, ed io vo' sei. Lo vecchio dice : Or se viene uno o du' o tre arò vinto? Lo giovano dice: Sì, qualunque di quelli tre punti viene, arai vinto. Lo vecchio dice a Lemmo: Costui mi pare una bestia a dire che mi dà tre punti e lui n'abbia uno; che te ne pare? Dice Lemmo: Di vero voi avete gran vantaggio di non poter mai perdere. Lo vecchio dice: Parti che io abbia a giocare quella scarsella con lui a questo modo? Lemmo dice di si. Lo vecchio cavò fuori quattro grossi e disse al giovano marchiano : Io sono contento com'hai ditto; e messo a uno grosso dicendo sei. Io giovano gittando gittò tre. Il vecchio disse: Io ho vinto. Lo gio- vano disse : Tu m'hai uno grosso e prese il vecchio il dado. Lo giovano dice: Sei a tre grossi. Lo vecchio gittò e venne asso e disse: Io ho vinto, e prese la scarsella e la cinterà. Il giovano trasse fuori una manata di grossi dicendo: Poiché giocato ho la scarsella, avale giocherò de dinari. Lo vecchio disse: Questi quattro grossi vo' perdere, e dice a Lemmo : Fammi il gioco che non m'inganni. Lemmo dice: Fate pur bene. Et giocando, in poche volte lo vecchio ebbe vinto al giovano più di cento grossi fiorentini. Lo giovano trasse fuori una gran pugnata di fiorini nuovi di zecca dicendo: Io arò oggi il mal di, o rivincerò la mia scarsella et i grossi perduti. Lo vecchio disse: Tu me tieni per paura, io non vo' più giocare. Lemmo dice: Per certo voi avete gran vantaggio. Il vecchio, tiratosi da parte con Lemmo, dice: Vogliamo vincere a costui quelli dinari e delti altri e fac- ciamo a parte? Lemmo, che gli pare avere gran vantaggio e non sa niente dell'ordine dato tra loro, disse: Giochiamo vinti fiorini per uno. E tratto Lemmo fiorini vinti, il vecchio altret- tanti, giocando e mettendo uno o du' fiorini alla volta, il vecchio vincea, et di puoi quel giovano, come di rabbia pieno, mettea v vinti e vinticinque fiorini al tratto. Lo vecchio gittava dicendo: Questa posta è buona, e avea mutato dado e gittava sei, e quello 262 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI che in dieci poste vinto avea, du' tanti ne perdea ; e per questo modo trasseno di mano a Lemmo fiorini ottanta, e più ne gli arebbino tratti, se non che lui disse: Io potre' rimanere diserto. Lo giovano marchiano si ritorna per quella via donde a loro venuto era, girando il monte per trovarsi alla pieve a Nievole. Lo vecchio con Lemmo montano la salila, mostrando malinconoso, dicendo: Di', Lemmo, credi chela fortuna n'abbia condutti, a dire che tutte le poste grosse mai non ne potemmo una vincere, contentandoci delle piccole per i vinti di lui, che per certo, se noi avessimo avuto a giocare più, io arei sempre messo le poste comuni et cosi arei fatto patto con lui. Lemmo dice : Di vero, se egli avesse gittato quando tali poste ci mettemmo, io arei sti- mato ci avesse messo mal dado ; e cosi ragionando funno agli alberghi della pieve Nievole, là dove il vecchio disse a Lemmo che per la sera partire non si volea. Lemmo, che ha malinconia grande, lo raccomanda a Dio, e dilungatosi alquanto, gli venne a Lemmo pensieri che coloro non fusseno compagni, e rivoltatosi adrieto, vide dalla lunga il giovano che verso la salita (1) n'an- dava et vide il vecchio che verso lui in camera gli andava. Da- tosi la via tra pie quanto poteo, al borgo a juggiano giunse, et rimesse la scarsella et la cinterà dove àvea il resto de' dinari in bottega di uno speciale et a lui fattosi prestare una lancia per trovare coloro che rubato l' aveano, malinconoso al borgo si ritornò, non dicendo a persona quello che intervenuto gli era. E dormito in nel borgo la notte, et la mattina partendosi, vide verso Pescia venire alquanti a cavallo. Pensò volere i dinari perduti e quelli che avanzati gli erano soccellai^e; e misse^i i dinari in seno, con uno coltello la scarsella cigliatosi, gridando accorr'omo, voltolandosi tra la polvere et gridando forte. Quelli da cavallo, fra' quali < ra il vicario di Pescia, tratti alle grida, trovonno Lemmo in terra gridando. Domandandolo perchè gri- dava, lui disse che du' persone l'aveano rubato più di micin- quanta fiorini, dando i segni, dicendo: Uno vecchio di tale fa- zione e uno giovano di tale sono stati quelli cl:e rubato m'hanno e sensi partiti et per questa via si son fuggiti. La famiglia del vicario e '1 vicario in persona cercarono tutta quella cerbaja e niente trovonno; e preso Lemmo, dopo molte examinazioni, con- fessò il modo del gioco e perchè tal grida fatte avea, e [fu] con- fi) Ms. : la tiiliv)!, che non intcìKlo. DE LUNGO INGANNO 263 dutto a Pescia, dove il vicario gli volea fare tagliare la mano, ma perchè in Fescia erano alquanti amici et cognoscenti di Si- mone Benedetti, ispeciale di Pisa, chiesero termine fine che Simone o altri v^enisse. Notificato a Simone la presura di Lemmo et il perchè, subito per rispetto della patria et anche perchè suo garzone era. et perchè [volea | quella mano se gli campasse (1), con lettere di ricomandazione e preghiere a bocca fatte al vi- cario, la man.' se gli campò, con pagare fiorini cinquanta di con- dannagione: e pnp questo modo gittò Lemmo il manico dirieto alla scura p<'r I" >:no poco senno. (1) Ms. : e perche perdere non si potea coìì lui quella mano si li can- V^ passe, ove si rae<-n pezzi chi è buono. 204 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI 75. [Triv., n" 106]. DE MALITIA. MULIERIS ADULTERA. Nella città di Vinegia , più d' inganni piena che d' amore e carità, fu una bellissima donna nomata Santina, nata d'uno geri^ tilomo da ca' Baldù, di ricchezza poca, la quale per non essere ricca, il padre maritolla (1) a uno mercadante fiorentino facitore di panni, omo ricco et assai della persona appariscente, nomato Ranaldo, il quale pnorevilmente la menò facendo bella festa. E stata monna Santina alquanto tempo con Ranaldo, cognoscendo sé essere nata di gentil generazione et vedendosi maritata a uno facitore di panni, stimò tale omo non essere degno di avere per moglie una gentile come lei, et pensò che Ranaldo con lei ac- costare non si dovesse se non isforzatamente, et un altro, che a lei soddisfaccia, trovare modo d'avere. E molti giorni la ditta Santina si steo che vedendo uno omo d'età d'anni trenta assai piacevole e gentile, il cui nome la ditta Santina [non cognosceva, cercò chi mandare gli potesse a farlo venire] (2). E sé stimò per certo non potere con onesto modo tale imbasciata mettere in effetto, e crescendo l'amore e la rabbia a Santina di volere che il giovano amato sappia quello che desidera, dandosi a vedere dove il giovano amato usava, trovò che uno prete di San Gan- sano nomato prete Montone molto con lui trafficava come amico. E po.sto giù ogni vergogna, Santina al prete Montone fé' dire che confessare si volea. Lo prete presto si puose in chiesa a sedere, dove Santina da lui si confessò, et avuta la soluzione, Santina disse: Deh, santo prete , io vi prego che una ^eccaia_, che a me di continuo ogni die viene, me la leviate d'addosso, ch'è si di necessità, per salvare il mio onore, che uno omo il quale si dimostra vostro amico non riceva danno, e la cagione si é perchè pare che altra donna non sia in Vinegia che io, a darmi tanta noja che Dio lo sa. E se non se ne rimarrà, io serò costretta di (1) Ms.: maritandola, . (2) 11 testo dice: il cui nome la ditta Santina e a lui mandasse li potesse u fatto ventre se non stimo. In questo guazzabuglio, per cavarne un senso, conveniva metter le mani arditamente. DE MALITIA MULIERIS ADULTERA 265 dirlo al mio marito et a' parenti. Prete Montone dice: Donna, lassa fare a me, che io gli dirò tanto, che di queste cose più non s'impaccerà. La donna, impitogli la mano di dinari , a casa si • 3/ ritornò. Lo prete subito ebbe trovato raniTcó' sù'òTTchi disse che faceva gran male a dare tanta noja quanta dava a madonna Santina da ca'Baldù. L'amico scusandosi, lo prete diceagli(l): Tu non ti puoi scusare, che ella medesima me l'ha ditto e se non che io l'ho temperata et ha meco promesso di non dirlo a' fratelli et al marito, già fare' loro accusato, e pertanto non vi passare più. L'amico, che di niente di queste cose sapea, fra sé stimò quello ch'era, dicendo al prete: Io non ripasserò più. E partitosi, subito per la contrada dove monna Santina stava se n'andò. Lei, che stava attenta a una finestra, vedendolo venire, con un dolce e bello sguardo lo guardò. L'amante, che di ciò accorto s'era, spesso di quine passava, e non potendo madonna Santina sofferire lo 'ndugio, ma voler tosto l'opra ordita (2) tes- sere, se n'andò al prete dicendo : Per certo quel vostro amico credo che abbia il diavolo addosso, che poiché io vi parlai di lui, più spesso che mai per la contrada è passato, con fare assai atti disonesti, e più che m'ha mandato una femminella con alcune imbasciate disoneste e con una borsa et una cintora, stimando che io si da poco [fussi] che delle borse e delle cintore non debbia avere; ma grazia del mio marito io n'ho una cassetta piena et vada a porgere siffatte cose e parole a quelle che n' hanno bi- sogno e che sono triste come lui. E dicovi, sere, che quella fem- minetta che a me mandò io ne la rimandai con la borsa e con la cintora con mal suo grado, e se non che volsi fare più che consigliata m'avevate, io l'arei ritenuta e a' miei fratelli et al mio marito arei fatto sapere tutto. E poiché alla fante ebbi data la borsa e la cintora, la richiamai, stimando ch'ella non se la tenesse et avesse detto all'amico vostro che io avute le avesse. E questo feci per poter vele mostrare e che a lui le rendiate. Prima che sue cose volesse, sosterrei ogni gran peso di peni- tenza. E sovvi dire che della malinconia che mi venne tutta notte sono stata coi morti et in fra li altri mi parve vedere mia madre tanto defunta; dimandandola perché, mi disse: Per lo dispiacere che io vedo che t'è fatto. E però, sere, io vi prego i/ (1) Ms.: dicendogli. (2) Ms.: ordirla. 266 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI ^ che dichiate le quaranta messe di San Grigorio e per 1' anima <^ sua tenete questi tre ducati, et a quel maladetto gii rendete la sua borsa e la cintora, et ditegli che non tegna questi modi. Lo prete lietamente prese li ducati et alla donna disse che a lui lassasse fare, umiliere' sì l'amico suo, che mai de' suoi fatti s'im- pacciere'. E partitasi la donna, lo prete ebbe l'amico dicendogli: Deh, traditore malvagio, come m'hai attenuta la impromessa di non passare quine u' monna Santina sta? e più che vituperosa- mente ti se' a una femminetta appalesato a dirgli quello che hai in pensieri, a mandargli una borsa et una cintora, come se ^ fusse di quelle dal broco (i). Cattiva la vita tua, che se ella l'a- vesse a' fratelli et al marito ditto, oggi non seresti vivo, et in nel malanno tienti questa borsa e questa cintora e di lei non t'impacciare, che sai che in Vinegia di bontà non n'è la pari. Lamico, che vede la borsa e la cintora, et ode le parole ch'ella ha ditto al prete, disse: Io cognosco bene questa borsa e questa cintora e cognosco che io ho fatto male. Io noi farò più. Lo prete ne lo prega. E non molti giorni passaro che Ranaldo, ma- rito di Santina, per suoi bisogni a Bologna camino. E come fu partito, madonna Santina se n'andò al prete, con lagrime assai gettando, dicendo: Ornai veggo che converrà che cosa che pro- messa v'abbia non attenga (2), poiché | quel | diavolo del vostro amico m'ha preso a vituperare. E perchè a voi ogni cosa dir posso, vi dico che non so da chi s'abbia saputo che '1 mio ma- rito è ito a Bologna, che stanotte, essendo in nella mia camera, e per lo caldo avea una finestrella assai alta lassata aperta «^ acciocché un poco di _oraggio in. nella camera desse, et nuda in nel letto mi stava pensando alla visione che fatta m'avea quando mia madre vidi, e mentre che in tal modo stava, sentii alcuno romoretto alla finestra, quasi per modo che dentro entrare volesse, el io temendo che ladri fusseno per lo tesoro del mio marito, senza che di niente lo carni mi coprissi, ignuda dal letto uscii, e giunsi a quella fenestrella a serrarla (3), per la quale parea che tale entrare dentro volesse. E fattami secura alla finestra, con una palandra alle spallo mi puosi, per voler vedere e sapere chi fusse. Et essendo la luna piena quasi come se fusse stato di mezzo giorno, cognobbi quel maladetto, di chi tanto mi sono (1) Così nel codice. (2) Ms.: attenerla. (3) Ms.: e serratela. DE MALITIA MULIERIS ADULTERA 267 doluta, essere con una scala venuto et alla finestra l' avea ap- poggiata, né mica se ne .sere' infinto d'inlrare dentro, se io non y fussi savia stata, che senza mettermi, com'ho detto, alcuno vesti- mento, riparai, che molte serenno state a vedere quello che era ►^ et arengli dato agio, e come entrato fusse dentro, con onesto modo y senza vergognarmi [non] i'arei potuto da me partire. Certo a me era di necessità gridare o consentire al suo volere, la qual cosa mai non arei fatto, se morta ne dovesse essere stata. Ora potete comprendere come la cosa sea. E vedendolo partire colla scala, la finestra chiusi e non con quella storata che far solea -^ la notte passata. Dormii intanto, che poco sonno mi venne, e pur passato alquanto della notte et ogni cosa quietato, lo spirito mio fatto suo corso, mi parve vedere che la mia madre mi di- cesse: Figlia savia, le tue messe, che hai fatto dire, m'hanno molto alleggerata la pena. E così parendomi, vi prego che non restiate di orare per lei, et acciò che meglio possiate esercitare tali orazioni, vi doe questi quattro ducati, e pregovi che am- C\J maestrate 1 amico vostro, che mai per questi fatti più innanzi non vi verrò. Lo prete lieto per li ducati e malcontento di quello che gli ha ditto dell'amico suo, e licenziata, non molto di lungi era la donna quando l'amante giunse a prete Montone. Il quale come d'innanti da lui fu, lo prete gì' incominciò a dire villania dicendogli: Traditore, or come hai ardimento di venirmi d'innanti a dire che abbi fatto contra tutto ciò che promesso m'hai di non andare dov'è quella onestissima donna e più che beata? E ^^ tu come cattivo, non curando né di Dio né del diaule, per se- «^ guire il tuo appetito cattivo, ora che sentito hai che Ranaldo, marito di Santina, che ben si può dire madonna la santa, [par- tito è], con una scala alla finestra della camera, per dentro vi- tuperosamente intrare, appoggiasti, né già non rimase da te che dentro non intrassi, se non che la donna savia nuda di letto uscio per chiudere alcuna fenestrella, acciò che dentro entrare non potessi. E se non che a me, come altra volta ti dissi, mi promisse di non dolersene, are' gridato, e tu, cattivello isvergo- ^ guato, celare noi puoi , perocché ella ti vide per lo chiarore grande della luna, che ben m'ha ditto tutto ciò che facesti, che non potendo di celato dentro a lei intrare, la scala, che portato avei, in collo te la mettesti et in nella malora te ne andasti. E (1) Ms. 268 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI pertanto ti dico, poiché a tuo senno fare vuoi, io mi ti scuso che a lei dirò che quella cosa non tegna più celata, e tu a me innanti non apparere. L'amante, inteso il prete, fra suo cuore disse: Questo prete ci va assai simplicemente, che io veggo quello che monna Santina vuole. E disse al prete: Io ho fatto male e penso fare sì che quella huOna donna non tornerà più a voi. E partitosi, andò a vedere quella finestra e quanto era alta; vedendo essere assai bassa, procacciò una scala e la notte rinvegnente se n'andò a quel luogo, dove misse la scala. La donna, che tutto vede, disse: Ben ha fatto il sere la mia imbasciata, e stava a vedere. Intanto l'amante giunse in camera. La donna entrala in nel letto dicendo : Chi è venuto per me godere in nel letto entri, l'amante allegro in nel letto entrò e con lui si die sommo pia- cere. Ordinando tale andata per modo, spessissime volte si davano piacere, né mai la donna al prete per tal cosa ritornò, e così si stenno avendo fatto ^rgio quel santo prete. 7' DE PRESUNTUOSI 269 76. [Triv., a" 107]. DE PRESUNTUOSI. Nel tempo che Pistoia vivea a comune, in nel quale si facea l'officio delli anziani, erano alcuni pistoiesi sì presuntuosi, che essendo alla fine dell'anzianatico voleano tutto fare, né mai vo- leano consiglio da persona; e perchè erano molti quelli che tal vita teneano non conterò i nomi, perchè lungo sarebbe. Ma dico che s'egli avvenia che, diposto l'officio, monlasse aU«4^offie4©-(l), t'-H-^^^ subito i preditti, dopo l'entrata di ciascuno anzianatico, se n'an- davano in palagio dicendo a li anziani nuovi : Così sf vuole fare e così si vuol dire; e tanto diceano che tutto ciò che in quello officio fare si dovea, o facea, convenia che per ditto di tali li anziani facesseno. E tale vita tennero più tempo. E perchè in nella nostra città di Lucca sono assai di quelli che tal maniera tegnono, che, senza essere richiesti, spessissime volte vanno a palagio, dicendo a li anziani: Voi avete mandato per me, che volete ?, li anziani, che niente ne sanno, gli danno qualche cosa da fare, e per questo modo pare che debbiano sempre essere le fronde del porro. Ritorno a dire che essendo stato in Pistoia molti anzianitichi, li quali di continuo faceano quello che i so- praditti voleano, divenne che essendo tratto gonfalonieri di giu- stizia uno nomato Cesare delli Ottomani , giovano e savio e ar- dito, il quale prima che in palagio montasse diliberò fra sé medesmo non voler fare cosa che per li soprascritti fussegii messa innanti. Entrando in calende niaggio all'officio, la mattina, prima che altri a loro venisse, parlò il ditto Cesare gonfalonien a' compagni anziani, dicendo loro: Fratelli e compagni miei, voi dovete aver veduto che quando i tali sono anziani, come ora siamo noi, vogliono di continuo fare del palagio e del comune a lor modo, e non che vogliano fare quel che altri vuole, ma quello che in ne' consigli richiesti sono consigliando fare non vogliono. E sempre in nelli altri anzianitichi hanno voluto la preminenza, che altri abbia fatto a loro modo, e per questo avviene che (1) Ms.: i' montasse laltro officio. Ct>/\M^ft^ 270 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI 02niuno riceve le grazie che per lo comune son fatte da loro, et eli ino n'hanno li buoni presenti. E pertanto, se mi volete acconsentire, io penso che questo officio porterà pregio di quanti ne sono montati molti anni passati: e però ognuno ne dica il suo parere. Li compagni disseno che erano contenti di seguire quello che volea, dicendo: Tu se' il fattore et aldiutore. E mentre che tali parole diceano, vennero quelle gran frondi di porro, fa- cendo dire al collegio che dentro entrare voleano per narrare alcuna cosa. Lo gonfalonieri li fé' metter dentro dicendo: Dite quello volete. Loro disseno: Egli è di necessità che voi facciate oggi la tal cosa prima che si desni, e dappoi, dopo desnare, farete la tale e tale, e domattina si vorrà fare le tali lettere, e quello che poi sera di bisogno fare noi verremo a voi e diremvi quello vorremo che facciate; e molte altre frasche disseno. Lo gonfa- lonieri disse: Voi siate li berP\^ènuti: noi faremo tutto ciò che ditto ci avete, e così ogni di, secondo che accadere, faremo. Co- loro disseno: Ora cosi si vuol fare. E licenziati, li anziani dissero al gonfalonieri: 0 voi avete promesso loro il contrario della vostra intenzione. Lo gonfalonieri disse: Cosi con tali genti si vuol fare; ma lassate fare a me. E subito richiesto il cancellieri, ferono il contrario (1). Sentiamo che fatto avete, e quanto sia stato buona cosa a non seguire quello che ditto v'a- vevamo. Lo gonfalonieri disse: A voi pare, che voi ci diceste quello che fatto abbiamo. Coloro dissero: E' si vuole aprire li occhi et non stare col capo voto al servigio del comune. Lo gon- falonieri disse: Voi dite vero, non si farà più. Coloro replicano: Or fate che oggi facciate riformare T officiale della grossa. Lo gonfalonieri disse: Sera fatto. E parlili quelle frondi di zucca, lo gonfalonieri subito co' compagni cacciarono dall'officio il ditto officiale, facendogli notificazione per lo loro cancellieri. L'officiale subito andato a quelle frondi di porro e narrando loro come era stato casso, coloro, ciò udendo, disseno : Noi andei'emo al palagio dopo desnare, e quello che hanno fatto vorremo sapere, und'è proceduto che male a loro uopo tal cosa fatto hanno. E dopo desnare, di rabbia pieni, al palagio n'andonno, dicendo: Und]è venuto che l'officiale della grossa, del quale stamane vi parlammo, l'avete cassato , che sapete v'avevamo ditto che si riformasse, che ben si può dire oggi questo collegio aver fatto du' grandi (1) Qui evidentemente fu nel codice ommessa una rijra, nella quale si dicea del ritorno «li quo' presuntuosi a palagio. DE PRESUNTUOSI 271 (1) Ms.: e voi anziani sete tutte volte farsi. (2) Ms.: ognanno. y mattie. E pertanto fate che rifermo sia, poiché noi vel dichiamo. Lo gonfalonieri, che avea da* compagni che hii rispondesse, disse: 0 voi che di continuo volete l'officio dell'anzianatico di Pistoia, se voi anziani sete, tutto volete fare (1), e quando altri anziano ( sia] volete che faccia a vostro modo, e cosi ve ne siete andati d'anno in anno. E pertanto noi, che anziani siamo, \^lemo esser -^ noi anziani e vogliamo fare a nostro modo et non a vosffo. E dichiamvi, se sete tanto arditi che in questo palagio intrate senza essere richiesti, noi vi faremo gittare giù dalle più alte finestre di questo palagio, et in nella malora levatevi dinnanti da noi, e fate che mai non v'avvegna che non essendo richiesti qui vegnate. Udendo coloro tal parlare, senza altro dire dal palagio si partirono, né mai da tale officio richiesti funno, e fu tanto pregiato quello che fatto aveano quello anzianatico, che mai non fu neuno che senza essere richiesto al palagio andasse, se non fusse caso scritto per utilità e bene del comune di Pistoia. E per questo modo funno scornati coloro che ognuno (2) teneano I sotto i calci. 272 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI 77. [Triv., n" 108]. DE SOMMA GOLOSITATE. \)1f~j0 . ^ Al tempo che papa Urbano quinto tenea la corte di Roma in nella città di Vignone, dove tutta la cristianità vi correa, e là v'era grande corte di cortigiani e d'altri mercadanti et artieri, in fra li altri mestieri che quine in abbundanza erano, s'era il mestieri del cuoco, perocché generalmente tutti quelli che la corte visitavano sono piuttosto maestri del bocolieri che della spada, cioè che sono jpiuttosto golosi che franchi a combattere. E con tale vizio procede èssere di lussuria involti, di che quelli che tal mestieri di cuoco fanno con libri e con maestria s'ingegnano le vivande di fare tanto ghiotte, che la loro bottega abbia gran ressa e guadagno. Et in fra le altre vivande ch'è in Vignone e dov'è la corte di Roma, si sono li pastelli, e di quelli si fanno assai con gran profitto. Sentendo che molto guadagno si facea de' pastelli, uno giovano da Fermo nomato Troiante, il quale più anni era stato scarano e malandrino et ogni cattiva condi- zione, il quale più volte, come malvagio, avea mangiato il lesso et arrosto delli omini che uccisi avea (1), et avendo sentito quanto era ghiotto, così pensò andare a Vignone, poiché sentito avea l'arte de' pastelli e del cuoco essere di tanto frutto. E così da Fermo si parti, e camino a Vignone, dove Troiante fé' uno ostello di mangiare cotti, e per avere nome di fare buone vivande et anco per ispendere meno, se n'andava ogni dì al giubbetto et delia carne delle coscie e de' luoghi carnosi di quelli che di fresco appiccati erano prendea, e con quella facea de' pastelli, e tali veniano tanto odoriferi e buoni, che tutto Vignone concorrea a prendere da Troiante li pastelli et altre vivande. [Avvenne che uno cittadino] (2), essendo molto ghiotto, con suoi amici procacciò la podestaria di Vignone, solo a fine di quelli pastelli potere mangiare. E come pensò gli venne fatto, che eletto fue podestà di Vignone et all'ofilcio andò. Et intrato in nell'officio, domandò quelli che usavano le vivande ghiotte qual persona le facea migliori. Fugli ditto Troiante essere sommo maestro, che pari di lui trovare non si potea. Lo podestà subito mandò per lui. Tro- iante comparito disse al podestà quello che volea. Lo podestà (1) Ms.: aveano. (2) Qui manifestamente nel ms. furono lasciate alcune parole. DE SOMMA GOLOSITATE 273 disse: E' m'è ditto che tu fai le migliori vivande e le più ghiotte che persona di Vi;jnone, e massimamente li pastelli, e pertanto voglio che ogni dì che da mangiare fai, che io n'abbia alcuno. Troiante disse : Sarà fatto. E partitosi, la sera ne gli mandò uno, dicendo : Questo vi manda Troiante che l'assaggiate, e non vuole per questo alcuna cosa vi costi, e se questo vi piacerà, vi farà delli altri e voi li pagherete. A cui lo podestà disse che era contento. Et assaggiato quello pastello e parutogli buono, meglio che vivanda che mai mangiasse, mandò a dire a Troiante che ogni dì ne gli mandi o uno o due, e che bene lo pagherà. Tro- iante cosi fa, che ogni giorno al podestà ne mandava. Divenne una sera che il podestà, avendosi posto a taula per cenare e avendo innanti uno de' pastelli che Troiante mandato gli avea, prima che cominciasse a toccare niente, subito fattosi alcuno zuffa e rumore in Vignone, fu di necessità che '1 podestà si levasse da taula et coU'arrae tutta la notte stesse per Vignone alla guardia, né mica poteo avere agio di cenare. Pensando la mattina mangiare quello pastello, lo fé' ripuonere, e steo fino alla mattina che il romore richetato fu. Et tornato il podestà al palagio, volendo mangiare, si fé' il pastello alquanto riscaldare e dinnanti da sé venire. E come lo venne ad aprire, trovò tutto quello pastello pieno di vermi vivi. Lo podestà, vedendo questo, stimò per certo non dover essere, dicendo: Or come può essere la carne cotta e calda faccia vermi in si picciol tempo? E volendo sapere la cosa com'era, mandò per Troiante, mostrandogli quello che il pastello avea fatto. Troiante, quasi pallido, non rispondea. Lo podestà , vedendolo pallido diventare , stimò che Troiante avesse qualche cattività fatto. E messogli paura, Troiante con- fessò li pastelli et altre vivande fare della carne delli omini appiccati. Lo podestà, mandato al giubbetto, trovò tutti li appic- cati aver tagliato i polpacci delle coscie e del culo e d'ogni lato dove carne senz'osso sea, e fattane relazione, il podestà, veduto quello volea ragione, più presto che poteo Troiante per la gola appiccare fé', avendo prima fatto leggere il perchè. E saputosi per Vignone tal cosa, qual più era vago di pastelli, per lo modo tenuto da Troiante, vennero a ciascuno in fastidio. Et il ditto podestà della golosità che prima avea s'astenne, disponendo poi la vita sua a temperata vivanda, né mai di cose nuove s'invaghio, e così molti altri feceno. Et io autore, ciò sentendo, dispuosi che pastelli mai in mia casa si facessènoTe cosi fine qui s'è osservato et osserverassi, fine che vivo serò. He»ibr, Nocelle di G. Sercambi. 18 274 NOVELLE DI GIOVANNI SERGAMBI 78. [Triv., n" 109]. DE MAGNA GOLOSITATE. y^^ Fu in nel tempo che la nostra_città di Lucca ri mase_ libera diliberato che fuìfelé fortezze che Lucca possedea si desseno a' cittadini a guardia, e massimamente le porte della città di Lucca. E come fu diliberato si misse in effetto, che in sulle ditte porte funno cittadini per castellani messi, et in fra li altri che messi vi funno fu uno de' Gorbi nomato Nicolao, grande e grosso come uno bue maremmano. Era questo castellano in sulla porta del Borgo con dieci compagni assai eguali al loro castellano in tutte le cose, e massimamente in mangiare provavano molto loro persone, che prima che il mese fusse venuto avea il castellano e sue genti mangiato il soldo, e sempre per tal cosa stava in debito. Or perchè la nostra novella si dirizza al ditto de' Gorbi, dirò quanta la sua golosità era, che non bastandogli il pane et v^ il bere la mattina, e '1 desnare, facea poi (1) la marenda, se- quentemente la cena e la dopocena, che ogni notte almeno du' volte mangiava, ne mai parea si vedesse sazio. E non bastandogli ^ il soldo al suo mangiare, di quello di casa, per impirsi bene, mettea. Et era a tanto venuto, che per gente che avesse non gli valea compagnia a si fatte cose, ma solo convenia per se ^ vivere. E fu tanto il suo diluviare di roba, che non potendo a X ogn'ora avere carne, per salegiata prendea dell'erbe che in sulle mura nasceano, non guardando che erbe si fusseno. E così in sulla ditta porta steo alquanto. E com'è usanza che li anziani di Lucca vanno a visitare le mura , come sono ben fornite di y castellani e sergenti, acciò nessuno [manchi], un giorno del mese di maggio in domenica du' del collegio di quelli anziani andonno in sulle mura per provvedere li castellani. Lo castellano de' Gorbi co' suoi sergenti aveano apparecchiato per merenda assai carne, e già cotta avendola, li anziani giunseno alla porta dove coloro erano. E trovato apparecchiato, dissero se aveano ancora a desnare. Rispuose che desnato aveano, ma quello era per merenda. Li (1) Ms.: e per poi. DE MAGNA GOLOSITATE 275 anziani, vedendo tanta carne cotta, dissero: Per cerio, castellano, tu dovresti essere gagliardo per sei omini, tanto ci paro che debbi mangiare. El Gorbo disse: Or come non vi pare che io abbia corpo da essere forte e gagliardo? Li anziani dissero: Facciamo la mostra. E fatta la mostra et partitisi li anziani di quella porta, su per le mura verso l'altra porla n'andavano. Il castellano volendo puonersi a taula per mangiare , li sergenti subito trassero a lui colle mani alle brache, e tratto fuori la trista coda, piscionno (1) per lo volto al dillo castellano. Lui ?iìggèn3ó~e gridando, in uno de' cantoni della porta si misse, chiamando forte misericordia. Li sergenti a, gorgate la bocca di piscio gli empievano, lui dicendo : Misericordia ! ^ non fate più, andiamo a mangiare. Li anziani, che senteno le grida e dire misericordia, trasseno arieto a quella porta, credendo che tra loro si facesse quistione, e come funno in luogo che tutto vedeano e non poteano dal castellano esser veduti, stavano a vedere quello faceano. E videno che il Gorbo castellano tenea le mani al volto dicendo: Misericordia! io sono contento, purché noi andiamo a mangiare; io m'arrendo vostro prigione. Li sergenti, tenendola coda trista in mano, di furia l'uno lo percotea del piscio in nel- Forècchiai l'altro in nell'altra. Il castellano, levando la mano per coprirsi l'orecchia, l'altro gli dava in nell'occhi. Lui, dicendo misericordia, apre la bocca e du' di netto gran gorgazzate di piscio gli davano dentro. Lui dicea: Deh, vogliatemi prigione e non morto, et andiamo a mangiare. Goloro diceano: Prima che noi ti vogliamo lassare, vogliamo che legni aperta la bocca e ciascuno che meglio sa dentro dare sia oggi fatto capitano, e poi andiamo a mangiare. Il Gorbo Nicolao rispuose : Poiché dob- biamo andare a mangiare, io sono contento, e non di meno mi tegno vostro prigione. Et aprendo la bocca quanto aprir la potea, cominciarono i sergenti a trarre tanto diritto, che più volte, vo- lendo il piscio che in bocca gl'entrava mandare fuori, l'altro col piscio lo rimettea dentro per s'i gran forza, che più volte gli era di necessità di mandarlo in corpo. Li anziani, che stanno a vedere tanta cattività senza dir niente, per vedere la fine di tale opera stavano pure a vedere. Et fornito che ciascuno ebbe l'opera sua, il castellano inginocchiandosi disse a' sergenti : Omai, come prigione, a mangiare mi menate. Goloro con una cintora (1) Ms.: pesciando. 276 NOVELLE DI GIOVANNI SERGAMBI al collo lo menonno alla mensa, dove, senza lavarsi ne mani ne culo, a taula si puose, là u' si pasceo come se mai mangiato non avesse. Li anziani, essendo pasciuti della cattività di quello ca- stellano e de' compagni, come giunti furono al palagio, l'ebbero casso, et d'un altro la ditta porta fornirono (1). Et se non per amore di alcuno suo parente, are' sentito delle frutta del mal orto, e per questo modo fu cognosciuto la golosità Jénflsto crhìotto. (1) Ms.: fornio. DE PRELATO ADULTERO 277 [Triv., n° 110]. f DE PRELATO ADULTERO. In nel contado di Perugia, in una villa nomata Passignano, fu uno uomo assai di buona pasta, vecchio, nomato Canoro, assai ricco lavoratore, il quale, pensando aver figliuoli, diliberò prender moglie una sua vicina nomata Monica, giovana di venticinque anni et assai piacevole. Come di liberò misse in effetto, che a uno suo [amico], della ditta Monica fratello, nomato Paulo parlò, doman- dando la ditta per moglie. Paulo, che vede il parentado di Ca- noro essere sufficiente, posto che lui sia alquanto vecchio, fue contento ; e fatto il parentado, la donna menata, dimorò alquanto tempo, che niente di figliuoli acquistare poteo. E vedendo il pre- ditto Canoro che in questo mondo non era altro che tribulazione et angoscia, diliberò fra sé di voler tenere vita di spirito, pren- dendo veste di bizoco, facendosi nomare frate Canoro, vivendo con molta dieta, con suoi patrenostri visitando le chiese. E benché fusse molto di grossa pasta, pur lo visitare delle chiese non re- stava. La donna, che spesso are' voluto di quello che frate Ca- noro non gli dava, maledia chi tal marito dato gli avea, dicendo: Io almeno ogni notte una volta vorrei esser pasciuta di quello che le mie pari pascere si sogliono. Et io cattivella, non che una volta il di fussi contenta, ma il mese passa che di solo una volta contentare non mi posso, perocché frate Canoro mi dice: Oggi è la festa di S. Patrizio; domane si degiuna l'avvento; l'altro di sono le quattro tempore, e così di giorno in giorno lo mese si passa. E pur quando all'atto viene, benché rade volte vi vegna, quello [mij fa contenta. Et questo lamento dicea fra sé spessissimo volte, et dimorando per tal maniera, venne a Passi- gnano in nella chiesa della ditta terra, da studio, uno monaco giovano nomato Don Mugino, il quale essendo molto in iscienza sporto, fu fatto prete della ditta chiesa, col quale frate Canoro, per imparare, prese una singulare dimestichezza et amicizia col ditto monaco, in tanto che più volte co' lui desnando, e talora lo monaco con frate Canoro a desnai^e e a cena andava, e fu tanta la dimestichezza che lo monaco col frate prese, che accorto si fu la donna di frate Canoro esser mal pasciuta dal marito. 278 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI Pensò lui di gran parte poterla pascere. E dandogli d'occhio, madonna Menica ricordandosi di quello che '1 monaco facea, in nel medesimo appetito cadde per la sua voluntà adempire che caduto era il monaco, e quanto più presto poteo die ordine di parlare col monaco. [Ella gli scoprì il suo bisogno] (1), per la qual cosa il monaco gli disse che altro non desiderava che po- tersi con lei a ignude carni trovare, per contentarla di quello che '1 marito contentare non la potea. La donna contenta dicea: Monaco, io sono presta a fare quello vuoi, salvo che io non voglio di casa uscire; però se il mio fratello Paulo ciò sentisse, non ci campere' che morti non fussimo, et in casa non veggo il modo che venire potessi, perocché fra' Canoro di continuo a dire suoi patrenostri si sta in casa, e rade volte va a lavoro che non voglia che io con lui vada. E però converrà a voi trovare qualche onesto modo che a me venire possiate, acciò che contentiamo li appetiti nostri. Lo monaco dice: Donna, lassa fare a me. Io darò al frate tuo marito una regola, che agiatamente gran parte della notte insieme godremo. La donna dice: Deh, per Dio, fate tosto. Lo monaco, per essere tosto alle prese, come fra Canoro a lui va, lo tira da parte dicendogli : Frate et amico mio, poiché io hoe preso tanta amicizia teco che quello che più amo farei partecipe di quella cosa che più da te dev'essere amata, e co- gnosco che desideri andare in paradiso e fuggire lo inferno, posto che non molto lieto mi sia narrarti le cose secrete del cielo, non di meno, per poter venire al disiato desiderio, non guarderò a palesarti tal secreto. E pertanto ti dico che il papa et i cardinali, per avere la gloria di paradiso, hanno ordinato, raa non vogliono che si jpanda, che stando quaranta dì in di- giuno et ogni notte stare fine a mattino in modo come fu Cristo crocifisso, cioè colle braccia aperte in su uno solaro fatto per modo che il cielo veder si possa, con trecento patrenostri e tre- cento avemarie, e finiti se ne vada vestito a gittarsi in sul letto finché livri sono li quaranta dì, et allora ogni peccato gli è per- donato et morendo ne va in paradiso, e di peccato che poi faccia non gli è riputato a pena. Fra' Canoro, ciò udendo, disse che tal penitenza far voleva. E subito se n'andò a casa e disse alla ci) Qui mi sono permesso di sostituire una frase alla accozzaglia di pa- i-ole che vi è nel codice: col moìiacho di mangiare scoprendosi lo petto suo per In qual cosa. DE PRELATO ADULTERO 279 moglie quello, che '1 monaco insegnato gli avea et il modo che dovea tenere. La donna, che vede che il monaco ha trovato modo di poter agiatamente con lei stare, dice al marito : Marito mio, io voglio essere teco a fare la penitenza in du' cose, l'una che meco in quaranta di non userai e voglio teco digiunare, l'altra cosa fa tu. Lo marito, contento quando ode dire che seco non debbia usare, disse alla donna: Stasera vo' cominciare. E fé' uno taulito con una sponda d'attorno (1), dove fra Canoro ^ stendere^inr possa sotto al lucernario della casa, dove sempre si veda il cielo. La donna, contenta, lo fé' sentire al monaco come la sera il marito principiava a voler fare la penitenza, che bene era che s'apparecchiasse a dovere con lei dimorare; tanto tempo quanto il marito starà riverso, lui stea boccone. Lo monaco in- teso, apparecchiò ben da cena. E venuto l'ora, fra' Canoro git- tatosi riverso in sul taulito con li occhi al cielo, stando colle braccia disteso in croce, dicendo i patrenostri, lo monaco con madonna Menica si danno piacere a cenare, e cenato se n'an- darono a letto, dove fine al mattino in sul corpo di Menica boc- coni steo. E quando venne tempo che partir si dovea, avendo '^oc Iiiùmiglia^__caminato , la donna disse che la seguente notte tor- nasse, e così si^partio. Fra' Canoro, ditto i patrenostri et ave- marie, essendo mattino, vestito si gittò in sul letto e quine dormio fino al die digiunando. La donna alla presenzia del marito parea digiunasse, et in secreto s'empiea di sotto e di sopra, mangiando carne per du' bocche in abbondanza. Venuta la seguente notte, fra' Canoro alla penitenza messo e lo monaco venuto a darsi piacere, e' cenato, a letto colla donna n'andò. E perchè alla donna il mestieri piacea et anco al monaco, non potendosi la donna tenere d'alzare, acciocché ben potesse _pignere (2), tutto il solaio ^ dimenare facea, in tanto che lo marito, sentendo si dimenare il solaio e la parete, avendo già ditto cento patrenostri, tenendo fermo il conto, disse: Deh donna, che vuol dire questo dimenare? La donna, occupata dal monaco, disse : Chi ha_la mala cenalutta^ notte si dimena. Lo marito disse: Ben te l'ho ditto, Menica, non Sìgiun'are. E pur sentendo dimenare, dicea: Donna, che fai? Lei rispondea: Di quello che io fo non te ne dare pensieri, perocché io so quello mi fo e tu di' la tua perdonanza. Lo frate alla per- ei) Ms.: dato. (2) Ms.: non potesse pingnare. v 280 NOVELLE DI GIOVANNI SERGAMBl donanza ritorna. La donna e '1 monaco si danno piacere, ordi- nando che per l'altra sera in altro luogo, che tremare non possa, si faccia il letto, e così osservonno più di trenta dì. Avendosi la donna in gran parte saziato di quello che '1 marito gli facea portare disagio, seguendo sempre loro piacere, addivenne che Paulo, fratello di Menica, vedendo fra' Canoro tanto sfinito (1) della persona per lo digiuno e per la vigilia, che non dormia, dimandandolo qual fusse la ragione, fra' Canoro tutto gli disse come lo monaco gli avea insegnato. Paulo, che malizioso era, pensò: Per certo questo monaco de' ruzzare con mia sorella, che questo modo ha trovato per poter andare a stare con lei di notte. E per certo, se in colpa il trovo, io lo castigherò e lei, per modo che sempre se ne dirà. E nascoso in casa che altri noi sa, e' quine steo tanto che la sera fu venuta, che fra' Canoro si distese in croce in sul solaio colla faccia al cielo et / • il monaco venuto colla sorella si dà a cenare e prende piacere. Paulo li vede a letto andare e nudi entrati in nel letto dandosi sollazzo. Vedendo ciò Paulo, subito con uno coltello, senza fare motto, al letto dov'era la suora col monaco se n'andò, e messo *^ mano al pasturale del monaco, che l'avea di buona misura, in bon puntóliòl coltello quello gli tagliò. Mettendo un grande grido, il monaco tramortio. Fra' Canoro, ciò udendo, disse : Deh Menica, che è quello che io odo? Paulo disse: Cugnato, tu se' stato in- gannato, ma loda Iddio che dello inganno io t'ho vendicato. E mentre che questo dicea, senza restare, il naso a Menica sua suora tagliò, dicendo: Omai t'invaghirai di monaco a tua posta. La donna dolorosa piangendo, il marito ciò udendo, cognove esser stato ingannato dalla moglie e dal monaco, e contento della vendetta fatta, prenderono il monaco et così tramortito lo por- tarono in nella calonaca et in su uno letto lo missero e quine steo tanto che riseuEITo^i fu, né molto tempo steo che si morì. La donna, per vergogna, mai della casa non uscio, né a persona si lassò mai vedere; e così dappoi fu contenta solo del marito, né altri curò lei, né ella altrui. (1) Ms.: di finito. DE AVARO 281 80. [Jriv., no 112]. DE AVARO. In nella riviera di Genova in una terra nomata Corniglia, dove nasce vino^. preziosissimo, era imo contadino nomato Bruglioro, omo ricco [di] dinari e possessioni e ricoglitore di vernaccia finissima e d'ogni abbondante cosa. E come questo era tanto scarso, che a persona al mondo non are' del suo dato il valore d'un bottone, se non^ a_folate, ma rade volte, avvenne che un ^ giorno del mese di novemBrè, essendo ^riposti i vini. e-cas.cate 1 le castagne, due del contado di Lucca, [l'uno] nomato Beviamo ^ e l'altro I)accibere, arrivonno a casa d'uno loro amico a CornigUa, •^ nomato Biondo, il quale graziosamente li detti Beviamo e Dac- cibere ricoverò a cena et albergo. E poiché cenato ebbeno, es- sendo un giorno di festa, il ditto Biondo con quelli du' forestieri andarono a casa di Bruglioro, dicendo Biondo: 0 Bruglioro, io sono venuto stasera a riposarmi teco con questi du' forestieri, et acciò che ci possiamo dare alquanto di spasso abbiamo arrecato delle castagne e quelle arostiremo e diremo qualche novellett£L_ ^ Bruglioro, non sapendo la sera disdire, disse che fusseno li ben- venuti. Et entrati in casa e stati alquanto, Biondo disse a Bru- glioro se avesse qualche persona che a casa mandasse per lo vino,"acciò che noi potessimo bere vorrei che v'andasse, però che io penso che vino non ne debbi aver ricolto. E questo dicea stimando che Bruglioro non ne volesse lor dare. Per non ver- gognarsi, Bruglioro, che ode così, vedendo quelli forestieri, disse: Come! credi che io non abbia del vino come tu? E fattosi ga- gliardo, sgigorò una botte di fina vernaccia et a Biondo et a' K- forestieri ne diede. Lo vino era buono et i bevitori migliori. Co- | mincionno a ragionare stando al fuoco et arrostendo castagne, i e vedendo Biondo che a' forestieri era piaciuto il vino di Bru- glioro, disse a Bruglioro: Io ti prego che stasera tu non ti di- mostri avaro , acciò che questi forestieri possano dire che se' largo, e poi fa conto di ristringerti quanto vuoi. Bruglioro, sti- mando: Coloro andranno di me dicendo che io largo sia, potrò esser avaro, altri noi crederà, e questo sera forse una meta o du' di vino, rispuose che tanto quanto bere ne vorranno ne darà 282 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI loro. E stati alquanto, e mangiando delle castagne e bevendo, avvenne che, avendo più volte bevuto, Daccibere cominciò a chiamare il compagno, dicendo : Beviamo, andianci. Bruglioro ode dire beviamo andianci; subito tratto del vino, a tutti die bere. Bevuto cb'ebbeno. Beviamo dice al compagno: Daccibere, or ci andiamo, Bruglioro, ciò udendo, cominciò a mesciere. Coloro per reverenza beveano, e volendosi partire dice l'uno all'altro: Be- viamo, andianne, e l'altro rispondea: Daccibere, or n'andiamo. Bruglioro ogni volta mescea, pensando che andare ne dovessero. Coloro non so n'andavano, vedendo che Bruglioro mescea loro, / non volendosi vituperare, acciò che Bruglioro non si sdegnasse, e cosi più di cento volte dissero: Daccibere, or n'andiamo, e l'altro dicea: Beviamo, andianci. Bruglioro, che vede e non co- gnoscela cosa, coloro simile stanno fermi perchè sempre si mescle, e non potendo li occhi tenersi che di quine si partisseno, addor- mentati funno, e fine a buona mattina sostenno. Dove poi Bru- glioro, [vedendo] la botte esser più che '1 quarto bevuta, disse: Oh che diaule ho io fatto, che non pareva che costoro avessero a fare altro che dire: Dacci bere, or n'andiamo, e l'altro dire: Beviamo, andianci, et io cattivello ho seguito il loro chiedere, che mi si darà (1) di matto per lo capo ad aver tanta vernaccia consumata. E questo dicendo. Biondo e' compagni ciò sentono. Volendosi scusare, dissero: Deh, Bruglioro, non ci volere biasi- mare, perocché noi avendo ricevuto onore assai, quando avevamo beuto tre volte, io dissi a Beviamo: Andianne. Bruglioro dice: Anco siamo da capo in nella malora; andatevi con Dio che mi avete disfatto. Disse l'altro : Deh non dire, che vedendo io che ci avei fatto onore e che sempre ce ne facei, per non contami- narti dissi : Daccibere, or ce n'andiamo. Rivoltatosi Bruglioro verso Biondo, dice : Or che diauli m'hai tu menati in casa a bere, che hanno beuto uno terzo di botte di vernaccia et anco ora dicono: Daccibere, andianci? Biondo dice: Bruglioro, or non te ne meravigliare di questo dato, ch'io tei mostro per prova che non hanno fallito, ma piuttosto t'hanno onorato. Or mi di', Bru- glioro, se tu et io fussemo a una taverna et avessimo mesciuto il vino e volessimo partire, come mi diresti a me? Bruglioro disse: Direi: Biondo, andianci. — Or ben hai dotto, disse Bioado; costoro cosi hanno fatto, perocché l'uno di loro ha nome Beviamo e (i) Ms.: ini sidno redare. DE AVARO ' 283 l'altro Daccibere, sicché quando Beviamo gli parea tempo da doversi partire dicea al compagno chiamandolo: Daccibere, or andiamo; e tu che credevi che loro chiedesseno bere, lo porgevi loro, et ellino, per non fare più che tu volessi, beviano ; e se non che noi ci addormentammo, non si sere' mai restato fine che mesciuto avessi, che ellino faceano dalla loro parte quello doveano, e tu facci dalla tua parte quello dovei. Disse Bruglioro : Se mai m'avviene che tali nomi si trovino in mia casa, dirò : Se vuoi bere, te ne sera recato (1). E dato a costoro la mattina una volta bere, disse : Andatevene e mai più qui non tornate, ne io tali nomi accetterò. E cosi ebbe speso gran quantità senza avere alcuno grado per sua colpa. y (1) Ms.: avessine regalo. 284 NOVELLE DI GIOVANNI SERGAMBI 81. [TrÌT., nO lU]. DE MALA CUSTODIA. 1 Nella terra di Calci, del contado di Pisa, funno quattro per y micidio commisso in quel di Pisa sbanditi dal terreiìÓriT' quali per non essèf^presi diliberonno andare a stare in nella terra di Pescia del contado di Lucca, posto che ora lo comune di Fi- renza quella con altre terre di Lucca possedè. E dimorando più tempo in quelle parti, lo nimico di uno di loro nomato Gallisene sentendo che si riducea in quello di Pescia, segretamente si diero a sentire delli andamenti suoi. E spiato che Gallisone spessissime volte solo si partia da Pescia et caminava alle volte al borgo a rj^MA^^'vMt*' Bttgano, pensonno lui giungere, et del micidio commesso fare \ / 2. vendetta. E segretamente du' di loro in Valdinievole n'andarono ^\' senza appalesarsi a persona, aspettando l'ora che Gallisone an- dasse al borgo. Et non molti giorni dimorando, che Gallisone disse a' compagni, che al borgo andare volea. Li compagni di» seno: Non andare solo, spetta che alcuno di noi vegna teco Gallisone disse: Io andrò innanti, et chi vuol venire ne vegna che prima che io sia al borgo mi potete aver giunto. E mossosi et uscito di Pescia solo, camino verso il borgo. Li compagni stando alquanto, seguirono Gallisone, ma non si tosto che i ni mici di Gallisone non l'avessino prima morto che coloro giunti fusseno a mezza via. E rivoltisi li malfattori, i compagni di Gal lisone sopraggiunti trovonno Gallisone in sulla strada morto della qual morte portonno gran dolore, dicendo tra loro: Se ( Gallisone n'avesse aspettati non serebbe morto, ordinando fra loro che sempre insieme caminasseroT E ritornati a Calci quelli che ucciso aveano Gallisone, narrando di tal morte, subito li niraici d'uno delli altri rimasi, il quale avea nome Morovello, saputo il modo della morte di Gallisone, pensonno per quello modo Morovello uccidere, et andati secretamente in quel di Pescia, si puoseno in luogo che tutte le cose (1) che quelli tre faceano vedeano. E vedendo Morovello, [pensavano] loro vendetta, di- cendo: Se in questi du' di non ci viene fatto, altra volta ritor- neremo. E non molte ore passonno che videno Morovello essere (1) Ms.: tulle la notte. DE MALA CUSTODIA 285 romaso. alquanto a£Ìeto per fare l'agio del corpo. E calato le brache, in uno casalino si puose, li altri non aspettandolo. Li ni- mici trassero et in quel luogo l'uccisero, et partitisi, a Calci ri- tornoro, narrando la vendetta fatta. Uno, al quale gli era stato morto suo padre da uno di quelli quattro nomato Biancaccio, disse : Io mi sento bene in gambe ; per certo io farò ben mia ven- detta di Biancaccio, et se potrò uccider l'altro, che con lui fu quando mio padre fu morto, non me infiniieroe. Et mossosi, e' camino in quello di Pescia per ^■edere se i suoi nimici vedesse. Biancaccio e '1 compagno, che ritornavano del luogo ove andonno, non sapendo niente della morte di Morovello, ma stimando ri- tornato si fusse a Pescia, come funno a quel casalino videno quine l'orme di Morovello, et entrati in quel casalino trovonno Morovello morto colle brache calate. Dolendosene, disseno: Noi facemmo male a non spettarlo quando lo vedemmo puoner a fare suo agio, perocché '1 nimico non guarda né u' né chi, quando il suo nimico uccider può (1); e però facciamo oggimai di noi migliore guardia che non abbandoni l'uno l'altro. E mentre che tali parole diceano, lo nimico loro, che tutto vede e ode, fra sé pensò : Se io costoro assalisco, non potrò fare quello voglio, e potrenno me uccidere ; ma io farò vista voler loro fuggire d'in- nanti. Ellino, come mi vedranno solo, mi correranno dirieto, et io bene in gambe correrò, e non potrà essere che Biancaccio e '1 compagno corrano del pari. Come io ne vedrò neuno di loro separato dall'altro, io lo ferirò, et poi l'altro campare dinnanti non mi potrà. Et fatto tali pensieri, subito misse un grido, di- cendo: Traditori, voi siete morti. Biancaccio, vedendo il suo ni- mico, subito trassegli dirietò. Colui fuggendo, Biancaccio, come desideroso uccidere colui, come ucciso avea il padre, molto più innanti era che '1 compagno. E quando colui vide Biancaccio molto di lungi dal compagno, rivoltosi, e' colla lancia die un colpo a Biancaccio per lo petto, che dall'altra parte lo passò, e morto cadde. Lo compagno, che quasi avea sopraggiunto dove Biancaccio era, vedendolo morto, pensò il fuggire gli fusse scampo, e subito voltatosi gridando, quello da Calci seguendolo, che bene in gambe era, l'ebbe sopraggiunto et colla lancia per le reni gli die, che morto lo fé' cadere. Et dato volta, si ritornò a Calci, narrando come Biancaccio e lo compagno erano da lui stati uccisi et così fu finito tra loro la sruerra. (1) AIs.: quando il loro nimico ucider puonno. 286 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI 82. [Triv.. no 115]. DE PIGRITIA. Carissimi fratelli e maggiori, e voi carissime e onestissime donne, io v'ho proposto di dire alcune novelle d'alcuni, che per lo stare a vedere, avendo potuto riparare, sono venuti in gravi pericoli e danni, e posto che di migliaia dir se ne~pÒT5ssè7~0Fa al presente in questa nostra novella non dirò se non di quattro maniere di modi di chi restato a vedere, avendo prima potuto riparare, per sua negligenza, s'ha lassato alla pigrizia vincere. Prima dirò, in nella nostra città di Lucca, nel tempo che quello "dàTPSfma, cioè messer Piero Rossi, ne fu signore, fu uno maestro di legname nomato Vitali, il quale avendo famiglia et alcuno fanciullo piccolo e stando a casa et in bottega facendo casse et altre masserizie che all'arte si richiedeano, una sera lavorando in nella sua bottega di notte certe casse, tenendo la lucerna ac- cesa per poter veder lume et avea per costume questo Vitali tutti i ruciori_e mossature di legname mettere sotto la scala. Avvenne che, mentre ch'é~lavorava, avendo lavorato alquanto e fatto molti ruciori, la lucerna, come alcune volte fa, sfavillando, una favilla "piccolissima cadde in seno di quelli ruciorj. Vitali lo vede e dice: Ben vo' vedere quello ch'è. Quella favilla, ch'è in uno rucioro caduta ove s'apprese, a poco a poco viene ar- dendo l'altro da lato. Vitali si pone a sedere e sta a puoner cura. Lo fuoco va ardendo per lo spazzo li ruciori fatti la sera, ve- nendosi accostando a quelli che sotto la scala erano. Vitali saldo pur dicendo:, Che farai?, lo fuoco, che vede la materia apparec- chiata, facendo suo corso, in nel monte de' ruciori che sotto la scala era s'apprese. Vitali, che quello ha veduto, disse: Non c'è da stare. Levatosi per voler il fuoco spegnere, lo fuoco ò grande e colle mani spegnere non può, diliberò coU'acqua spegnerlo. Et montato la scala è ito alla brocca dell'acqua. Scendendo la scala, trovò tutta la bottega piena di fuoco, né l'acqua portata niente valse. Vitali, vedendosi a mal partito, per campare la famiglia sua, rimontata la scala, i fanciulli da una finestra dirieto calò et simile la donna. Vitali, che parca a lui che '1 fuoco non do- vesse ancora aver acceso lo solaio, per campare alcuni suoi ar- A^ DE FIORITI A 287 nesi in nella camera intrò, dove reggendosi addosso alcuna cas- setta de suoi migliori arnesi (1), i vicini tratti e rotto l'uscio dentro, quasi tutto ciò ch'è in bottega arse; et il fuoco avendo arso il solaio, Vitali colle casse venuto in sala lassolle, non po- tendole sostenere, et si fiaccò. Vitali colla cassa in nella bottega cadde, avendosi prima tutto fracassato per la caduta et il fuoco cocendolo, a mala pena vivo di quine tratto fue. La casa durò d'ardere. Vitali messo in su un letto d'un suo vicino, narrando la cosa come andata era, dicendo: Io me l'ho ben guadagnato, e cosi si morio. — Vegno ora a contare che uno nostro cittadino nomato Bartolo, essendo fattore d'una compagnia di Lucca, la quale al presente non è di bisogno dire, quale avendo il ditto Bartolo fatto molte grandi spese per suoi fatti propri, cogno- scendo i maestri suoi che al salario che il ditto Bartolo avea non potea né dovea tale spesa fare, pensonno lui dovere fare mala masserizia e dicendogli : Bartolo, noi troviamo che tu hai tenuto di banchi migliaia di fiorini ; noi vogliamo che ci mostri trTahésóno stati distribuiti. Bartolo, che i libri avea in punto, disse: Io ve li mostrerò ordinatamente. Li maestri contenti dis- seno : Metti ogni cosa in su uno quaderno, sicché noi possiamo essere chiari. Bartolo richiudendosi una sera in nello fondaco, avendo molti libri aperti e posti sopra una scafa o vogliamo dire ^ scrittoio, e come gli bisognava l'uno o fàUfÓ, presto lo pofea avèféTèt essendo stato gran pezzo della notte tenendo uno can- delieri grande con una candela di sevo accesa dinnanti, e pen- ^ sando donde mettere capo di quello che fare dovea, avendo tutti i libri aperti dell'entrata e dell'uscita, e stando sopra sé, venuto un topo non molto grande, et arizzatosi^ al candelieri, Bartolo, che ciò vede, dice fra sé: Or che vorrà fare quel topo?, e stava cheto senza niente dire, né muoversi. Lo topo, giunto alla can- dela, cominciò a mangiare. Bartolo fermo. Lo topo rode tanto che giunto fu al lucignolo, dove il topo misse i denti. E non potendo il topo ritirare il dente a sé, dava alcuno crollo alla candela. Bartolo, che vede che la candela dal topo é crollata, rizzandosi, lo topo spaventato, per forza, non potendone li denti, cavò dello candelieri la candela, e saltato sopra della _scafa do- v'erano i libri aperti, quine avendo molto cotone da balle, com'è d'usanza, la candela a quello cotone s'apprese. Et ardendo forte. > - frascato. 4 DE APETITO CANINO ET NON TEMPERATO 303 86. [Trir., no 121]. DE APETITO CANINO ET NON TEMPERATO. Fu nel contado di lerusalem in una villa ovvero castello chia- mato Gessimani uno buono omo nomato Taddeo cristiano, di cin- tura£.jzc-> e della roba assai competentemente ricco. E non avendo che uno figliuolo, quello amava sopra tutte le cose del mondo, e benché molto l'amasse, nientedimeno per alcuno sentimento del suo nascimento, molto ~^uhita va, perocché a lui era stato dichiarato, quando_a bjttfìsimcL.lo fé' portare a battizzare (a cui puose nome Paulo) che dovea di subitana morte morire in nel- l'età di dieciotto anni, e se per alcuna ventura lo campasse, che divérre" omo di gran fatto, e per questo in parte portava al- quanta malinconia di lui et in parte allegrezza. E stando il ditto Taddeo in gran piacere, facendo notricare il figliuolo tanto che pervenuto fu all' età di diciassette anni , in nel qual tempo Taddeo ammalando e non potendo più la vita in lui durare, con pianto e dolore fé' a sé venire Paulo suo figliuolo, con lagrime lo baciava, et erano tante le lagrime che Taddeo gittava, che Paulo disse: Per certo, padre, o voi non m'amate come de' amare padre, o voi di me siete, coma fuor di senno, oltra l'usato modo preso d'amore. E pertanto vi prego che a me dichiate il perchè li occhi vostri tanto sono afflitti in mia presenza. Lo padre, che ode il figliuolo, gittando uno strido, disse: Se io lagrime, io ho di che per più rispetti, et prima perché della morte ho paura, appresso perchè lasso te in grave pericolo, che penso, essendo io morto, tu poco di po' me vivere dèi, e più mi duole che di subitana morte debbi morire, compiuti i dieciotto anni, e queste sono le ragioni che m'inducono a lagrimare. Ma d'una cosa l'a- nimo mio mi fa stare heto, che se la fortuna fa passare il tempo di dieciotto anni, diverrai gran maestro e signore, sicché '1 dolore mischiato con l'allegrezza mi fa le lagrime dalli occhi discendere. Ornai ti prego che sii contento e colla mia benedizione a Dio t'accomando, comandandoti che sempre la fede di Cristo man- tegni e da quella mai non ti partire. E ditto ch'ebbe queste cose, il ditto Taddeo si mori. Paulo quello fé' seppellire, facendo per l'anima sua assai limosine. Romaso Paulo solo colla sua madre 304 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI ^J^iyJ^ nomata madonna Crestina, donna di gran santità e molto divota di nostra Donna, pregandola di continuo che gli guardasse quel suo unico figliuolo Paulo dalla morte subitana, et avea tanta compassione e paura di questo suo figliuolo, che poche volte lo vedea che di paura non lagrimasse, di che il figliuolo, ciò ve- vedendo, disse: Madre mia, po' che la fortuna mi de' condurre a dover morire subito, omai che il tempo s'approssima, vi dico che io vo' andare a trovare mia ventura; forse che Dio, per sua pietà e per le limosiné e preghi che voi farete, questa pestilenza di tal morte da dosso mi leverà, e se pure fla di suo piacere che io morire debbia, vi dico che almeno di tal morte non n'arate tormento. E pertanto vi prego vi piaccia che a me com- priate un buon cavallo e ben fornito, e datemi dinari, che al- quanto tempo possa senza disagio andare cercando mia \'^entura e voi colle limosiné et orazioni vi serbiate quello che ci è. Là madre, udendo le savie ragioni di Paulo suo figliuolo, tutto misse in effetto, e dopo alquanti giorni Paulo col nome di Cristo v^ montò a cavallo e solo cavalcò verso Babilonia. La donna rimane, facendo dire molte messe e facendo limosiné acciocché ~T5ìolo figliuolo gli salvasse e che prima ch'ella morisse lo potesse ve- dere. E cavalcando Paulo più giornate, dandosi piacere, e restando or in questa terra or in quella, tanto che al termine de' dieciotto anni fu venuto, e passando un giorno per una via circondata di boschi, in ne' quali lo fuoco era stato messo per alcuni di Ba- bilonia, et ardendo forte, uno drago, fuggendo io fuoco, o vera- mente che Dio lo conducesse, vedendo passare Paulo a cavallo per lo sentieri, subito saltato in sulla groppa del cavallo e' le branche misse in sulle spalle a Paulo, sopravanzando la testa con tutto '1 collo sopra del capo di Paulo. Paulo, che pensa in quel punto morire, senza paura lassa il drago far ciò che vuole, spronando lo cavallo tanto, che fuora del fuoco fu uscito. E come fuora del fuoco fu, una saetta si mosse dal cielo per ferire Paulo. Lo drago, che quella ha veduta, subito aperta la bocca, quella ricevo e neuno male a Paulo nò al drago fece. Paulo, stupefatto e tramortito, in terra s'è per la paura avuta del drago, si di quella del fuoco, si per la saetta, che non fu da meravigliare se Paulo non morì, e caduto in terra tramortito, lo drago sceso della groppa del cavallo, e come fusse persona umana quine risteo tanto, che Paulo fu resentito. Et aperti li occhi, vedendo il drago sopra di lui, di nuovo di paura in terra cadde come morto. Lo drago, che ciò vede, surse e partissi tantosto che Paulo I DE APETITO CANINO ET NON TEMPERATO 305 fu resentito, e come lo vide risentire, il drago cominciò a par- lare dicendo: Paulo, non aver paura, sappi che oggi se' campato da morte a vita, perocché quella saetta che dal cielo venne venia per ucciderti, et io quella ricevei per lo buono servigio che fatto m'avei d'avermi tratto del fuoco, e pertanto assicurati et da ora innanti di morte subitana non aver pensieri. Paulo rassecurato si levò di terra, che ancora giacea, per volere mon- tare a cavallo. Il drago disse: Paulo, poiché Dio t'ha campato, io ti vo' dare una bella grazia, e però mettimi la tua lingua in bocca, et io metterò la mia in nella tua, e dicoti che tutte ma- niere di bestie intenderai ciò che dir vorranno. Paulo rassecu- rato credette al drago, e come disse cosi fé', e subito si sentio che tutte creature et animali intendea, e tenendosi molto lieto, a cavallo montò. Il drago si parti, e Paulo cavalcò verso Babi- lonia, facendo per lo camino la prova dello intender li ammali e trovò esser vero. E cosi giunse in Babilonia, né molto quine volse dimorare, che diliberò venire in cristianità, e cavalcato verso Damasco e di quine al porto di Baruti, e montato in s'una nave, si fé' mettere in nell'isola di Cipri, dove si tenea assai con- tento e sicuro, e posatosi in una città dell'isola nomata Scio, -^ sentio che la figliuola del re Carlo di Cipri, nomata Isotta, era ^ malata di una malattia che avea un ranocchio in corpo, avendo ella beuta molt'acqua, e quello gli era tanto addosso cresciuto, che tutta la sustanza gli cavava d'addosso, et era per perdere la persona, e che lo re avea mandato bando che qualunque la guarisse che a tale, con mezzo il suo reame, gli dare' per moglie, e che mai neuno Tavea potuta guarire, e molti n'erano stati morti e disfatti, che tale fanciulla aveano presa a guarire. Paulo, che questo ha udito, pensò voler essere quello che tale giovana goda, e subito montato a cavallo onorevilmente vestito, in corte ^ dov'era lo re Carlo se n'andò et àTuTfe' parlare come uno stra- niero volea la sua figliuola guarire e quella per donna avere. Lo re, che altro non desiava, fu molto allegro e subito fattolo dinnanti a sé venire, ordinato tutto, lo di seguente funno in sulla prova, e fatto venire Isotta fuori della città, intorno a' fossi, là u' Paulo solo colla giovana andavano su per li fossi, e mentre andavano, lo ranocchio cominciò a cantare. Quelli ch'erano in nell'acqua comincionno a rispondere dicendo : Oh cattivo insen- sato, che stai in cotesto corpo rinchiuso e noi stiamo a vedere l'aire e diamoci piacere in nell'acqua e godiamo. Lo ranocchio ch'è in nel corpo di Isotta dice: Io mangio di buone confezioni Kemer, Xavelle dt G. Sercambi. 20 306 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBl e latte, e sto caldo e godo senza paura, e voi cattivelli, che state in nell'acqua e mangiate male, e bevete peggio, et oltracciò vivete in sospetto d'essere dalle serpi mangiati, et io mi riposo senza affanno e non ho paura d'esser morto, ma continuo ogni di mi sono date migliori vivande, l'uno di più che l'altro. Li ranocchi diceno: Se lo re, o chi l'hae a governare, facesse a nostro senno, tu non vi staresti un'ora, e come cattivo in nel fuoco ti faremmo ardere, che hai preso a voler far morire si bella giovana. Lo ranocchio rinchiuso : Cotesto non è neuno che saper lo possa, e però io mi goderò sempre, e voi vi starete in nella mota come degni siete. Paulo, che tutto hae inteso, subito partitosi di quine et in nella terra intrato, facefido_2uello che A (^^^^ - inteso da' ranocchi avea, la giovana libera dalla infermità, posto che debile rimanesse, lo re mandato per medici e medicine, in pochi giorni tornò più bella e più forte che mai fusse. E dato l'ordine che Paulo la meni, la festa fu grande, e più giorni ten- nero corte bandita dandosi piacere, e non molto tempo sterono che Paulo mandò per la madre che a lui venisse, notandole / come avea presa la figliuola del re Carlo di Cipri nomata Isotta. La madre allegra in Cipri n'andò, dove il figliuolo la fé' fare contessa, e lui dopo la morte del re Carlo rimase re e signore di Cipri, perocché altra figliuola che Isotta il re non avea. E cosi insieme steono, avendo insieme molti figliuoli, e morti, l'anime loro, per le buone operazioni. Iddio le chiamò a sé. DE DISPERATO DOMINIO 307 87. [Triv., no 123]. DE DISPERATO DOMINIO. Fu in nelle parti di Borgogna du' conti, l'uno nomato lo conte Danese da Derta e l'altro lo conte Biocolo da Lanson, omini po- tenti e di molte castella signori, che per certo disdegno nato tra loro, essendo vicini e d'alcuno parentado congiunti, vennero a guerra insieme avendosi isfidati. E ciascuno fatto suo isforzo e messe le brigate in su' campi, e venuto a battaglia insieme, or percb^j^re" lungo il nostro novellare, verrò solo alla sostanza della cosa, dicendócìie il conte Danese, come vigoroso e gagliardo, posto cTiè'meno terreno e genti avesse che non avea lo conte Biocolo, la fortuna lo prosperava in tanto che non molti mesi passarono che '1 conte Danese al conte Biocolo tolse tutta la maggior parte delle sue castella e terreno, e poco più gli era rimase che il castello nomato Lanson, e quello assai male in assetto per li molti di quello castello morti et eziandio perchè poca vittuaglia v'avea e pochi difenditori, che si potea dire es- sere perduto. Di che, vedendosi il ditto conte Biocolo a tale stretta, non avendo speranza in Dio, ma più tosto in disperazione mettendosi, come disperato cominciò a raccomandarsi al diaule più volte chiamandolo: 0 diaule, a te mi do in anima et in corpo, se puoi fare tanto che io' sopra del conte Danese possa mia ven- detta fare. E questo più e più volte come disperato chiedea. Lo dimenio, il quale sta sempre attento a fare la natura umana perire, a vendo" pivi volte lo conte Biocolo inteso quanto a lui si ra"ScÒTnandava, diliberò appalesarsi a lui e farlo contento in questo modo dell'animo che avea. E subito apparitogli innanti in forma di un gran_ maestro, dissegli (1): 0 conte Biocolo, io sono venutò~£rTè^er dichiarirti chi io sono e perchè, e però sappi ch'io sono quel diaule che più volte a me t'hai dato in anima et in corpo, e però sono venuto che mi dichi a bocca quello che fra te medesimo più volte hai ditto et io farò ciò che mi co- manderai. Lo conte Biocolo disse : Poiché tu m'hai ditto che se' il diaule et io così credo, ti dico che se del conte Danese mi vuoi fare vincitore, io mi ti do in anima et in corpo. Lo dimenio (1) ]\Is.: dicendogli. 308 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBl disse: Or m'intendi, conte Biocolo, quello che io vo' dire; sappi che quello che a me prometti ti converrà attenere, e non pen- sare di negarmi quello che a me prometterai. E pertanto ti dico che tu ti pensi fine a domane a questotta e qui ritornerai dove io serò e quello che diliberato arai di fare starò per contento. Lo conte allegro disse: Et io verrò, e partiti l'uno dall'altro, lo conte si ritornò nel suo palazzo, e quine pensandosi solo ven- dicarsi, lo dimonio andò in quel proprio luogo dove lo conte Biocolo era, intìammandolo che stasse fermo alla vendetta, e tanto lo 'nflammò che '1 conte, senz'altro raccomandamento di Dio, di- liberò rispondere al diaule che tutto se gli dava in anima et in corpo, avendo sua intenzione del conte Danese, e per questo modo passò quella notte. E venuto il giorno, all'ora dovuta, che il diaule dovea essere quine u' il di avanti avea trovato il conte Biocolo, il preditto conte quine andò e, non molto stato, il diaule si manifestò a lui dicendo: 0 conte Biocolo, come ti se' apensato? Lo conte dice: Che sono contento di darmiti in anima et in corpo, se contra al conte Danese mi fai vincitore, soggiogando lui come ha soggiogato me, e questo fatto, a che ora vuoi vieni per me et io teco senza contrasto verrò. Il diaule, che altro non desi- derava, disse : 0 conte, io voglio che per tua lettera e col tuo suggello tale promissione mi farai, et io ti farò del nimico tuo essere vincitore. Lo conte Biocolo, che per vendetta fare si sere" obligato, giurando disse d'osservargli tutto ciò che promesso avea, e che la carta di sua mano col suggello senza che di quine '^ si partisse la fare'. E fatto venire carta et ongosto, la scritta fece, e preso il suo suggello, quella suggellò et al diaule la diede, ^ dicendogli: Io t'atterrò più che promesso non t'abbo. Il diaule disse: Or mi spetta qui et io tornerò a te; e subito, senza molto stare, rapresentò al conte Biocolo tanti fiorini, che parve uno stupore a vederli, dicendo: 0 conte, se dee soldare tanta gente dando buono soldo, perocché de' dinari ogni dì ten recherò tanti, che tutto '1 mondo soldare potresti, e pertanto dà buon soldo e combatti. Lo conte, vedendo tanti dinari, stimò, non che '1 conte Danese metter al basso, ma tutta Francia, avendo nimistà, poter vincere, et per questo, ringraziando il diaule, disse: Io proverò con quelli e se bisogno delli altri arò jalU^presti. Il diaule dice: Fa tosto, che dinari ci ha assai, e sempre in questo luogo al bisogno mi troverai, e partissi via. Lo conte, preso quelli dinari, dio ordine di soldare da cavallo e da pie, e messosi a combattere col conte Danese, avendo gran quantità di genti, in breve tempo DE DISPERATO DOMINIO 309 riconquistò tutte le sue terre perdute, e poi conquistando quelle del conte Danese, che non molti mesi passarono, che '1 conte Danese con tutti suoi castelli e terre presi ebbe, e morto il conte Danese, pacificato colli altri gentilotti di quelle terre, con gran trionfo a Lanson ritornò, do\^ordìho'che tutti i baroni e signori dell'uno paese et dell'altro et alquanti stranieri fusseno a uno magno desnare che il ditto conte Biocolo fare volea; e venuta l'ora et essendo a taula, il dimonio in forma d'uno corrieri giunse al palagio, dove rappresentatosi, e volendo in sala salire, lo maestro [dellij uscieri non volendo che neuno su andasse, per comandamento disse che alquanto si spettasse fine che l'amba- sciata al conte fatta fusse. Lo dimonio corrieri disse: Va e torna colla imbasciata, et io qui t'aspetto. Lo famiglio andò in sala e quine davanti al conte l'imbasciata fece, come uno corrieri gli volea una lettera dare. Il conte, ch'è ora in sul godere, disse: Dilli che si spetti tanto che noi ci abbiamo dato piacere. Lo famiglio tornò e tutto disse. Il dimonio disse: Va, digli che l'im- basciata è di troppo grande importanza e che voglia quella udire. Lo famiglio ritornato disse quello che il dimonio ditto avea. Lo conte disse: Sia che si vuole, al presente udire noi voglio. E ritornato, l'imbasciata espuose. Lo dimonio disse : Or ritorna, che se non vorrà che io vegna, io verrò a mal suo grado. Lo famiglio, che ciò ha udito, salite le scale e giunto in sala, l'imbasciata disse. Lo conte, ricordandosi della promissione, imaginò quel corrieri essere il diaule. Tutto smarrito disse: Di' che vegna. Li gentili omini, che a taula col conte erano, vedendolo sì trasfi- gurato, gli disseno quello aveva. Lui narrando loro tutta la con- venenza col dimonio presa, coloro confortandolo disseno: Deh spera in Dio, et a lui ti raccomanda, e non dubitare; e mentre che tali parole si diceano, il dimonio giunto in sala e data la lettera al conte, disse: Conte, serva la promessa di questa scritta. Lo conte cognoscendo la sua lettera, voltosi a' cavalieri dicendo: Ecco la promessa al diaule fatta, coloro dicendogli : Raccomandati a Dio, il dimonio, ciò udendo, disse : Poco gli varrà oggimai, che gli è mio. E subito per li capeUi lo prese e di tratto fuori delle finestre lo trasse, e per l'aere fino all'inferno lo portò, e quine col corpo e coll'anima fu lassato. Li cavalieri, stupefatti a quello che veduto aveano, gran parte se n'è fatto romiti, e parte, dati a piacere, visseno con più discrezione che fine a quel punto fatto non aveano. 310 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI 88. [Tiiv., no ]2-l]. DE MALA FIDUCIA D'INIMICI. ' / In nella citta di "Vinegia, dove pensiamo andare, era uno gen- ^ tilomo da ca' Dandolo nomato messèr'T^MrcovaTHo, omo d'assai, il quale avea una sua donna giovana da ca' Baldìi nomata Anna, bella di suo corpo e molto soUazziera, e cantatrice e danzatrice, che a tutte le feste era per la sua piacevolezza, e bellezza, e simile per lo stato, invitata, in tanto che non parea avere festa se Anna quine non fusse, a le quali feste molti giovani concor- revano. Et in fra li altri che a tali feste andavano e massima- mente per vedere la ditta Anna, era uno giovano bello, di meno J di età che non era messer Marcovaldo, nomato Lancillotto da ca' Dandolo, come era il marito di madonna Anna. E dopo il molto praticare insieme alle feste, di parole in parole, assicu- randosi Anna con Lancillotto, non molto tempo steono che di concordia tra loro dispuosero che Lancillotto di Anna si pren- desse suo piacere, e così divenne, che Lancillotto "ebbe di Anna tutto ciò che a lui fu in talento più e più tempo. Addivenne che Lancillotto, per lo suo senno e sapere, tra' gentili omini di Vinegia fu eletto dogió della città di Vinegia, e fatto maggiore governatore di tal terra, ordinò alla sua guardia alquanti, com'è d'usanza, et a' consigli fé' ordinare che richiesti fussero alquanti gentili omini, fra' quali volse che messer Marcovaldo [fusse. Marcovaldo], che tutto avea saputo, fingendosi di non sapere, lassava il ditto Lancillotto il suo piacere con Anna prendere, dando talora agio al fatto, sperando a tempo e luogo castigarlo de' falli commessi, e come astuto mostrava al ditto Lancillotto dogio tanto amore che più che Dio parea l'amasse. E per questo modo essendo messer Marcovaldo onorato e fatto ricco per li ollìci et onori ricevuti da Lancillotto dogio, divenne che avendo veduti alquanti gentilomini di Vinegia e loro seguaci malcontenti, .. tóslandoli più volte e trovandoli essere malcontenti, qual per uiìa ragione, qual per un'altra, lui, che ingiuriato da Lancillotto si tenea dell'usare con Anna sua donna , prese pensieri di vo- lersi della ingiuria vendicare, non guardando ne chi ne come, pensando che se morto fusse per le sue mani, li gentili omini DE MALA FIDUCIA D'INIMICI 311 lui cercasseno dogio e maggiore. Et avuto con alcuni malcon- tenti pratica di tal fatto, confortatovelo che faccia tosto, messer Marcovaldo, non guardando se non a vendicarsi della 'ngiuria della donna, dispuose un giorno del mese di luglio in sì gran ^ caldi andare al dogio per narrargli alcuna storia ovvero novella. Et ito .solo, avendo alquanti prima informati che presti fussero, come fu col dogio, il preditto messer Marcovaldo con uno col- tello al dogio per lo petto diede, che morto cadde. E pensandosi essere il maggiore, volendo levare lo romore, li amici di Lan- cillotto coU'arme trasseno al palagio, e sentendo messer Marco- valdo da ca' Dandolo la tratta, disse: Io sono che ho morto Lan- v^ cillotto, e vo' essere il maggiore e non lui. Li amici, ciò sen- tendo, senza indugio messer Marcovaldo ucciseno, e tratti in nel palagio, di nuovo creonno altro dogio cui a loro piacque, e non al modo che messer Marcovaldo are' voluto e volea, cognoscendo che altro che lo sdegno preso, che colla donna sua lo dogio era usato, condusse Marcovaldo a fare tale atto, e non altra cagione. E però li amici volsero che di tal fallo non si potesse gloriare. Or questo addivenne al ditto Lancillotto per aversi fidato di messer Marcovaldo, che mai fidare non se ne dovea, e per questo modo finì sua vita. " ' ' 312 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBl [Triv., n" 125]. DE TRADIMENTO FATTO PER MONAGUM. Fu nel contado di Verona, in una villa chiamata Orsagliora, et ancora è una badia di monaci molto dalle persone frequentata per le molte perdonanze, in tanto che l'abate in tutte cose era santo riputato, e non che di lui si prendesse sospetto delli omini, ma eziandio delle donne poco si prendeano pensieri. Era l'abate nomato abate Marsilio, e posto che santissimo fusse tenuto, lui per Ì20crisia_jdimostrava quello non era, perocche~segretamente e con questo modo strelTò" molte donne della vita avea di loro avuto suo contentamento. Ora avvenne che essendo col ditto abate addomesticato uno omicciuolo assai grosso dipastanomato Gallisone, et in questa domestichezza s'accòrse' l'abate che Gal- lisone avea una bellissima donna per moglie, nomata Camilla, della quale l'abate sì fortemente s'innamorò, che d'altro non potea pensare. E posto che Gallisone fusse grosso, nondimeno in guar- dare la moglie era savissimo, di che l'abate con nuovi parlari condusse Gallisone e la moglie ad andare a prendere diporto in nel giardino della badia, dove più e più volte disse loro della beatitudine di paradiso e d'altre cose, e tanto disse loro che alla donna gli venne voglia di confessarsi dall'abate, e chiesto licenzia al marito, e lui concedutala, coU'abate si trovò et a' piedi se gli puose. E cominciando la donna a dire, disse: Se Dio non m'avesse prestato marito, per le vostre sante predicazioni mi serei disposta ad acquistare vita eterna, ma avendomi dato Gal- lisone, mi posso reputare vedova per la sua simplicità e gros- sezza, e così come gli è matto è senza cagione tanto geloso di me, che io ne vivo in grande pena, e però prima che ad altro io vegna vi prego che a questa parte mi date qualche consiglio. Questo ragionamento confortò l'animo dell'abate, perchè gli parve che la fortuna gli avesse apparecchiato quello che disiava, e disse : Figliuola mia, io credo che gran noia sia a una bella gio- vana come tu se' ad aver per marito uno poco savio, ma molto credo sia maggiore ad aver uno geloso, e però, se hai l'uno e l'altro, ti dico tu esser molto tormentata et afflitta. E brevemente parlando ti dico che solo un rimedio ci so, e questo è che Gal- DE TRADIMENTO FATTO PER MONAGUM 313 lisone guarisca della gelosia. E questo io, benché monaco, inse- gnarottelo (1), pure che tu vogli fare quello che io ti dico e tenerlo segreto. La donna disse: 0 padre, non dubitate che in- nanti mi lascierei morire, che a persona appalesassi niente; ma come si potrà quello fare? L'abate disse: Di necessità è che Gal- lissone stia in un luogo, dandogli a intendere che vada in pur- gatorio. Or come, disse la donna, si potrà questo fare, stando egli vivo? L'abate disse: E' conviene che muoia et a questo modo v'anderà, e quando tante pene ara sofferte, che di questa gelosia sarà castigato, con certi preghi io lo farò ritornare. La donna disse: Or io debbo essere vedova? L'abate disse: Sì, per un tempo che non ti potrai maritare. La donna rispuose : Purché di questa mala gelosia guarisca, sono contenta, e però fate come vi piace. L'abate risponde: Et io il farò; ma che guiderdone, figliuola mia, arò io di così fatto servigio? — Padre dolcissimo, rispuose la donna, comandate. L'abate disse; Come io, a scampo di te, mi metterò a ogni cosa, così tu, a scampo di me, puoi metter tuttociò che fare puoi? La donna disse : Io sono apparecchiata. L'abate disse: Donqua, m'adonerete voi il vostro amore, del quale tutto ardo? La donna disse: Or conviensi a' santi omini richiedere le gio- vane, che a confessarsi vanno, di sì fatte cose? A cui l'abate disse: Anima mia bella, non ti meravigliare, che per questo la santità non diventa minore, e dicoti che la tua bellezza si può gloriare che piaccia a' santi, e non ti doverebbe questo esser grave, perocché io giovano, mentre che Gallisone starà in pur- gatorio, io teco mi godròe, e di belli gioielli ho, cui tutti a te riserbo, et in signo di ciò te' questo anello e delli altri arai. La donna disse: Io sono contenta, purché voi facciate che Gallisone sia purgato della gelosia che ha. L'abate disse : Lassa fare a me. La donna si parte, et alle campagne ritorna, narrando loro la gran santità dell'abate Marsilio. L'abate, per dare compimento alla tela che tessere volea colle calcore di Camilla, mandò per Gallisone, a cui narra alcune cose~~3a matti, [aj lui dicendo che sante cose erano. Disse: Io sono presto a dover santo divenire. L'abate, datogli d'una polvere oppiata, subito lo fé' addormentare che morto parea. E vedendo i monaci Gallisone essere come morto, facendogli alcuno sperimento, e niente valea, diliberonno mandarlo alla moglie et a' parenti a dire. E venuti, tennero Gal- (1) Ms.: insegnartelo. 314 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI lisone esser morto. Camilla, che sa il modo che tenere de', die (i) ordine che l'ahate lo soppellisca e così in uno avello non molto chiuso l'abate lo fé' mettere. La donna e i parenti ritor- nati a casa, l'abate di notte con uno monaco padovano, del quale molto si fidava, l'andò a cavare dal monimento, et ignudo lo misseno in una tomba assai scura, e quine d'una cotta de' monaci lo vestirono e missenlo in su alquanta paglia fine che fusse isvegliato, avendo l'abate informato il monaco di tutto ciò che fare dovea. L'abate, avendo il pensieri al suo desiderio d'avere Camilla, vestito de' panni di Gallisone, a casa della donna se n'andò, e non molto stenno a parole che la donna acconsentio et ogni notte fine a mattino l'abate con Camilla si giacea, e poi al monasterio ritornava. Ressentitosi Gallisone e vedendosi al buio, vestito a modo di monaco, disse: U' sono io? Il monaco rispondendo: Tu se' in purgatorio; Gallisone dice: Dunque sono morto? Il monaco dice: Sì. Gallisone incominciando a piangere che avea lassata Camilla, dicendo le più nuove cose del mondo, e non avendo molto mangiato, lo monaco negli porta. Gal- lisone disse: Or mangiano i morti? Lo monaco disse: E' mangiano quello che altri dà per l'amor di Dio e pertanto questo che io t'arreco è quello che stamane la donna tua mandò alla chiesa per l'anima tua. Gallisone disse: Domine, dagli buona ventura che tanto ben m'ha fatto, e ben si pare che si ricorda quando io la tenea in braccio e baciavala si saporosamente. E per vo- lontà di mangiare mangiò e bevve, e come mangiato ebbe, lo monaco con certe verghe lo batteo forte. A cui Gallisone disse : Perchè mi fai tu questo? Lo monaco disse: Domeneddio hae co- mandato che ogni di ti sia fatto cosi du' volte. Gallisone disse : Or perchè? Il monaco disse: Perchè tu fusti geloso di tua moglie, avendo la migliore che fusse in nelle tue contrade. Gallisone dice: Di vero e' l'era più zuccherata che '1 mele; ma io non sapea che Domeneddio avesse per male se altri fusse geloso, e però ti dico che io non l'arei fatto. Lo monaco disse: Prima che morissi, te ne dovei avvedere; ma se mai ritorni vivo, fa di non esser più. Disse Gallisone : Or tornano mai i morti ? — Sì, quando Iddio vuole. E Gallisone disse: Se io mai ritorno, non fu mai lo miglior marito del mondo, né mai non gli dirò villania; se non che, non ci ha mai mandato candela, acciò che io potesse lume (1) Mp.: dienno. DE TRADIMENTO FATTO PER MONACUM 315 vedere? Disse lo monaco: Si, mandò, ma elleno arseno alla messa. Gallisone dice: Io il credo, ma dimmi, chi se' lu che mi batti e arrecami da mangiare? Il monaco disse: Sappi che io stetti con messer Cane della Scala, e perchè io gli lodai l'esser geloso sono stato messo qui a batterti et a darti bere e mangiare fine a tanto che Dio delibereràe altro di te e di me. Gallisone disse: Or io non ci veggo né sento altri che noi. Lo monaco disse: Sì, a mi- gliaia, ma ellino non puonno udire né vedere te, come tu loro. Gallisone disse: Donqua siamo noi fuora del mondo? Lo monaco disse: Sì. Disse Gallisone: Per tempo saprò ritornare in lo mio paese. E stando in così fatti ragionamenti, con mangiare e bat- titure Gallisone fue tenuto più giorni, tanto che l'abate poteo aver scaricato i_muli a suo bel destro. In tanto che la donna, sentendosi dell'abate gravida, disse che a lei parea che Gallisone tornare dovesse. L'abate disse: A me piace, perocché senza so- spetto da ora innanti potremo la nostra voglia seguire. E fattogli dare da bere, in dormendo fu tratto di quel luogo, e de' suoi panni rivestito et a casa portato, e tanto steo che risentito si fu, dove si ritrovò in casa sua; e tutto raccontando dell'esser stato in purgatorio, mostrando i colpi ricevuti e la cagione, perché la donna e i parenti domandando come era risuscitato, disse: Li preghi del nostro abate m'ha cavato di purgatorio, ammae- stratomi che mai geloso più non sia, et così vo' osservare. La donna disse: Ben tei dicea io, che anco ne patiresti la pena di tal gelosia, e per tanto lassa fare a me quello che tu fare non puoi, che ben te n'avverrà. Gallisone con piacere disse: Donna, godi, che in nell'altro mondo è malo stallo, e tieni a certo che l'abate nostro mette e cava chi vu6Ie~Tn purgatorio, tanto è santo. E tanta fu la fama sua dell'abate, che Gallisone gli die, che di molte ofiferte per santità gli funno presentate, et oltra quelle che alla badia gli erano per le donne e omini date, erano quelle di Camilla, che quasi ogni notte gli dava di quello che del suo vi lassava, e cosi mantennero loro santità. f "316 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMRl 90. [Triv., no 126]. DE MALITIA MULIERIS ADULTERA ET SLMILE MALITL\ YIRL Nella città di Vinegia fu una donna chiamata madonna Bri- sei^ de' Magnanin^ di Vinegia^ bella e piacevole, et al modo di Vinegia servente all'omo, moglie d'uno gentil omo di ca' Cor- nero nomato Stropione, omo di gran cuore ad andare in viaggio colle galee, e quine era il suo pensieri. Addivenne che il ditto Stropione, in su le galee da Barn ti per padrone e maggiore d'una galea andò, e lassato Briseida fornita di tuttociò che bisogno le fusse, intendendo sanamente cose da vivere, dissele (1) : Donna, a te non bisogna alcuna cosa che senza costo avere non possi, e non- dimeno ti lasso ducati cinquanta, se caso fusse che alcuna neces- sità avessi da poter riparare senza richiedere persona del mondo. La donna contenta rispuose: Tutto ho inteso, e raccomandatolo a Dio, Stropione sj^_£arUo. Briseida rhnane. L'uno va con alle- grezza, sperando di guaìiàgnare molto tesoro, la ~dòn"na rimane col pensiero guadagnare carne, com'è d'usanza di Vinegia, che le donne sono piuttosto vaghe della carne che del pane. E cosi Briseida, non volendo uscire dell'ordine delle donne di Vinegia, tal desiderio avea. Et poco dimorò che, uno giovano nomato Ba- sino piacendogli, da parte gli fé' dire: Madonna Bi'jseida de' Ma- gnanini vorre' con teco .alquanto parlare di cose piacevoli. Ba- "sTnÒTche mai madonna Briseida d'amore amata avea, posto che ben [la| cognoscesse, subito, per l'imbasciata a lui fatta, d'amore s'accese e in tanto che dispuose: Sia che ragione si vuole che mandi per me, io le verrò all'atto carnale. E non dimorando, a lei n'andò. Briseida, quando a lei fu venuto quello che disiato avea, disse: Deh, Basino, dimmi che pensi della mandata che fatto t'ho fare quale cagione sia, e se indivinerai, senza dirti bugia, io tei dirò. Lo giovano disse: Sia che si vuole, io mi penso che voi per me mandato abbiate, acciò che quello che il vostro marito fare non vi può io vi faccia, e se cosi è, vi dico che troppo migliore mercanzia ò in nel mio fondaco per adempire (1) Mf?.: dicendo. DE MALITIA MULIERIS ADULTERA ET SIMILE .AIALITIA VIRI 317 il vostro desiderio, che non ^ quella che ha Stropione vostro marito. Et acciò possiate di ciò essere certa, la mercanzia mia vi mostro, della quale ogni prova che volete ne potete fare. E mes- sosi mano alle brache, la caparra della mercanzia mostrò a Bri- seida. Briseida, che ha veduto la parte aT lei piacente, disse: Se di dentro sera così ben fornita come mi pare essere di fuori, ti dico che quella comprerò. Basino sente il bel motto; la mer- canzia crescendo^ disse: Deh, Briseida, prendi la mia mercanzia, come già molte di Vinegia hanno presa. Briseida dice: A che modo è stata presa? Basino dice: A saggio, e dello primo saggio niente costa, del secondo costa all'uno et all'altro, del terzo chi n'ha il meglio s'inviti. La donna dice : A me piace. E desiderosa esser alle mani, subito in camera lo menò, e quine assaggiato la prima e la seconda volta, e parendo a Briseida aver meglior volta, disse a Basino: Io te ne invito. Basino tenne lo invito, e gittato il suo, disse alla donna: Ormai serba quello che prestato t'ho. La donna, che gravida si sente, disse: 0 Basino, tu dèi esser stato a questi fatti altra volta. Basino dice: Diamoci piacere, né più di tali cose ragioniamo. Briseida disse: Tu ben hai ditto; e d'allora in là si ritrovavano spesso a mercanteggiare, potendo sicuramente mettere mercanzia sopra mercanzia. E così stando, Briseida in capo di nove mesi fé' un bello fanciullo bianchissimo, il quale fé' battegiare e puosegli nome Albano, perchè era molto bianco, percìTe^alia madre si somigliava, che Briseida era molto Jjianchissima, et anco Basino pendea a bianco. E così stando, lo fanciullo fu diligentemente aTTévato, e perchè la fortuna con- dusse Stropione in terre di Saracini, dove funno ditenuti, che mai di loro alcuno sentimento in Vinegia non s'ebbe, che più di quattordici anni dimoronno prima che liberali fusseno né che a Vinegia alcuna cosa se ne sapesse, e come funno liberi, con certa quantità di mercanzia a loro lassata, si ritornerò a Vinegia. Briseida, che pensava il marito essere morto, con Basino tutto il tempo si die piacere senza sospetto, sperando che il marito mai non dovesse tornare. E stando in tal maniera, senza che Briseida niente sapesse, Stropione in casa sua ritornò, e trovando quello fanciullo, domandollo di cui figliolo era. Lui disse : Di Bri- seida. Stropione, avuto la moglie e dimandato come quel figliuolo avuto avea, rispuose : Marito mio, l'anno che di qui ti partisti vi venne sì bella nieve, che io invaghendomene ne mangiai tanta, che gravida mi sentii. E poi l'ho allevato tutto il più a cose bianche. Stropione disse: Donna, non me ne meraviglio che è 318 NOVELLE DI GIOVANNI SERGAMBI si bianco, poiché di nieve fu concepito, e però ti prego lo go- verni bene, che ci sarà ancora buono, poiché altro figliuolo non abbiamo. La donna disse: Tieni a certo che io l'amo tanto quanto se l'avessi da te ingenerato. Lo marito dice: Donna, io tei credo, e più, però avendolo ingenerato di me, n'aresti avuto dolore, e di questo penso n'avesti allegrezza e piacere. La donna disse: Tu hai ditto il vero. E stando alquanti mesi in Vinegia, Stro- pione, per ristorare il danno fatto, diliberò andare a Damasco, e fornito una galea e misso in punto per voler montare, disse: Io voglio menare Albano nostro figliuolo per farlo esperto in nelle mercanzie. La donna dice: Deh, marito mio, al presente lassalo. Lo marito disse: Io non vo', peroché non so so mai tal viaggio fare debbo, e però io non [vo'J che al presente rimagna. La donna, non potendo disdire, malcontenta lo lassò andare. E come giunti furono in pagania, Stropione vendendo Albano a' Saracini, quello, compronno volentieri, perchè il vedeano molto bello et anco perchè gli parea loro avere fatto uno acquisto. E dopo la vendita di Albano e dell'altre mercanzie, ritornò verso Vinegia, et mentre che andava e ritornava, Briseida con Basino si pre- seno diletto al modo usato. E cosi stando, Stropione con buono guadagno ritornò a Vinegia senza Albano, et a casa n'andò, dove Briseida disse: Deh, messere, 'v'è Albano mio figliuolo? Stro- pione disse: Donna, Albano è strutto. La donna disse: Come? — Tu sai lui nacque di nieve ; et essendo il caldo grande in nelle parti di Babilonia, avendogli comandato che al sole non stesse, lui, come giovano, si puose in poppa della galera, dove il sole a I piombo percotea, in tanto che, non potendo riparare, in nostra presenzia distrusse. E pertanto non ti dare malinconia, che se fia piacer di Dio, noi n' aremo d'altro che di nieve. La donna, come savia, cognove che '1 marito avea ben cognosciuto il suo difetto; pure, per non parer essere stata (luella, disse: Ben tei dissi io, non lo menare, e tu pure lo volesti menare, et a questo modo noi abbiamo perduto il nostro figliuolo. Ma poiché dici di conquistare delti altri di carne, ti dico che facci tu bene, che io quanto potrò lo farò, per ristorare il perduto. DE PAUCO SENTIMENTO IN JUVANO 319 91. [Triv., no 128]. DE PAUCO SENTIMENTO IN JUVANO. Poiché abbiamo toccato alcune novelle di Vinegia, necessaria cosa m'induce, poiché in quella terj^a, dimorare non potemmo per la cattiv^a aire, almeno di raccontare quello [che so, come] ^ J cEestàto vi fussimo più giorni, come città magna. E pertanto, oltre l'altre che ditte sono, ancora dell'altre sentirete, e massi- mamente una (1), la quale comincio, che essendo in Vinegia, per lo malé~stato di Lucca, andati a stare di molti cittadini di Lucca, fra' quali fu uno Bartego di maestro Alessandro da Go- reglia, omo assai di poco affare di sentimento, che non molto tempo in Vinegia era stato, che innamorandosi di una veneziana, donna molto servente di sue cose, come spessissime vi se ne tro- térSTe^^ ogni ora atte, nomata madonna Bonuccia, avvenne che avvedendosi" madonna Bonuccia che Bartego la disiava, con alcuna donna, che più volte le avea condutti de' giovani albergare seco, si conferio dicendo: Lo tale giovano lucchese, secondo il mio parere, m'ama, e pertanto vorrei che a lui n'andassi e da lui sentissi sua intenzione, dandogli a divedere che io sia tua ni- pote e pulcella. E se caso fusse che lui a prendermi per moglie venisse, con secreto modo gli dirai che contenta sii, ma perchè miei parenti di poco è che morti sono, tu non vuoi che neuna festa se ne faccia, ne che a persona lo faccia asentire; ma se lui con alcuno lucchese mi vorrà vedere, digli che sii contenta. E tanto gli disse, che quella donna gli rispuose: Di tal mestieri non bisogna che altro richieggi; lassa fare a me. E partitasi, assai onestamente vestita dove Bartego era n'andò, e tiratolo da parte, gli disse: Bartego, a me pare che tu debbi esser merca- dante et debbi essere ricco e desideroso d'onore e d'avere figliuoli. Le quali cose se cosi fusseno, volentieri mi farei per onesto modo tua parente; ma prima che ad altro io vegna, vorrei sa- pere da te se hai pensieri di prendere donna, perocché io hoe una mia nipote bella, gentile e ben costumata, et assai onorevile (1) Ms.: ora. rt 320 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI in casa. E se fussi disposto a ciò, io farei lei stare per contenta. Bartego, che ode tali parole, avendo da altri già saputo il nome di Bonuccia, disse: Donna, tutte le parole si perde a ragionarmi di moglie se non fusse d'una che molto io amo. La donna disse ; Forse la mia nipote potre' essere quella che ami, perocché ella è tale, che da si fatto omo come tu se' dovrebbe esser amata, tant'è la sua bellezza, stato e piacevolezza. Et amo che sii certo chi ella è, per non averci a tornare. Ti dico, ella ha nome Bo- nuccia de' Bisdomini di Vinegia, e dimora a San Gassiano, in nella tale casa. Bartego dice : Di vero cotesta è quella che a me piace. Or io vorrei sapere come v'è venuto in nella mente, che così a me sete venuta a questo narrare. La donna dice: Avendo io molte chieste di questa figliuola, non sapendo chi prendere, raccomandaimi a S. Basilio, che mi mettesse limanti quello che per Bonuccia facesse. E dormendo mi parve sentire una voce dicendo: Donna, marita Bonuccia a uno Lucchese nomato Bar- tego, il quale è vestito di tal panno e di tale forma. Et in dor- mendo mi ti parve vedere, et a quella impronta tutta mattina sono ita cercando e neuno n'ho trovato che te. Bartego dice: Tutti li parentadi vengono dal cielo e cosi è venuto questo, e pertanto senz'altro vedre^'ch'a me piace, purché io a lei piaccia. La donna disse: A me sta la cosa, se a te piace; io ad altro non ci sono venuta. Bartego, senz'altro consiglio, con la donna n'andò, e preso uno notaio, la donna a casa di Bonuccia, con alcuni testimoni stranieri, se n'andò, e Bartego con lei. E quine trovala Bonuccia acconcia e pulita, come maestra mostrando molto vergognosa, disse: Deh, mia zia, che raunamento è questo ? La donna disse: Io t'ho maritata a questo mercadante di Lucca, e vo' che sii contenta. Bonuccia disse: Come sapete, mai non uscii del vostro volere, né ora uscire non debbo. Come farete serò contenta. Et accostati insieme, lo notaio disse: Bartego, siete voi contento di prendere per donna madonna Bonuccia de' Bis- domini? Bartego rispuose: Si. E voltosi a Bonuccia, disse : E voi, volete per vostro marito Bartego del maestro Alessandro da Lucca? Ella disse: Si, et in presenza di lui e de' testimoni la sposò, e per sua donna la prese. Lo notaio partitosi e li altri, e la donna disse d'andare a fare altri fatti, Bartego e Bonuccia rimasi soli si denno piacere. Et in casa di Bonuccia misse poi (1) Ms.: come. DE PAUCO SENTIMENTO IN JUVANO 321 tutte sue cose. E sj^art^i la novella per Vinegia, tu sentito per i/' li Lucchesi quello che Bartego fatto avea. Subito alcuno andato a Bartego dicendo : Noi sentiamo ch'hai preso moglie una mere- trice, Bartego fingendosi disse ; Io ho preso una buona et onesta - cosa et a me piace, e cosi da lui si partio. Bartego, tornato a casa, disse : Deh, Bonuccia, dira'mi il vero se quando ti presi eri pulcella 0 no? Bonuccia disse: Or come! credi tu che in Vinegia / ci sia nessuna che pulcella sia come passa dodici anni ? Tieni a / certo che non ce n'abbia nessuna, e cosi non pensare che io, che n'ho più di diciotto, l'abbia potuto tenere, che alcuna volta ,'t io no l'abbia adoperato. Ma dimmi, ha' me tu trovato meno, di i quanto io n'ho adoperato, che abbastanza non abbi? Bartego ( disse: Poiché cosi è, non ti curi se io di te geloso serò? Bonuccia disse: A me piace; e per questo modo dimorò più tempo. Or avvenne che avendo Bartego per sue faccende bisogno di andare a Lucca, e convenendo lassare Bonuccia a Vinegia, dubitando che ella non gli fallisse, disse: 0 Bonuccia, per gelosia che io di te ho, mi converrà fare alcuna cosa che vo' che sii contenta. Bonuccia disse: Che vuoi fa pure, che non mi senta. Bartego / disse: E' non ti sentirà. E fatta stare riversa, et alzatogli li panni i dinnanti, prese uno pennello, che dipingere sapea, et uno mon- | tone senza corna gli dipinse tra '1 jDettignone e '1 bellico, dicendo: -^ Omai conoscerò s'arai a fare con altro omo. E tanto la fé' stare senza levarsi che l'ongosto asciutto fu, e poi, fattala rizzare, disse: Donna, fatti con Dio. E datogli un bacio, pregandola che i fusse onesta, si partio. La donna, che di quello che Bartego fatto | avea si fé' beffe, fra sé medesma ridendo disse : Io me ne caverò, | come sempre ho fatto, la voglia a mia posta. Et ogni sera si \ prendea quello che a lei piacea, non curando né del montone \ del corpo, ne del montone del marito, et in fra li altri che con \ lèTusava era uno dipintore giovano veneziano, il quale avendosi \ veduto che sempre, quando ella si facea adoperare, tenea uno pannolino in sul corpo, acciò che '1 montone per lo sudare del- l'omo non si guastasse, e' disse alla donna qual fusse la cagione. La donna, tutto narratogli e mostrato il montone, disse che avea paura che non si guastasse. Lo dipintore disse: Bonuccia, io non vo' tegni questo modo, ma nuda vo' mi servi, et io, quando sera tempo e luogo che '1 tuo marito tornare debbia, te ne dipingerò uno, sicché non dubitare. La donna lieta, perchè non era potuta andare alle stufe né farsi netta, steo contenta al consiglio del dipintore, e dandosi piacere alla stufa e altri con chi gli piacea, Bekieb, yovelle di G. Sercambi. 21 322 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI divenne che un giorno riceveo lettere come Bartego era a Fer- rara per tornare a Vinegia, e che a du' di appresso sare' in Vinegia. Bonuccia, ciò sentendo, mandò per lo dipintore, a cui disse: Prendi una volta o più di me piacere, e poi mi dipingi il montone in sul corpo, perocché io sento che il montone del mio marito è a Ferrara, che volesse Dio, come ch'è stato fuora un anno, cosi si fusse stato altrettanto. Lo dipintore, preso piacere di lei, uno montone con due corna bellissimo dipinse, e così la donna rimase. E venuto il giorno che Bartego tornò, subito, giunto in casa, disse a Bonuccia che riversa si mettesse. Bo- nuccia presta riversa si puose, et alzati li panni, Bartego vide lo montone bellissimo con due corna, e lui ricordandosi che di- pinto l'avea senza corna, disse: Donna, tu dèi aver fallito. La donna disse: Deh, perchè il dici? Bartego disse: Perchè il mon- tone hae due corna, et io l'avea dipinto senza corna. La donna dice: Non ti meravigliare se il montone del corpo ha messo du' corna, perocché tu se' tanto stato, che lui l'ha messe, e come il montone per natura le corna gli crescie, cosi la donna per natura al marito le corna gli puone. Bartego, che hae udito si bel motto, disse: Io son contento. E cosi si rimase. DE MAGNA GELOSIA 323 92. [TriT.. n" 129]. DE MAGNA GELOSIA. Poiché toccato abbiamo Vinegia d'alcune novelle, m'occorre ora in nella mente di contarne una, la quale fu in questo modo, che essendo in Vinegia uno giovano nomato Marco da Castello facitore di capelline e di guanti, il quale avendo avuto a fare con molte donne di Vinegia carnalmente, essendogli profferto donna, dubitando lui che non gli intervenisse di quelle cose che ad altri per sua cagione intervenuto era, di gelosia pieno, pensò, se donna prendesse, farle una serratura di ferro e chiusa a chiave, per modo tale, che avendola cinta in sulle carni con omo alcuno usare non potesse. E fatto tal edificio fare, secreta- mente dispuose di voler donna prendere,^è messogli innanti una giovana assai buona, secondo Vinegia donzella, in casa nomata Rovensa, e venuto all^accordo^é'^ncTusione, Marco quella prese e menonnela a casa. E fatto la festa secondo l'usanza, la sera Marco disse : Donna, io ho fatto fare una cosa, la quale vo' che di continuo porti per mio amore. Rovensa dice: Ciò che comandi sono tenuta di ubbidire e così ti prometto. Datosi la notte piacere, la mattina Marco, apparecchiato quel brachieri di ferro et a Rovensa fattolo a carne nude cingere, e colla chiave dirieto chiusolo, disse : Omai cosi vo* che stii, et a persona del mondo questo non dire. La donna disse: Deh, marito mio, or questa pena perchè vuoi tu che io porti? che peccato ho io fatto, che questo mi convegna portare? Marco dice: Peccato non hai tu fatto, ma gelosia ciò mi fa fare, perchè non vo' che altri faccia a me quello che ad altri fatto hoe. Rovensa dice: Il peccato altrui farà danno a me, che la penetenza portare debbo. Contenta, disse di fare il suo comandamento, e cosi molto tempo dimorò, e quando Marco con lei usare volea, apria il brachieri, e datosi piacere, lo rimettea. Et essendo stata molti anni a tal penitenza, per la pena che tal brachieri gli dava e per la malinconia che ella n'avea, e per l'aera catjiva di Vinegia, et eziandio perchè siamo mortali, la ditta Rovensa sempre tenendo i) brachieri cinto, e venendo peggiorando e quasi finendo, era di necessità che una servente la movesse. E vedutogli quello ferro, disse: Deh, Rovensa, 324 NOVELLE DI GIOVANNI SERGAMBI qual peccato facesti che tal penitenza porti? Rovensa disse il modo del marito, dicendo : Poi che finire mi veggo, ti prego vadi a Marco e digli che a me vegna. Marco venuto, Rovensa gli disse: 0 Marco, la tua gelosia mi caccia sotterra, perocché la pena che fatta m'hai portare tanto tempo m'ha della persona fatto inferma, in tanto, che più vivere non posso. Ben ti dico che dopo la mia morte un'altra ti punirà di quello che a me fatto hai, senza che a lei alcuna noia fare possi. E ditto questo, senza che Marco ad alcuna cosa rispondesse, presente la ser- vente e liii, Rovensa di questa vita passò. Per la qual cosa il ^ pianto si cominciò, e venuto li preti, di lei dando ordine di sop- pellirla, volendola vestire, trovonno il brachieri di ferro con v quella toppa chiusa a chiave. Meravigliandosi di tal cosa, la ser- vente narrato tutto ciò che a Rovensa avea sentito dire della gelosia di Marco, tal cosa dopo la sopultura di Rovensa per Vinegia fu manifesta. Marco, che selrbatò~avea il brachieri, udendo ciò dire, dicea : Dica chi dire vuole, che io farò pure a mio modo. E non molto tempo dimorò dopo la morte di Rovensa, che a Marco fu per alcuno sensale profferto di dargli moglie y una giovana nomata Fiandina, molto mascagna in tutti i suoi fatti. Marco, udendo il sensale, disse: Io voglio prima sapere dalla donna se contenta vuole essere che a mio modo si governi. Lo sensale disse di si, e menatolo a Fiandina, Marco narratole se contenta era di vivere a suo modo, Fiandina disse: Sie. Avuto Marco che ella era contenta, dando l'ordine di fermare il pa- rentado, molte donne di Vinegia, le quali aveano saputo il modo che Rovensa tenuto avea, se n'andarono a Fiandina dicendo: Noi sentiamo che se' per prendere Marco da Castello per marito, e però sappi che lui tenea tali modi colia sua moglie Rovensa. Et tutto narrato, e '1 modo e "1 perchè la donna morio, Fiandina, che ciò ha udito, disse: 0 donne, come saper dovete, ell'è ben sciocca quella donna veneziana che non sa castigare un matto. E pertanto vi dico che se a me terrà que' modi, io lo pagherò dell'opre, come già sono stati pagati delli altri; e più non disse. Venuto il giorno che il parentado è fermo, e menata la donna, la sera preso piacere fine alla mattina, dove Marco disse : Fian- dina, perchè la promissione che mi faceste vo' che m'osservi, ti dico che per gelosia che io ho di te presa voglio che questo brachieri ti cingi a carne nude, e con questa chiave lo vo' chiu- dere. Fiandina disse: Marco, io ti prego che per oggi niente fare vogli, a ciò che io possa più destramente ballare, e domai- DE MAGNA GELOSIA 325 tina farai quello vorrai, et io farò quello ho pensato. Marco, contento, diliberò quel giorno non uscire di casa. E stando la donna cosi, andò gervedendo la casa per tutto, e trovato essere v^ uno portico non anco livro sopra uno canale assai alto, pensò pagare il marito dell'opre sue. E strettamente n'andò per uno giovano padovano sarto, nomato Votabotte, col quale più volte Fiandina era stata a sollazzo, e venuto, gli disse: Votabotte, io sono mal condutta, e pertanto farai apparecchiare una barchetta ben in punto, e domattina entrerai in casa, e quello ti dirò farai ; ma fa che la barchetta sia qui presso, acciò che tu et io pos- siamo in quella entrare e caminare a nostro piacere. Votabotte lieto disse che tutto metterà in punto. Dato l'ordine di tutto, la notte venuta, Marco si dilettò con Fiandina ; stando disse : Donna, domattina farai quello che stamane far non volesti. Ella disse: Anco farò più che ditto non m'hai. E cosi dormirono fino alla mattina, che levati furono. Marco, preso il brachieri in mano, alla donna n'andò dove ella era in sul portico montata, e di quine amiccando Votabotte, che dentro in casa entri, Votabotte inteso, in casa entrò. Marco, andato sul ponte col brachieri, disse: 0 donna, vieni e metterotti questo. La donna disse: Deh, Marco, lassamelo vedere. Marco accostandosi a Fiandina, ella colle mani in nel petto gli diede per tal forza, che in nel canale cader lo fé' per modo, che non potendo riparare, affogò, né mai lo brachieri di mano gli uscio. Fatto questo, Fiandina dato a prendere quanti dinari e gioielli e meglioramento in casa era, con Votabotte in barca entrò, e dati de' remi in acqua, fuora del distretto di Vinegia uscirono, e prima che di loro si sen- tisse passò più di terza. Dove i parenti dell'uno e dell'altra, vo- lendo sapere di Marco e della moglie, intrati in casa, e niente v'era chiuso, senza loro la casa volta era, e venuto andato in sul portico, videno Marco in nell'acqua affogato, e messe grida con pianto, andarono al canale, e di quello trasseno Marco morto, il quale quello brachieri in mano avea, per la qual cosa, non avendo ' trovato Fiandina in casa e veduto che tutti arnesi erano stati j tolti, e saputo come ella con Votabotte s'erano partiti, cognoveno 1 Marco esser morto per voler mettere lo brachieri alla moglìéT È~TatIokrsoppellire, la roba per li parenti fu presa, e FiandinaT con Votabotte fuora di Vinegia si dienno piacere a loro agio. 326 NOVELLE DI GIOVANNI SERGAMBI 93. [Triv., n» 130]. DE JUVANO FUTTILI IN AMORE Prima che nostro Signore incarnasse della vergine Maria fu in Babilonia^ uno nomato losafac, il quale avea una sua figliuola nomata Tisbe, et uno" fiomato Saidas vicino del ditto losafac a muro a muro, il quale d'una sua donna avea avuto uno fanciullo v/ dell'età di Tisbe, nomato Piramo, Avendo lo, Dio dimore infiam- mato runo_e Taltro, in tanIo~cbe essendo ditta Tisbe e Piramo pueruli, amandosi tanto insieme che l'uno senza l'altro mangiare '^Oìì volea, e venendo alquanto crescendo d'età d'anni sette, a una scuola di pari l'uno senza l'altra, e l'altra senza l'uno di- morare non volea. Et essendo più tempo stati in iscuola con tanto amore, tanto che all'età di dodici anni pervennero, e sempre che cresceano l'amore crescea in loro, avvenne che la invidia mosse alquanti invidiosi a dire al padre et alla madre di Tisbe che mal faceano a lassare la loro figliuola tanto strettamente usare con Piramo, e simile al padre et alla madre di Piramo le ditte parole erano ditte. Et alquanti, vedendo l'amore congiunto tra Tisbe e Piramo, e cognoscendo che di pari grado erano di gentilezza et avere e di bellezza, come gelosi del bene, consiglia- vano li padri e le madri dell'uno e dell'altra che insieme si facesse parentado di dare Tisbe per moglie a Piramo. Et volen- tieri si sarenno accordati, ma il nimico del bene adoperare e la ria fortuna di Tisbe e di Piramo negarono che tale parentado non si facesse, prendendo li padri e le madri certe scuse, che al presente non sono necessarie di dire. E più fece la fortuna, che dove in fine a quel punto erano insieme sempre usati e stati, fé' che Tisbe in una camera rinchiusa in nella sua casa fu, e Piramo eziandio dal padre e dalla madre rinchiuso fu in una camera, la quale altro che d'un muro sottile da quella di Tisbe non era divisa. Per questo modo li du' amanti funno di- visi, dando a ciascuno una guardia, acciò che di quei luoghi non potessero uscire. E stando per tal maniera dolorosi i ditti Piramo e Tisbe rinchiusi, e non potendosi vedere, avvenne che un dì, essendo aperte le finestre delle camere, il sole percotendo in nella parete di mezzo tra Tisbe e Piramo, per una fessura. DE JUVANO FUTTILI IN AMORE 327 che in nel ditto muro era, tal sole penetrò dalla parte di Tisbe. Lei vedendo quel sole, che giammai veduto non l'avea, raguar- dando per tal fessura, vide Pirarao, che doloroso stava, e chia- mandolo e con piana voce dicendo: 0 Piramo, che fai?, Piramo, che chiamare si sente, rispuose: lo mi tormento, ma dimmi chi se' che mi chiami? Tisbe disse: Io sono la tua Tisbe, la quale come tu sono in tormento. Piacciati accostarti a questo muro e per questa fessura raguarda colei, che per te si more. Piramo, accostatosi alla fessura, vide Tisbe, a cui disse perchè stava in tale strettezza. Tisbe, contatogli tutto, con lagrime dicea : 0 Pi- ramo mio, viverò io tanto che teco accostare mi possa e tu meco ? Piramo dicea il simile, pregando l'uno e l'altra quel muro che si dovesse aprire, tanto che loro abbracciare si potessero, e niente valea. E per questo modo ogni di tornavano alla fessura, e quando era notte partendosi raccomandava l'uno l'altro a Dio, baciando ciascuno la sua parte del muro in iscambio delle lor belle faccio. Et essendo stati più mesi in tale maniera, non potendo più sosten- tare l'amore che li infiammava, uno giorno Tisbe, narrando il suo pensieri a Piramo, disse se contento era con lei trovarsi in. su' campi di Soria, cioè fuora a' giardini di Babilonia. Pirarao disse: Sì, ma noi non potremo ciò fare se noi non ammazziamo le guardie, E Tisbe disse: Io ammazzerò la mia e tu la tua briga d'ammazzare. E dato l'ordine trovarsi al luogo ditto, Tisbe subito ammazzato lo suo, con uno mantello si parte, et a campo di fuore di Babi- lonia se n'andò, in su la riva del fiume. Essendo la luna in quinta- decima lustrante, Tisbe vide su per l'arena uno leone, del quale avendo paura, si misse a fuggire verso quine 'v'andare dovea. Et in nel fuggire, uno pruno lo mantello gli prese. Lei lassandolo, si nascose in uno cespuglio. Lo leone, avendo pasciuto, trovando quello mantello, sbrainanandolo, del sangue della bestia lo 'nvolgea, e così dilacerato lo lassa. Tisbe pensosa e di paura tremante, pensava dire a Piramo: Guarda com'è la Tisbe tua stata quando lo leone gl'era cosi presso. E poco stante che Tisbe di Babilonia partita si fu, Piramo, la guardia sua lassata in dormendo, con una spada si parilo di Babilonia, e giunto dove trovò il mantello dilacerato et sanguinoso, et vedendo l'orme, stimò che Tisbe dal leone mangiata fusse, e con malanconia a uno gelso bianco, dove era l'ordine dato di ritrovarsi n'andò, e non trovandovi Tisbe, pensò che morta fusse, e fatto grande lamento di lei, biastimando i leoni che l'aveano divorata, non potendo più sostenere, prese la spada, et tratta del fodero, messo il pomo in terra, e la punta 328 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI al corpo, sopra quella si lassò cadere per modo, che d'altro lato la punta passò, e lui cadde (1) in terra senza sentimento, ver- sando il suo sangue. Intanto Tisbe, passato lo leone, si mosse et al gelso n'andò, e [quando] quine fu presso, vide le vene ver- sare (2). Dubitando che fusse, con tremore s'accostò, e cognoscendo essere Piramo, subito abbracciandolo, disse : 0 Piramo, rispondimi che sono la Tisbe tua, che t'ha del mondo tolto. Leva il pia- cente viso e falle dono. Piramo, sentendosi nomare e guardando Tisbe, dittoli il modo e la cagione della sua morte, subito di questa vita si partìo. Tisbe, che ciò ha veduto, disse : Non piaccia alli Dei che io viva, pregando te, gelso, che mostri di noi se- gnali a' nostri padri e madri della nostra morte. E presa la spada non ancor fredda di Piramo, per lo corpo se la misse, e sopra Piramo morta cadde. E parve che li Dei avesseno di tal morte compassione, che '1 gelso, ch'era bianco, rosso' divenne. I padri e le madri, che non trovano la mattina li loro figliuoli, andando cercando fino al luogo dove li trovonno morti, com'è stato ditto, e vedendo li gelsi esser doventati vermigli, signifi- conno che tal frutto fusse doloroso di tali amanti. Li padri del- l'uno e dell'altra diliberonno quelli soppellire in uno avello, dove disseno: Poiché in vita tanto s'amonno, che egualmente fenno, così in morte eguali stiano. E cosi ferono. (1) Ms.; cadendo. (2) Cos'i nel ras. DE PRAVA AMICITIA 329 94. [Triv., n" 131]. DE PRAVA AMICITIA. Nella città di Parigi, nel tempo de Re Aluisi, fu uno cavalieri e gentilomo posseditore d'alcuna fortezza, nomato messer Albe- rigo, omo della persona assai piccolo, ma di cuore come valente magnanimo, il quale, per comandamento del re , gli convenia andare alla guerra di Prussia contra li Saracini, E convenen- dogli partire , avendo il suo terreno lungi dar Parigi più di ot- tanta miglia, dove la sua donna dimorava, nomata Marsia, donna bellissima et onesta , pensò che mal facea che non racccoman- dasse i suoi fatti a partirsi dal paese. E credendo che suo amico fusse uno nomato Jac_lo__bric, tra sé disse: A lui miei fatti rac- comandare vo'. Era questo Jac lo bric, cortigiano del re, molto amato, sì per la sua valentia o per la sua cortesia, e simile per la piacevolezza che a ognuno dimostrava. Alberigo gli disse: Amico mio, del quale più mi fido che di persona del mondo, ti prego che, poiché andare debbo in Prussia, che se caso occor- resse alla mia famiglia, ovvero ad alcuno mio parente, che in mio luogo sostegni. Così te li raccomando, e cosi ne dico alla mia dolce donna Marsia, che a te ricorra per tutti i suoi bi- sogni. Jac lo bric dice: Amico mio e signore, sempre le tue cose mi funno in nel cuore, e però va sicuramente e di niente du- bitare. E partitosi messer Alberigo per cavalcare in Prussia, se n'andò a casa, dove ammaestrò la donna sua che pace si desse fine alla sua tornata, dicendogli che se alcuna cosa a lei biso- gnasse, che lui avea lassato l'amico che tenea, cioè Jac lo bric, che di tutto la faccia servire. La donna con malanconia disse : Deh, marito mio e signore, io vi prego che se tale andata schi- fare potete, per mio amore la schifate, e se pure andare devote, vi prego che tornate tosto, e quello che dite di Jac lo bric sto per contenta d'ubbidirlo in ciò che a me comanderà, salvo che in nelle cose disoneste. Messer Alberigo disse : Donna , io sto contento, perocché solo di cosa onesta ti chiederà, e non d'altro. La donna lagrimando lo raccomandò a Dio, e lui simile con la- grime si partìo, avendo da lei preso cumiato. E cavalcando per- venne a Prussia , dove quine molto combattè , dimorando molto 330 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI tempo in quel luogo. E mentre che tale stanza si facea, Jac lo bric pensò voler di madonna Marsia, donna di messer Alberigo, prendere piacere, e non molto tempo dimorò che di Parigi un sabato sera, poiché il re fu andato a dormire, si partìo con al- quanti famigli , e con buoni cavalli, e camino tanto forte , che dove la ditta donna era arrivò in sulla mezza notte. E sapendo la maniera del palagio, salio in sala et alla camera con due suoi famigli se n'andò , e fece la sua venuta sentire alla donna. La donna, credendo (1) che Jac lo bric fusse per gran ragione ve- nuto , subito levatasi del letto e vestita d'una palandra , aperse la camera, dicendo: 0 amico del mio marito, che buone novelle avete, che a tale ora siete venuto? per Dio ditemelo. Jac lo bric disse: Donna, intriamo in camera e quine tutto vi conterò. E postasi a sedere appresso al letto e Jac lo bric appresso a lei, disse: Donna, l'amore che di te m'ha preso m'ha indutto sta- notte a qui venire , e pertanto ten prego che il tuo amore mi doni e sii contenta che teco prenda piacere. La donna tremante disse: Deh, Jac lo bric, che v'odo dire? or come è questa l'ami- cizia che mostrate a messer Alberigo, a cui credea che grande amicizia gli portaste? e voi come men leale volete lui e me vi- tuperare? Se Itale] è pertanto la vostra venuta, vi verrà il pen- sieri fallito, et indarno tal venuta fatta arete, in quanto più presto potete di qua vi partite, ne mai in questa casa ardite di venire per entrare. Jac lo bric, udendo cosi dire: Or come volete voi disdire tale amore a me , che vedete quanto io sono di beltà pieno, che non so donna in Francia che non se ne tenesse lieta che io l'amasse, e che "non mi compiacesse di quello che ora a voi chieggio? E voi, come non savia, vietate quello che natural- mente le donne desiderano. E pertanto vi dico, che se a me non oonsentite e '1 diletto negate , quello che per amore fere do- vreste, per forza vel converrà fare. La donna tremante gli disse che mai tal atto farebbe, e che prima volere' morire, che al marito tal fallo fare. E volendosi da lui partire, con spiacevole modo Jac lo bric quella ritenne , e con forza la fé' cadere et a' suoi famigli comandò che le gambe e le braccia le tenessero, e questo fatto, per forza Jac lo bric di lei prese piacere e con- tentamento, con tanta fatica che fu una meraviglia. E fatto tale sceleramento, subito montò a cavallo, e cavalcò per si gran forza, (1) Ms.: sentendo. DE PRAVA AMICITIA 331 che a Parigi giunse la domenica, prima che il re si fusse levato. E così si dimostrò a tutta la terra e la corte, senza parlare di sua andata. Madonna Marzia, rimasa confusa e isvergognata del vituperio isforzatamente a lei fatto, senza che ad altri l'appale- sasse, come più tosto poteo, si vestlo di bruno, e cosi stando passò più mesi. -Ritorno a dire, che essendo messer Alberigo giunto in Prussia, et avendo con l'infedeli avuto molte vittorie e dato"^ et' ricevuto , ultimamente con onore i cristiani rimasero. E dilibe- ràn3ò~trprestante messer Alberigo ritornare , gli sopravvenne , per la fatica durata, e simile per la mutazione dell'arie e per lo mal vivere , una infermità , che quasi alla morte lo condusse ; ma per la buona guardia e sì per le buone cure dalla morte scampò, rimanendogli una febbre quartana , della quale messer Alberigo poco sen curava, colla quale si misse in camino per ritornare alla sua propria casa. E così seguio , che in pochi giorni giunse a Parigi, e quine visitato il Re e poi Jac lo bric. a cui Jac lo bric mostrando amore, molte cose tra loro disseno delle battaglie di Prussia. Et avendo alquanti di dimorato in Parigi, e disiderando di tornare a casa per vedere la sua donna, preso cumiato da tutti i cortigiani e massimamente da Jac lo bric, cavalcò verso le sue terre , et in pochi giorni giunto fu. Et avendo saputo madonna Marsia come lo marito era giunto sano in Parigi e che a lei venire dovea, fattasi forte a narrare quello che Jac lo bric fatto gli avea, vestita di nero il suo ma- rito aspettava. E poco stando, messer Alberigo a casa giunto fu. E come fu in sala, dove trovò la donna sua di nero vestita, di- mandò il perchè cosi scura, e lei piangendo, con lagrime gli disse tutto ciò che Jac lo bric fatto gli avea, dicendogli che giammai con lui non s'accosteràe , se di tal fallo non prendea vendetta. Messer Alberigo, ciò sentendo, disse : Donna, io non posso credere che tal fallo per lui commesso fusse. La donna giurando cosi essere , e se lui non volea credere che a lei desse licenzia di vendicarsi del tradimento a lei fatto, tanto disse al marito, che lui si dispuose ad andare in corte di Parigi a narrare quello che Jac lo bric fatto gli avea. E posto che malato fusse, si misse in camino, e [a] Parigi andato, giunto in corte, dove Jac lo bric era, a lui disse quello che colla donna sua fatto avea, il giorno e l'ora contando. Jac lo bric ciò negando, assegnando testimoni che tal giorno davanti funno a mettere a letto il Re, e la mat- tina prima che si levasse fu alla sua presenzia, e tutti i corti- giani testimoniando cosi essere, e che veramente impossibile cosa 332 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI era a poter esser andato e ritornato in una notte tanto camino ; per le quali parole messer Alberigo, ritornando alla sua donna, dissele (1): Donna, per certo tu mi dèi avere ingannato, che quello dici del giorno che Jac lo bric sia stato teco , ho avuto vera testimonianza lui esser stato in corte del re, e pertanto ti dico che più di tal cosa non debbi parlare. La donna disse: Per certo, marito mio, io v'ho detto la verità e cosi la vo' sostenere, e vo' morire se altro si trova che quello che ditto v'abba^ vo' morire. Messer Alberigo, per soddisfare alla donna, et anche per lo suo onore, ritornato in corte, e fatto in corte richiedere da- vanti alla giustizia Jac lo bric , e domandato giustizia del fallo commesso , et Jac lo bric negando tutto ciò che a lui era ap- posto, et avendo grande aiuto per l'amicizia che in corte avea, messer Alberigo niente della sua domanda poteo avere ragione, e costretto a non poter più piatire, diliberò lassare tale im- presa, e ritornò verso la donna, dicendogli: Per Dio, donna, io sono lo più vituperato omo del mondo , ad aver voluto fare chiedere Jac lo bric senza potere di ciò fare prova, che meglio m'era che, se fallo fatto a voi [ha], io ve l'avessi perdonato et taciuto , che fatto palese il vostro disonore. E questo ditto, si tacque. La donna disse: Marito e signore mio, io ho ditto la verità, e per questa verità vi prego vi piaccia prendere la bat- taglia, e s'è caso che prendere non la voleste, vi piaccia che io il mio fratello metta per la ragione di me difendere , o vera- mente che a me comandate tal battaglia con quel traditore fare, e penso che di ciò io n'arò vittoria, perocché la ragione m'aiu- terà. E pertanto vi prego che mi concediate che io a Parigi vada, e se meco venire volete, io sono contenta, altrimenti sola mi metterò in via, e prenderò a difendere il vostro e mio onore; altramente come disperata mi vedrete uccidere. Lo marito, udendo tali ragioni, e vedendo la sua intenzione, disse: Poiché ti piace, io sono contento di venire teco e prendere tale batta- glia, ma guarda che non mi facessi peccare, che contro al dovere io non combattessi; che se di tua volontà e consentimento hai avuto a fare con Jac lo bric. sono contento e più non ne cer- chiamo. La donna disse : Io v'ho ditto il vero e cosi lo trovere'. Lo marito, disposto a tutto seguire, colla sua donna si mosse et a Parigi n'andonno, e giunti a Parigi, la donna vestita di nero (1) Ms.: dicendole. DE PRAVA AMICITIA 333 a madonna la reina se n'andò, et in ginocchioni a lei disse tutto ciò che Jac lo brio le avea fatto, pregandola che di ciò la ven- dicasse, e che se Jac lo bric volesse questo negare che in campo nel proverà. La reina : Donna , disse , non voler mettere il tuo marito ne altri a pericolo di morte, perocché usanza è che le donne alcuna volta colli omini si prendono piacere , e poi , pa- rendo loro aver fatto male , vogliono dimostrare esser state is- forzate, e mettono loro et altri in pericolo. E pertanto ti dico che, se cosi fusse, io pregherò il tuo marito che ti perdoni, e penso per mio amore ti perdonerà. La donna dice: Madonna, se cosi fusse, io non serei venuta dinnanti a voi, ma secretamente mi serei stata. Ma perchè io sono stata isforzata , come v'ho ditto, vi prego a battaglia ci conduciate, et in caso che '1 mio marito combattere non volesse, né mio fratello, io voglio, per difendere mio onore, col traditore combattere, e penso che Dio ne farà il chiaro vedere, e se ricredente mi farà, vo' in nel fuoco come meretrice esser arsa. La reina, ciò sentendo, disse che con lei andasse. E subito andata al re e gittatasi dinnanti ginocchioni, chiedendogli la vendetta della giovana , lo re, che altra volta avea sentito tal discordia , disse che a lui piacea che a batta- glia si fusse , mettendo pena la persona a chi recredente fusse. E verso la giovana parlò dicendo chi volea che tale battaglia per lei facesse. Ella rispuose: Il mio marito, messer Alberigo. Lo re disse lui esser malato e che male gli parea che tal bat- taglia a fare prendesse. La giovana disse, che se a lui non parrà tal battaglia prendere, io la voglio prendere per salvare il suo e '1 mio onore. Lo re, udendo parlare tanto fermo la giovana e con si belle ragioni , mandato per Jac lo bric, alla presenza della giovana gli disse che battaglia gli convenia che prendesse per fare sua scusa del fallo commesso. Jac lo bric , che altro non disiava che a tale battaglia venire, subito disse: Santa Co- rona, io sono presto a difendere che mai costei non ebbi isfor- zatamente, né per altro modo. La giovana disse: Io metto per mia difensione lo mio marito, e caso che lui, per la malattia, non vo- lesse tal battaglia prendere, io la voglio teco come traditore fare, e se '1 mio marito rimanesse perditore, io sono contenta essere come meretrice arsa. Lo re, udito tutto e mandato per messer Alberigo et a lui esposto quello che ordinato era, gli disse se la battaglia prendere volea per amore della sua donna. Lo cava- lieri disse di si. E dato per lo re l'ordine di combattere, e ve- nuto il giorno, essendo li combattenti armati, per tutta la corte 334 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI donne e omini di Parigi a vedere , avendo mandato bando che ognuno cheto dovesse stare , mentre che i combattenti combat- teano, e venuti alle mani, dopo molti [colpi] dati, Jac lo bric, come gagliardo, prese messer Alberigo colle braccia e sotto sei gittò, standogli addosso. La reina e l'altre donne, che vedono Jac lo bric di sopra, disseno colla giovana : 0 giovana, mal con- siglio prendesti a volere che '1 tuo marito perisca e tu debbi essere arsa, che vedi che altro non può essere. La giovana, che ciò vede, disse: Io non credo che Dio voglia dar vittoria a chi ha fallito, e pertanto non temo che '1 mio marito perisca , né simile io. La reina ridendo dice: Tu se' poco savia a sperare quello: vedi il contrario. E mentre che tali parole diceano, messer Alberigo dando alquante scosse, Jac lo bric andato (1) di sotto, e lui salitogli di sopra, sopravvenendogli la febbre, stava senza alcuno sentimento addosso a Jac lo briC; E stato per ispazio ^..mezza ora, la febbre uscitagli, e vedendosi addt)§so'^ìrsìJt5lni- mico , preso della polvere e tra la visiera gittatovela , in tanto prese una daga, che Jac lo bric avea a lato, e con quella gli die in nel mollame per tal forza, che molto lo inaverò^ e poi cavatogli l'elmo et il bacinetto, in presenza del re e dinnanti gli tagliò la testa, e fuori della lizza lo misse, e così vinse il suo nimico. La giovana lodando Iddio, che avea dimostrato in ciò jmiracolo. lo re avendo ciò veduto comandò'che'T^orpo di Jac lo bric fosse stato strascinato e poi impiccato, et a messer Al- berigo et alla donna sua fé' assai dare , e lui tenne in corte come amico con buona provvigione, e la donna si ritornò in suo paese, avendo francato suo onore, e d'allora visse in pace oùe- stissima. (1) Ms.: andare. DE MALVAGIO FAMULO 335 95. [Triv., n" 132]. DE MALVAGIO FAMULO. In nella città di Verona, dove pensiamo d'andare, al tempo di messer Mastino, era uno gentilomo nomato Namo, il quale avendo y doHnardTq'Uaranta anni nomata monna Cosìanza, della quale avea du' figliuoli d'età d'anni tredici in quindici, l'uno maschio nomato Lancillotto et una figliuola nomata Uliva , e perchè era questo ^amo di buono parentado et assai ricco, tenea fante maschio e servente femmina. Et avendone molti avuti, ultimamente se ne trovò uno nomato Malvagio, d'età di trentacinque anni, et una fante nomata Jacopina, veneziana, giovana di ventiquattro anni. Et essendo stato alquanti mesi il ditto Malvagio col ditto Namo, un giorno essendo il ditto Malvagio solo con Jacopina in casa, entrando_^r,_ruzzo l'uno coll'altra, tanto che di concordia in- v^ sieme si trovarono prendendosi piacere, e" più volte tennero di di e di notte tale modo, ch'era tanto intrato l'amore di Malvagio a Jacopina, che quando Namo era a desnare ella dicea : 0 mes^ (D sere,_serbate della^ carne a Malvagio ; e questo dicea ogni di. Monna Gostanza, che ode tanto .Jacopina pregare per Malvagio, pensò fra se : Per certo Jacopina si dee godere Malvagio. Et in- tratogli il sospetto in nella mente, come più presto poteo, ebbe Jacopina , dicendogli : Per certo , Jacopina , tu dèi essere molto innamorata di Malvagio, tanto se' di lui soUicita, e per certo tu mi dirai il vero se mai teco usò, e vo' che mi dichi perchè tanto l'ami. .Jacopina disse: Poiché voi ve ne sete accorta, io vi dico che a me piace, tanto è ben fornito di tutto ciò che nostre pari richiedono. Monna Costanza, ciò udendo, fingendosi di non dar- sene pensieri , steo contenta, pensando al suo fatto. Jacopina, come più presto poteo, disse a Malvagio, e ditto ciò che monna Gostanza gli avea ditto. Malvagio disse: Per certo ella vorrà altro che parole, poiché tu le hai ditto questo. Jacopina disse: Mei penso, e posto che a me sia gravoso che tu con altri spendi la tua mercanzia, nondimeno, per rispetto che noi potremo si- curamente fare e vivere grassi, serei contenta. Malvagio dice : Se tu vedi che ciò fare voglia, dà ordine alla cosa. Gosi partiti, non molti giorni passarono che monna Gostanza mandando per 336 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI Malvagio, et in casa venuto, dimostrando alcuna faccenda, disse a Jacopina che andasse a fare alcuna imbasciata. Jacopina mae- stra , accorgendosi di quello che gli parea vedere , si partio. Monna Gostanza, essendo sola con Malvagio rimasa, con alcune parole, lo trafìsse, dicendo : Io mi sono accorta che tu con Ja- copina ti godi e sento ch'ella di molto si contenta, e però a me è venuto pensieri e voglia che di quel che pasci Jacopina tu pasci me. Malvagio, che ciò ha sentito, disse che era molto con- tento, e postosi la donna giuso. Malvagio quella fornìo. Et es- sendo Namo a taula. Costanza dice: Serbate la parte a Malvagio. Namo, che s'addò di tal parlare, da parte mèttea quella carne che serbare volea. E dimorando la donna e Jacopina con Mal- vagio, dandosi piacere, un giorno accorgendosi Uliva, figliuola di monna Costanza , come Malvagio colla madre giacea , disse : 0 Malvagio , se tu non fai a me quello che a mia madre fai , io faccuserò a Namo mio padre. Malvagio, udendo quello che Uliva gli avea ditto, dubitando et eziandio piacendogli, disse che a lei farebbe quello che alla madre facea, e più presto che poteo con lei si congiunse. E stando più giorni, sempre, quando Namo a mangiare si ponea, Jacopina dicea : Serbate la parte a Malvagio, e la donna simili parole contava. Uliva dicea: Et io eziandio vi dico che la parte serbiate per Malvagio. Monna Costanza, che ode la figliuola dire con tanto affetto (i) perchè la parte si serbi a Malvagio, di gelosia pensò la figliuola doversi essere trovata con lui, e come astuta un giorno si puose nascosa in uno buco, dove cognove e vide Malvagio essere addosso a Uliva sua fi- gliuola ; per la qual .cosa monna Costanza molto meravigliosa, senz'altro dire si taceo, dicendo : Per certo Malvagio ha troppo gran cuore, che pensa poterne saziare tre e sola me saziare non può. E pensa senz'altro dire tenere modi, eh' è di dargli tanto che fare che lei e non altri possa* fornire. E dimorando Mal- vagio per tal maniera, avendo sempre a contentare tre bocche, di sì poca carne non sapea che farsi, se non che di buoni cibi era il suo sostegno, e così si stava. Un giorno, che monna Co- stanza con Jacopina era alla stufa^ andata , con intenzione che Malvagio là andasse, divenne che, per alcune faccende che a fare ebbe, non poteo andare ; e tornato in casa, dove trovò Uliva sola, senza sospetto quella abbracciò, e suo piacere ne prese, in tanto (1) Ms.: effetto. DE MALVAGIO FAMULO 337 che, prima che d'addosso se gli levasse, Lancillotto, fratello d'U- liva, in casa tornò, e veduta la sorella in quel modo, disse: 0 Malvagio, se a me non fai quello che a Uliva fatto hai, io t'ac- cuso al mio padre et alla mia madre. Malvagio, per temenza di non perdere tanto bene quanto gli pareva avere, dispuose di fare a Lancillotto quello che fatto avea a Uliva. E cosi stando , la sera essendo tutti a cena, tutti diceano : Serbate la parte a Mal- vagio, e simile Lancilotto ciò disse. Namo, che ha udito dire a tùniche la parte si serbi a Malvagio, prese sospetto di lui, e datosi a vedere, trovò che Malvagio ha avuto a fare colla fante e colla donna e con tutti li figliuoli. E questo veduto, disse: Per certo anco me converrà contentare. Et avutolo da parte, volse sapere da lui tutto , et egli tutto gli contò , dicendo che a lui veramente fare tale fatto non volea. Namo , che doglioso era , disse: Malvagio, fa il tuo conto e briga di partirti. E datogli dinari, Malvagio, credendosi partire secretamente potere, allegro da lui prese cumulo. Namo, che secretamente a' suoi parenti [avea] comandato che il Malvagio uccidessero, essendosi nascosti in certo luogo, dove passare dovea fuori di Verona, quine l'uc- cisero, ne mai di lui alcuna cosa si senti, e dappoi jcon^bellLet^ onesti modi la donna morire fé' et i figliuoli meglio che poteo castigo7~é simile la fante. E per questo modo Namo serbò la parte a tutti. v/ Bekibk, Nocelle di G, Sercamhi. 22 338 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI );>^£u><-y ^^1 7. 96. [Triv., no 134]. DE PRAVA AMICITIA VEL SOGIETATE. Come a ciascuno è manifesto, in nella giurisdizione di Pisa ha molti gentilotti signori di castella et di omini , fra' quali funno du' gentili e di parentado assai forti, l'uno de'quali era chiamato il conte Guarnieri di monte Scudaio e l'altro il cattano di Si^e- reto, nomato Marsilio, li quali aveano per costume d'andare con compagni in ogni richiesta che in Italia si facesse di gentili omini, cosi in fatti d'arme come in altre pratiche. Erano questi du'lon- tani l'uno dall'altro da terza giornata; et avendoli preditto Mar- silio una bellissima donna, chiamata madonna Caterina de'Salim- beni da Siena, donna piuttosto cognoscitrice di visi umani che di ricami, essendo più volte il ditto conte Guarnieri venuto a desnare con Marsilio, la preditta madonna Caterina raguardando spessis- sime volte in nel viso del conte, molto tal viso lodava, dicendo alcuna volta fra se: Dio, che bel viso è quello del conte Guar- nieri ! E tanta fu la sua smemoraggine di riguardare tal faccia, che molte volte il preditto conte venuto vi fu, che il conte se ne fu accorto che la donna 1' amava , e non molto tempo passò che lui di le' ebbe suo contentamento, et ella di lui, in tanto che altro Iddio alla ditta donna non parea di vedere. Et era tanto l'amore infiammato in nella donna , che mentre che ella man- giava, dormia o stava, dicea fra sé medesima: Deh, potrebbe essere lo viso, li occhi e tutta la faccia del conte Guarnieri più bella nò soave e savorosa! Certo non ebbe tanto questo a nar- rare fra sé la donna, che spessissime volte le venia trascorso a parlare forte quello che ella in segreto cotanto avea in nella mente, in tanto che essendo alcuna volta, com'è d'usanza, in nel letto col marito, prendendo di lei piacere, ch'ella più volte men- tovava: 0 conte Guarnieri, io non mi posso della vostra faccia e persona saziare. Marsilio, ciò udendo, più volte inteso tali pa- role, prese di lei alcuno sospetto, e come savio fé' vista di non intendere. E come più tosto poteo, con bello et onesto modo in- vitò il conte Guarnieri che venisse da lui a desnare et alla sua donna disse che facesse bene apparecchiare da desnare per la venuta del conte Guarnieri. La donna, che d'altro non avea pen- DE PRAVA AMICITIA VEL SOCIETATE 339 sieri, disse : E' sarà fatto, e come mentecatta incominciò a cantare -dicendo: 0 viso belio e angelicato, conte Guarnieri, quando mi sarai dallato?, e questo andava dicendo in canto e con alquanto le gambe acconcie a ballare. Marsilio, che vede quanto la donna suaTsT allegra , considera tutto esser vero quello che a lui ne parea , e poco stante lo conte fu venuto con alquanti suoi don- zelli. Marsilio , che di niente si dimostrava , con allegra faccia l'ha ricevuto, dicendogli: Or voi siate il benvenuto. Lo conte disse: Che è di madonna Caterina? Marsilio disse: Tutta mattina v'aspettava, et ora penso sera a fare presto le vivande che man- giare abbiamo. Lo conte rispuose : Ella è troppo da bene, quando senti che voi facciate invito di forestieri, a volere stare a fare le vivande, per certo io l'ho troppo al cuore. Marsilio dice : Per certo io me ne posso contentare, che con allegra faccia vi vede. Et acciò che siate certo di questo, io vo'mandare che qua vegna, che voi ci siete e vedrete quanto ama chi io amo. E fattala chiamare dicendo ch'è il conte Guarnieri, venga a visitarlo, la donna, che ode il conte esser venuto, subito mossesi. Dinnanti dal conte venuta, disse: Bene stia quella faccia lustrante più che il sole, et a me sommo diletto. Il conte disse: E simile della vostra sto contento. E poco stante , dato l'acqua alle mani e messi a taula il conte Marsilio e la donna, e venute le vivande, la donna senza mangiare raguardava il conte , e più che il terzo delle vivande venute erano che la donna alcuna cosa mangiata avea, di che il marito disse : Donna , tu fai vergognare il conte, perchè non mangi? Ella disse: Io mi pasco tanto di rimirare la bellezza del conte, che poco di mangiare curo. E di quello ste' sazia. Lo marito, che più cognosce l'un dì che l'altro, dice: Donna, io te ne farò ben sazia. La donna, che ciò non intende, stava solo a riguardare il conte e poco mangiava. E tanto si ste' in questa maniera, che desnato ebbero, e dato l'acqua alle mani e levati da taula, dandosi piacere di ragionare, ne altro il conte con Caterina fare poteano se non di mirare l'uno l'altro , et alcuna volta accostandosi insieme, davano ordine di ritornare di notte- tempo, che piacere potesseno prendere, come già fatto aveano ; e per questo modo tutto quel giorno passò. Il conte ritornato in suoi paesi, Marsilio volendo dal pensieri uscire, diliberò la do- menica, rannate genti, invitarlo a desnare, e cosi fé', et alla donna disse come il conte venire dovea. La donna lieta steo fino al giorno, e come fu il di, Marsilio armato per tempo montò a cavallo , et incontra al conte se n' andò. Lo conte venendo con 340 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI alcuno famiglio senz'arme, dopo alquanto camino Marsilio, che '1 vide venire, senz'altro dire gli corse addosso, e con una lancia l'uccise. I famigli , dato volta arieto, non sapendo chi si fosse colui che il conte morto avea , a casa tornarono. Marsilio, che ciò ha fatto, subito disceso da cavallo, tutta la faccia e li occhi al conte tagliò, et in uno panno li misse, et a casa al cuoco li die, dicendo che una buona vivanda ne facesse. Lo cuoco, messo ogni sua speme , non sapendo che si fusse , la vivanda fece. E posti a taula, Marsilio e Caterina sua donna venendo, questa vi- vanda cominciò a mangiare. La donna disse: Deh, perchè non è venuto il conte Guarnieri ? Marsilio disse : Altra cagione 1' ha impedito; mangia, che altra volta ci verrà. E fintosi esser sto- macoso, la donna mangiando, quella vivanda parendogli buona, tutta la mangiò. Marsilio dice: Donna, la vivanda ètti piaciuta? La donna disse: Sì, quantunqua mai ne mangiai. Lo marito disse: E' ti può ben esser piaciuta cotta , poiché cruda cosi ti piacea. — Or come? disse la donna. Lo marito disse: Perchè hai mangiato, come cattiva femmina, la faccia del conte, che vivo tanto baciato avei, perocché io 1' ho ucciso. La donna disse : Poiché la faccia ^}j di colui che più amava che Dio mangiata hoe, altra vivanda non si mangerà per me. E subito preso uno coltello, per lo cuore si die, e morta cadde. Lo marito, lieto che si vede esser vendi- cato di tanto vitupero, quanto l'uno e l'altra fatto gli avea, e'^ come poco amata tristamente la fé' seppellire. DE TIRA.NNO INGRATO 341 97. [Triv., no 135]. DE TIRANNO INGRATO. In nel tempo che la città di Pisa guerreggiava colla città di Firenze, nel 1364, funno alquanti cittadini di Pisa, fra' quali fu Bindaccio di Bencredi di Paccio, che diliberonno, per salvezza del loro stato, di creare uno, il qual fusse nomato dogio e mag- giore delle città di Pisa e di Lucca. Come tale diliberazione fatta ebbeno, pensonno esser sufficiente a tale atto uno Gioanni del- l'Agnello, omo mercadante et assai del mondo pratico, pensando da lui poter avere loro contentamento, e massimamente il pre- ditto Bindaccio. E messo tra loro la cosa per fatta , il preditto Bindaccio, con consentimento delli altri, andò a Gioanni dell'A- gnello, dicendogli: Gioanni, io colli altri Raspanti di Pisa vor- remmo che tu prendessi di Pisa e di Lucca maggiorìa in forma W<5>^ /y DE SUMMA ET JUSTA VENDITTA DE INGRATO Nel tempo dello, 'mperadore Federigo Barbarossa^ fu in nella città di Parma du' sètte, l'una quella de^Rossi e l'altra li Palla- vicini, che essendo in nella città tra loro divisioni, dopo molto contrasto di parole fatte tra Rossi e Pallavicini e loro seguaci, divenne che uno messer Ulivieri Rossi, facendosi forte di brigate e de' suoi amici e parenti di fuori e dentro, in tanto che più centinaia di omini ebbe in Parma raunati per contastare a' Pal- lavicini, di che messer Ettore Pallavicini, sentendo la raunata fatta per messer Ulivieri Rossi al suo e della sua setta disfaci- mento, richiese alquanti suoi amici et aderenti, fra' quali fu uno messer Pipino da Palù, omo di gran cuore, pregandolo che alla sua difesa menasse et avesse brigate, per potersi difendere da' Rossi, per poter in Parma dimorare. Messer Pipino, cognoscendo il pericolo di messer Ettore Pallavicini, dispuose colli altri traiere alla sua difesa, e fattosi forte un giorno, essendo alle mani, il preditto messer Ettore colli amici suoi e col ditto messer Pipino rimaseno vincitori, et i Rossi di Parma funno cacciati. E fatto maggiore e capo messer Ettore di tutta la terra e contado, avendo promesso a' suoi amici molte cose, le quali, come è d'usanza de' villani, quanda,sono_iEL^su^fico nè_^n^jiè_^ né amico, e' così cominciò a divenire del ditto messer Ettore, che essendo fatto maggiore della terra, cominciò a rimettere, senza saputa di coloro che con lui erano stati alla guerra, alcuno dei suoi nimici, e così di giorno in giorno ne rimettea molti, offerendo sé e tutto ciò che fare potea a' preditti. Messer Pipino e li altri amici di messer Ettore, vedendo tornare or quello or questo, et senza che di niente fussero stati richiesti, con diliberato animo se n'andonno a messer Ettore, dicendo: Noi ci meravigliamo che i nostri e vostri nimici tornano, e di questo alcuna cosa abbiamo sentita. Messer Ettore dice : Io li ho fatti tornare per buona ca- gione, e perchè io non ve n'abbia richiesti non ve ne date me- raviglia, lassate fare a me, che tutto si farà che sarete contenti. Kenier, Novelle di 0. Sercamhi. 23 354 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI [Quelli risposero che lassavano] (1) pur che facesse bene, ma ellino non poteano credere che tali potessero mai essere suoi amici ne loro (2), nondimeno stavano per contenti. Messer Ettore, che ha cominciato a tenere li amici da poco e addormentarsi in grembo a' nimici, non passò molti giorni che [a] gran parte di quelli che ritornati erano fé' messer Ettore dare officio, li quali con grande ardire tali offici per loro accettati furono. Sentendo questo messer Pipino e li altri, ritornaro a messer Ettore dicen- dogli: Noi abbiamo sentito che i vostri e nostri nimici sono in nei tali offici messi. Or come seremo noi ministrati da' nostri nimici ? che dovere' loro bastare che li avete fatti tornare, senza aver loro dato officio. Messer Ettore dice: Deh, state contenti, che tutto si fa per lo meglio, dando parole generali. Messer Pipino disse: Per certo a noi è grave a potere sostenere che il vostro e nostro nimico ci ministri. Messer Ettore dice : Quello che piace a me non de' piacere a voi ? Rispuoseno : Sì, di quelle cose giuste fusseno, ma non di quelle che ogni buona ragione le vieta. Messer Ettore disse: A me conviene fare d'acquistare amici quanto so e posso. Disse messer Pipino : Or non avete voi provato chi v'è stato amico? E se al bisogno li avete trovati al vostro salva- mento, come pensate voi che il vostro nimico possa esser mi- gliore amico che noi, che siamo provati ? Rispuose messer Ettore : E perchè non è bene che a costoro io dimostri buon animo? Messer Pipino disse: 0 perchè a tale riconciliazione non siamo noi stati chiamati? Come! non siamo noi stati con voi a cac- ciarli et ucciderli, per la qual cosa di noi sono al sicuro più nimici che vostri? E pertanto, poiché a una guerra eravamo, dovevamo essere alla pace richiesti, e noi seremmo stati contenti di quello n'aveste disposto. Messer Ettore, che avea altro animo, disse : Io l'ho fatto solo per non scandalizzarvi, e però state con- tenti. Messer Pipino, contento meglio che puote, si partio. E non molti giorni passarono che uno de' tornati prendendo quistione con uno de' principali amici di messer Ettore, questo sentendo fé' di fatto prendere l'amico e condannato tanto quanto lo statuto tirar potea, e l'altro a preghiere d'alcuni di mezzo chiesero che ben era che non si spaurisseno quelli che ritornati sono che del fallo commesso ne gli sia fatta grazia, messer Ettor (cedendo] (1) Qui evidentemente manca un inciso nel ms. (2) Me.: nostri. DE SUMxMA ET JUSTA VENDITTA DE INGRATO 355 alle preghiere de' ditti, il preditto fu ridutto alla quarta parte di quello che lo statuto lo condannava. Et come raesser Pipino e li altri ciò sentirò, se n'andaro alquanti amici a messer Ettore dicendo: Noi sentiamo che il nostro amico è stato condannato quanto lo statuto ha potuto tirare, e l'altro ridutto al quarto, e però noi ci meravigliavamo che almeno l'uno come l'altro non fu condannato. Rispuose messer Ettore: Quello che io ho fatto si è perchè io voglio che quelli che m'hanno servito non ardi- scano fare quistione e li altri non impauriscano, et eziandio perchè ne sono pregato (1) da quelli che non sono in parti. Ri- spuose messer Pipino: Dunque li omini di mezzo faranno di voi e di noi loro volontà? Per certo troppo hanno buono tempo, e noi cattivelli stiamo a pericolo ogni dì d'esser morti come tristi. Per certo, messer Ettore, voi non ne vedete più. Disse messer Pittore: A me ne pare vedere assai e penso tutto esser fatto a buon fine. Messer Pipino disse : E noi cosi pensiamo che seguirete, e licenziati si partirono. E trovatosi il ditto messer Pipino con alquanti dell'animo suo, disse: Voi vedete modi che messer Ettore tiene, eh e di rimetter dentro tutti li nostri nimici e simile di dar loro li offici e li onori, e quando falliscono, li omini di mezzo sono loro avvocati, e noi cattivelli, che siamo al pericolo della morte e non potremo scampare, siamo da messer Ettore abbandonati, e d'ogni piccola cosa condannati e morti quanto lo statuto può tirare, e non avendo a chi ricorrere, sotto il peso ci converrà crepare. E pertanto, o noi tutti diliberiamo solo messer Ettore, o noi troviamo modo che '1 nostro per noi si goda e non li nostri nimici. E però, se volete fare a mio senno, io penso trovar modo. Udendo tutti quello che messer Pipino ha ditto, e cognoscendo esser vero, dissero che disposti sono a fare la sua volontà, purché comandi. Messer Pipino disse : Fate di stare presti coU'armi, et ogni volta che niente sentite, traete al palagio di messer Ettore, là u'io serò colle mie brigate, e de' nimici vi vendicate, e quelli che ci sono stati a chieder le grazie diamo loro a divedere che ce ne sia incresciuto. Coloro disseno tutto fare. E non molto volseno indugiare che non passò du' di che il ditto messer Pipino, con alcuno parente di messer Ettore malcontento, se n'andonno armati sotto i panni, e fatto chieder di messer Ettor che parlare gli voleano, avendo prima messe (1) Ms.: 'pagato. 356 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI loro brigate in punto, messer Ettore, fattoli venire in camera, dicendo a messer Pipino et al parente suo quello voleano, loro disseno: Poiché voi volete esser cagione delle nostre morti e delli altri nostri amici, abbiamo diliberato che tu sii il primo che morto sia. E trattogli addosso, in nella camera l'uccisero, e da poi fatto venire le brigate, tutti quelli che ritornati erano missero a taglio delle spade, e pian passo mandarono per alquanti di mezzo, dicendo loro : Il vostro consiglio ci ha messi in gravi pericoli. Et a' principali fenno tagliare la testa, dicendo che non sia nessuno che mai consigli che i nostri nimici nello stato si riraettino. E cosi da poi fu signoreggiata Parma per loro. DE BONA ET JUST A FORTUNA 357 101. [Triv., no 139]. DE BONA ET JUSTA FORTUNA. Lo re d'Inghilterra, nomato lo re Riccardo, essendo di malattia aggravato, e non avendo altro figliuolo se non uno fanciullo d'età di quattro anni, figliuolo della sua donna, figliuola del re di Un- gheria, vedendosi in caso di morte, fé" suo testamento, lassando p&rT)io moltissimo tesoro a più baroni, e ultimamente lassò il suo figliuolo, nomato Orlandino, re e posseditore di tutto reame, e perchè era piccolo , com' è ditto, lassò che fine che fusse in nell'età di diciotto anni stesse a governo del re Filippo di Francia , suo cugino, e se caso fusse che il ditto Orlandino morisse senza j figliuoli , rimanesse il ditto re Filippo re d'Inghilterra e de' suoi beni. E fatto tale testamento, il preditto Riccardo morìo, e fat- togli grande onore al corpo, fu soppellito. Sentendo lo re Filippo la morte del suo cugino, e come a lui lassava Orlandino suo fi- gliuolo, non avendo lo preditto re figliuoli né donna, mandò per lo ditto fanciullo et a Parigi lo fece venire, disponendo lo rag" gimento d'Inghilterra a suo modo. E stando il preditto re di l ^^ Francia in tal maniera, mandando Orlandino alla scuola e lui j imprendendo tanto quanto gli era insegnato, in tanto che non un anno alla scuola fu stato che avea imparato tanto che quelli : di dieci anni avanzava. La maladetta avarizia intrò iu nella mente del re Filippo , dicendo fra se : Se Orlandino morisse o veramente che da poco venisse, io signoreggerei l'uno reame e l'altro, e non so signore in nel mondo che a me si pareggiasse. E subito venutogli in odio Orlandino, domandando più volte il maestro che gl'insegna come apprendea, lo maestro dicea : Per certo io no vidi mai fanciullo avere tanto intendimento quanto costui, e dicovi che se lui starà quattro anni alla scuola, come ""' c'è stato, che sera in tutte scienze esperto. Lo re, che ha udito quello che Orlandino imparava, pensò di stare a vedere alquanto tempo, e stato circa du' anni per tal maniera, vedendo il re che Orlandino si facea tanto esperto, pensòe di volerlo della scuola rilevare, acciò che non diventasse da tanto, che '1 suo reame chiedere sapesse. E come pensò misse in effetto, che non las- sando passare che il fanciullo avesse otto anni, anzi una sera, 1/ 358 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI presenti tutti i baroni, disse e chiamò Orlandino, dicendogli : A me è stato ditto che tu niente impari, e secondo che io posso comprendere tu hai fatto come il nibbio, che il primo anno uccella molto bene e poi si cala a ogni carogna, e cosi pare abbi fatto tu, e pertanto, poiché io veggo che in fine a qui imparavi, vo' che d'ora innanti non vadi più alla scuola, ma vo' che imprendi a schermire, acciocché tu sappi una spada tenere in mano. Ma ben I vo' che come il nibbio è il più tristo uccello che sia , così mi pare che tu sii tristo diventato, et però comando a ciascuno che non ti chiami se non nibbio, e così fé' comandamento. Orlandino disse: Messere, io sono presto a ubbidire il vostro comandamento, e quello volete di me sì fate, e come vi piace che io sia chia- mato sto per contonto. Lo re chiamò il maestro schermidore, di- cendogli: Va e mena teco il Nibbio e insegnagli schermire e tenere una spada in mano, poiché non ha voluto imparare scienza. Lo maestro dice che sera fatto. Li baroni , che odono che Or- landino de' essere chiamato Nibbio, non parendo loro onesto, per )") ni- ^I(p 108. [Triv., n» 152]. Cfc- t^»^*^v'<>^'y*^ 401 DE MULIERE COSTANTE. Mansuete mie donne e voi altri , li quali disiate onestà , per quello chè~fnPpaia vedèr-e, questa giornata sera molto grande e faticosa a caminare ; e però, a cagione che io da voi troppo non mi scosti, vi racconterò di uno conte jion cosi magnifico come a conte richiede, ma più tosto un matto, posto che bene ne gli avvenisse, dal quale consigTio~ché neuno ne prenda esemplo, che tutti i più se ne troverenno ingannati. E benché la mia novella sia in similitudine d'una che messer Giovanni Boccacci ne tocca in nel suo libro capitolo cento, nondimeno questa fu altra, che rade se ne trovérèiino simili. E però dico che essendo il conte di Ghellere, o volete dire duca , nomato il conte Artù , giovano e sènza" donna e senza figliuoli et in neuna cosa il tempo"suo spendea se non in giostre et in caccie et in uccellare, né di prender mo- glie né aver figliuoli neuno pensieri avea, di che egli era da esser rigutato molto say]o se di moglie si sapea astenere, la qual cosa a' suoi sottoposti non piacendo, più volte lo pregarono che mo- glie prendesse, acciò che senza eredi non rimanesse, offerendosi di trovarla tale e di si fatto padre , che buona speranza se ne potrebbe avere. Ai quali il conte Artù rispuose: Amici miei, voi mi stringete a quello che al tutto disposto m'era di mai non fare, considerando quanto grave cosa è trovare donna che leale gli sia e che a' suoi costumi si convegna, e quante del contrario se ne trovi. Ognuno di voi pensi quanto n' é grande copia, e quanto dura vita sia quella di colui, che ha donna non bene a se conveniente, né leale, et a dire che voi mi crediate, vi dico che raguardate a' costumi di quelle che oggi sono maritate et alle loro madri; e con ciò sia cosa che io sappia assai bene le con- dizioni di queste che volete dire esser gentili e d'alto parentado, e s'è certi della loro madre, vi dico che neuna trovare ne potete che a me leale sia et a' miei costumi si confaccia; ma poiché in queste catene vi pare ligarmi, voglio esser contento, ma acciò che io non abbia a dolermi d'altri che di me, se mal mi venisse fatto , io stesso ne voglio esser trovatore , notificandovi che quella che io eleggerò voglio come donna da voi sia onorata, e Rekibr, Novelle di 6. Sercambt. 26 .f^ 402 NOVELLE DI GIOVANNI SERGAMBI se altro per voi si facesse , proverete con grande vostra pena ^ / quanto ha grado grave miseria avere tolta moglie per vostri *' I preghi. EUino contenti disseno di onorarla e tenerla per donna, purché egli moglie prendesse. Era al conte Artù gran pezzo pia- ciuto i costumi d'una povera fanciulla, della quale essendo [la madre] vedova rimasa d'uno suo marito e di lui auto una bella gio- vana non meno onesta che la madre, vicina del ditto conte, e paren- dogli bella assai, stimò con colei potesse e dovesse aver vita assai consolata, e però, senza più ricercare , costei in nell'animo suo prese di volere sposare, e fattosi la madre della giovana chia- mare , con lei si convenne di torla per moglie. E questo fatto, il conte fece tutti suoi amici della contrada e del paese raunare e disse: Amici miei, egl'è piaciuto ch'io tolta moglie, di ch'io mi sono disposto più per compiacere a voi che a me, né per voglia che io n'abbia , e .sapete quello m' avete promesso, cioè d' esser contenti a onorarla come donna, qual fusse quella che io pren- desse, e però tempo é venuto che io sono per osservare a voi la promessa, e voglio che a me voi l'osserviate, eh' i' ho trovato una giovana secondo il cuor mio, assai presso di qui , la quale intendo di torla per moglie e di menarla, tra qui a pochi dì, in casa , e però pensate che la festa delle nozze sia bella e come voi onore vilmente la possiate ricevere, acciò ch'io mi possa della vostra promessione contento chiamare , come voi della mia. Li baroni, omini tutti lieti, rispuoseno che questo piacea loro e fusse chi volesse, che per donna la voleano onorare in tutte cose. Ap- presso di questo, si missero in assetto di fare grande e lieta festa, e somiglianti fé' il conte , "che fé' apparecchiare le nozze grandi e belle et invitare molti gentili omini da lungi e d'appresso, e oltra questo fé' tagliare le più belle ricche robe a forma d'una giovana che somigliante fusse a quella che avea in pensieri di sposare et oltra questo anella^ corona et altri gioielli, e tutto ciò che a una novella sposarsi richiede. E venuto il di delle nozze, il conte in sulla mezza terza montò a cavallo, et ciascuno che a onorarlo era venuto con lui. Ogni cosa avendo ordinato, disse: Signori, tempo è d'andare per la nuova sposa; e missosi in via colla compagnia, pervennero alla villetta, dove la giovana dimo- rava , e giunti alla casa della fanciulla , e' trovala che tornava coU'acqua dalla fonte, ch'era tratta per andare con alcune gio- vane a veder venire la nuova sposa del conte , la quale , come il conte la vide, la chiamò per nome, dicendo: Gostanlina, e do- mandola dove la madre fusse , a cui ella vergognosamente ri- DE MDLIERE COSTANTE 403 spuose : Signor mio, ella è in casa che dice sue orazioni. Allora il conte dismontato comandò a ciascuno che l'aspettassero, e solo entrò in nella preditta casa , dove trovò la madre di lei , che avea nome Santina, e dissele : Io sono venuto a sposare Costan- tina, ma prima da lei voglio sapere alcuna cosa in tua presenza. Et domandandola se tallendola per moglie ella s' ingegnerebbe di compiacergli e di neuna cosa che facesse e dicesse non tur- barsi mai, e se ella sarebbe obbediente e simili altre cose le disse, alle quali rispuose di sìe. Allora il conte, presala per mano, la menò fuori et in presenza di tutta la compagnia la fece spo- gliare nuda, e fattosi venire i panni che fatto le avea fare, pre- stamente la fece vestire, e sopra li suoi capelli mal pettinati gli fece mettere una corona, et appresso disse: Signori, questa è colei ch'io voglio che sia mia moglie, dov'ella me voglia per marito. E poi, a lei rivolto, che vergognosa stava, le disse: Vuo' mi tu per marito? A cui ella rispuose: Signore mio, sìe. Allora pre- stamente il conte in presenza di tutti la sposò, e fattala mettere in su uno palafreno, a casa ne la menò, dove furono le nozze belle e grandi, come se presa avesse la figliuola del re di Francia. La sposa giovana parve che co' panni insieme la mente et i co- stumi mutasse, e così come era bella era tanto piacevole e co- stumata, che non figliuola di guardatori di buoi parca, ma d'al- cuno nobile signore, che facea meravigliare ogni persona che prima cognosciuta l'avesse, et oltra questo tanto obbidiente al marito, che contento e pagato se ne tenea, e simigliantemente verso li sudditi del marito era tanto graziosa , che nullo v' era che più che sé non l'amasse, che dove solcano dire che '1 conte avea fatto come poco savio d' averla presa per moglie , di poi disseno che lui era lo più savio omo del mondo, perchè neun altro ave' mai saputo conoscere l'alta virtù di costei nascosa sotto i poveri panni. In brieve, non solamente per tutto il suo ducato, ma per tutto l'altro paese seppe sì fare , che si ragionava del suo valore. Ella non fu guari stata col conte, che la ingravidò e parturì una fanciulla, di che il conte ne fece gran festa; ma poco appresso fu il conte mutato in un nuovo pensieri, cioè di vo- lere con lunghezza di sperienza provare la pazienza di lei. Pri- mieramente la punse con parole , mostrandosi turbato , dicendo che i suoi omini non si contentavano di lei per la sua bassa condizione e della figliuola nata si doleano; le quali parole udendo la donna, senza mutare viso, disse : Signore mio, fate di me quello che voi credete che piace a loro , che io serò contenta d' ogni 404 NOVELLE DI GIOVANNI SERGAMBI cosa, perch'io non era degna di tanto onore, al quale voi per vostra cortesia m'arrecaste. E questa risposta fu al conte molto cara, cognoscendo costei non essere in superbia levata per onore che ricevuto avesse. Poco tempo appresso, avendo con parole ge- nerali ditto alla moglie che i sudditi non poteano quella fanciulla di lei nata patire, informò uno suo famigliare, e mandollo (1) a lei, il quale con assai dolente viso disse : Madonna, io non voglio morire ; a me conviene fare ciò che '1 mio signore comanda. Egli m'ha comandato che io pigli questa vostra figliuola e che io e non disse più. La donna, udendo il parlare e vedendo il viso del famigliare , comprese che a costui fusse stato imposto che l'uccidesse, perchè prestamente presala della culla, abbracciatala e benedettala , come che gran noia in nel core sentisse , senza mutare viso, in braccio la puose al famigliare, e dissegli : Fa compiutamente quello che '1 tuo e mio Signore t'ha imposto, ma non la lassare per modo che le bestie la divorino , salvo s' egli tei comandasse. Il famigliare prese la fanciulla, e fatto al conte sentire tutto ciò che la donna ditto avea, meravigliandosi della sua costanza, lui con essa ne mandò a Parigi a una sua parente, pregandola che, senza mai dire chi ella si fusse, gliela allevasse. Sopravvenne appresso che la donna da capo ingravidò et al tempo fece uno figliuolo maschio , il che carissimo fu al conte ; e vo- / lendo più turbare la donna, con simile corruccio disse : Donna, poiché tu questo fanciullo facesti, co' miei omini per neuna guisa posso vivere, si duramente si lamentano che uno nipote di guar- datore di vacche debbia loro signore rimanere, di che io dubito, se io non voglio esser cacciato, che non mi convegna fare quello che altra volta feci, et alla fine prender un'altra moglie. La donna con paziente animo l'ascoltò e con alto senno rispuose: Signore mio, pensate di contentare voi e di me non abbiate alcuno pen- sieri, perocché neuna cosa m'è cara, se non quanto a voi sta in piacere. E non dopo molti giorni quello mandò che mandato avea per la fanciulla, mandò per lo figliuolo, e dimostrato d'averlo fatto uccidere, a Parigi lo mandò, di che la donna altro viso né altre parole fece che della fanciulla fatti avesse, di che il conte si meravigliava forte e seco affermava neuna altra femmina questo poter fare, e se non che egli conoscea che molto la donna avea amati li figliuoli mentre avuti li avea, are' creduto il conte (1) Ms.: mandato. DE MULIERE COSTANTE 405 ella non se ne fusse curata d'averne. Et i sudditi suoi, credendo che il conte avesse fatto uccidere li figliuoli, lo biasimonno, et alla donna aveano grandissima compassione. Ella colle donne che con lei si dolevano non disse mai altro se non che, quello piacea a lei che a colui che ingenerati li avea , et essendo più anni passati dalla natività del figliuolo, parendo tempo al conte di fare l'ultima prova di costei, con molti de' suoi disse che per neuna cosa piùe potea soffrire d' aver per moglie Costantina, perchè cognoscea che mal avea fatto ad averla presa, perchè a suo potere volea col papa procacciare che dispensasse che un'altra donna prendere potesse, di che dai suoi buoni omini fu molto ripreso, e lui ad altro non rispuose se non che convenia che cosìe fusse. La donna , sentendo queste cose , e parendole di dover sperare tornare a casa a guardare le vacche e vedere a un'altra tener colui a cui ella volea tutto il suo bene, forte si dolse, ma pure, come l'altre ingiurie dalla fortuna avea sostenute, cosi con fermo viso si dispuose a questa sostenere. E non molto tempo passò che il conte fé' venire lettere contraffatte da Roma e fece vedere a' suoi sudditi che '1 papa avea dispensato che potesse prendere altra moglie e lassare Gonstantina, e fattasela davanti venire, le disse: Donna, per concessione fatta dal papa, posso tórre un'altra donna e lassare te, imperocché i miei passati sono stati gentilo- raini e signori di queste contrade , e' tuoi sono lavoratori , non intendo che tu più mia moglie sia, ma che alla tua madre te ne torni con quella dota che tu recasti, et io ne torrò un'altra, che a me, siccome gentile, si converrà. La donna, udendo queste parole, non senza grandissima fatica oltra alla natura delle fem- mine ritenne le lagrime , e rispuose : Signor mio , io cognovi sempre la mia bassa condizione alla vostra nobiltà non conve- nirsi. Quello che io sono stata con voi da Dio e da voi lo cogno- sceva, né mai come mio lo tenni, ma come cosa prestata a me. Ora vi piace di rivolerla e comandatemi , che quella dota che arrecai io men porti , alla quale né a voi pagatore né a me la borsa bisognerà né somieri, perché non m'é uscito di mente che nuda m'aveste, e se voi giudicate che onesto sia che quello corpo, ^ — -r col quale io di voi ho du' figliuoli portati e gu vernati, sia lodato/v-^^w*^ {sic), io me ne andrò nuda , ma in premio della mia verginità ch'io vi recai , che non ne la porto , che almeno una camicia sopra la mia dota vi piaccia che io portare ne possa. Il conte, che maggior voglia avea di piangere che d'altro, stando pure col viso alto, disse ; E tu una camicia ne porta ; ma quanti dintorno \ 406 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI » X/J^ erano lo pregavano che una roba le donasse, acciò che non fusse \ _X?^^ta colei, che dieciotto anni con lui sua moglie era stata, ^ cosi in camicia poveramente uscirne; ma invano pregarono, di i*.7 /jte^ che la donna in camicia e scalza e senza nulla in capo alla ^ madre piangendo tornò. La madre , che non avea mai potuto credere che '1 conte l'abbandonasse, vedendola nuda, li panni che serbati le avea gli mise, et a piccioli servizi della materna casa si diede, con forte animo sostenendo il forte assalto fattole dalla • nimica fortuna. Come il conte ebbe questo fatto, così fece credere a' suoi che avea presa per moglie una figliuola del duca di Bor- gogna, e facendo apparecchiare le nozze, mandò per Gostantina che a lui venisse, la quale venuta, disse: Io meno questa donna che io ho tolta et intendo in questa sua venuta onorarla, e perchè tu sai che io non ho in casa donne che mi sappiano acconciare le camere, e però tu meglio che altra sai queste cose di casa, metti in ordine quello che bisogna, e fa invitare quelle donne che ti pare, e ricevile come se donna fussi della casa , e poi ti potrai tornare a casa tua, quando siano fatte le nozze. Come che queste V parole fusseno coltella al cuore di Costantina , come colei che ^ non avea dimenticato Tamor che gli volea, rispuose : Signor mio, io sono presta. Et entrata co' suoi grossi pannicelli in quella casa, della quale poco dinnanti n'era uscita in camicia, cominciò a spaz- ^ zare la camera et a ponere i capoletti per le sale, et a fare ap- prestare la cucina, et ogni altra cosa, come se piccioletta fante stata fusse, né mai ristette che ogni cosa ella acconciò quanto si convenia, et appresso questo, fatto invitare le donne della con- V trada, aspettava lajesta. E venuto il giorno delle nozze, come che i pannFavesse poveri , con amichevole donnesco modo ri- colse tutte le donne. Il conte, che diligentemente avea fatti al- levare li figliuoli a Parigi in casa della sua parente, essendo già la fanciulla di dodici anni e la più bella cosa del mondo, il fan- ciullo avea otto anni, il conte mandò a Parigi alla parente sua che le piacesse di venire a sollazzo con questa sua figliuola e figliuolo, e che menasse bella et onorevile^ compagnia et a tutti dicesse che costei per sua moglie gli menasse et altramente non dicesse chi ella fusse. La gentildonna, fatto secondo che il conte gli scrisse, entrata in camino, dopo alquanti dì colla giovana e V col fanciullo, con onorevile compagnia, in sull'ora del desnare, V giunse in nella terra del conte, dove tutti i paesani trovò che at- tendeano questa novella sposa, la quale dalle~^ónnéricevuta, nella sua sala venula, Costantina, così come l'era, se gli fece incontra DE MULIERE COSTANTE 407 dicendo: Ben vegna la mia donna. Le donne, che molto aveano pregato il conte invano che facesse stare Gostantina in una ca- mera, 0 che una delle sue robe gli prestasse, acciò che cosi non andasse innanti a' suo' forestieri, le taule messe e cominciato a servire, la fanciulla era guardata da ciascuno, e diceano che il conte avea fatto buono cambio, ma tra l'altre lodavano Gostan- tina. Il conte , a cui chiaro parea aver veduto quello che desi- derava della pazienza della sua donna, e veggendo che di niente [per] la novità delle cose si cambiava , essendo certo per mén- tecaggine non avvenia, perchè savia molto la cognoscea, gli parve tempo di doverla trarre di quella amaritudine, la quale stimava che sotto il forte viso nascosa tenesse. Perchè fattosela chiamare, in presenzia d'ognuno, sorridendo disse: Gostantina, che ti pare della mia sposa? — Signor mio, diss'ella, a me ne pare molto bene, che se così è savia come essa è bella, che lo credo, non dubito che voi abbiate a vivere lo più consolato signore del mondo; ma quanto posso vi prego che le punture, che all'altra vostra moglie che fu deste, non date a costei, perchè non le potrebbe sostenere, si perch'è più giovana, e si perchè è a dilicatezza al- levata, dove l'altra colle continue fatiche fine da piccolina cre- sciuta era. Il conte, veggendo che fermamente credea costei dover essere sua moglie, né però in alcuna cosa meno che ben parlava, la fece al lato suo sedere, e disse: 0 Gostantina, tempo è omai che tu senta frutto della tua lunga pazienza, e che coloro che me hanno riputato crudele e bestiale, cognoscano che ciò eh' i' ho fatto facea a buon fine , a prova volendo a te insegnare di esser moglie, et a loro di saperla tórre e tenere, et a me partu- rire proprio contentamento leco. Il che, quando venni a prender moglie, gran paura ebbi che non m'intervenisse, et imperò, per prova pigliare, in quanti modi tu sai ti trafissi, e perch' io non mi sono mai accorto che [in] neuno modo dal mio piacere par- tita ti sii, parendo a me di te quella consolazione ch'io deside- rava avere, intendo di rendere a te in una volta ciò ch'io in molte ti tolsi, e con somma dolcezza ristorare le punture che io ti diedi ; et in però prendi con lieto animo questa che tu mia sposa credi che sia, e '1 suo fratello, che sono i nostri du' figliuoli, i quali tu, con molti altri, lungo tempo avete creduto che io avesse fatti uccidere. Et io sono il tuo marito, che sopr'ogni altra cosa t'amo, credendomi poter dar vanto che neuno altro di sua donna quant'io si possa contentare. E cosi ditto, l'abbracciò e basciò, et con lei insieme, che d'allegrezza piangea, n'andarono dove la fi- 408 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI gliuola sedea, et abbraciatala teneramente, et altresì il fratello, lui e molti che quine erano sgannarono. Le donne lietissime, levate da taula , con Gonstantina n' andarono, e con migliore augurio trattigli i suoi panni, d'una nobile roba delle sue la vestirono, e come donna, la quale in nelli stracci parea, la rimenarono no- bilmente vestita, e quine fattosi co' figliuoli meravigliosa festa in sollazzi. E molti giudicarono il conte savissimo, e sopra tutti ten- nero Gostantina savissima. Lo conte, levata la madre di Gostan- tina da' lavori, come gran contessa la fé' notricare, e con gran- dissima consolazione il conte maritò la figliola, e con Gostantina si die buon tempo e finirò i lor di in vecchiezza. I I APPENDICE I I APPENDICE Sunti di novelle frammentarie o sconcissime. [Triv., n" 7]. DE TRANSFORMATIONE NATURAE. Viveva in Firenze Rinaldo Buondelmonti, gran vagheggiatore di donne. I suoi parenti, infastiditi da' molti richiami che loro ve- nivan fatti pel modo di condursi di Rinaldo , lo persuasero a prender moglie. Dubitando peraltro egli che altri a lui mettesse le corna, come egli a tanti le avea messe, volle trovarsi da sé medesimo la donna e scelse una povera, ma bennata e onesta fanciulla, Ginevra di messer Lanfranco Rucellai. A Lanfranco non parve vero di maritare così ammodo la figliuola e subito il contratto fu stretto. Per assicurarsi della sposa, Rinaldo pensò nuovo ingegno, e avuta la misura de' suoi panni, ordinò uno giub- bettino e una camicia corta e una armatura, che perfettamente si attagliassero a lei. E venuto il dì delle nozze, e dopo cena ritiratisi gli sposi, Rinaldo comandò a Ginevra che si spogliasse e quindi la rivestì con quella armatura e le impose che con uno doppioncello acceso in mano stesse, così armata, in capo alla scala, in sull'uscio della camera nuziale. Quindi egli scese la scala, e risalito, prese la donna tra le braccia ed usò con lei. Questo modo ripetè tre volte e la donna n'ebbe molto piacere. Poscia, stanco, la fece spogliare e si coricò con lei senza altri- menti accostarsele. Fatto giorno, Rinaldo uscì, e la madre di Gi- nevra venne a lei per chiederle come avesse passato la notte. Ginevra le espresse il piacere grande che avea avuto e la gioia 412 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI di essere maritata. La notte seguente Rinaldo ripetè lo esercizio quattro volte, sempre facendo armare la donna, e questo modo tenne per molte altre notti. Dipoi Rinaldo, vedendola pronta la notte, pensò farla pronta anche di giorno, e fatte chiudere le fi- nestre, nel medesimo modo con lei s'accoppiò. Così stando, av- venne che a Rinaldo fu offerta la podesteria di Perugia per sei mesi con buono salario. I parenti insisterono perchè accettasse, e Rinaldo, preso commiato dalla moglie e promessale una bella palandra al ritorno, si parti. Da Perugia egli spesso le mandava lettere e gioielli. Un giorno, stando la donna alla finestra, fu adocchiata da un giovane di bassa condizione chiamato Ghimento, il quale, vedendola così bella, si innamorò di lei per tal modo che dovette mettersi a letto malato. Confidatosi con la madre, questa si recò a santa Reparata, dove alcuna volta avea veduto Ginevra, e in fatti Ginevra vi venne con la zia del marito. La vecchia, entrata con loro in ragionamento, aspettò che Ginevra si fosse appartata, e quando sola la vide ad uno altare, ove dicea sue orazioni, le fu presso e disseto che l'anima sua an- drebbe nello inferno per uno che faceva morire. Spaventata Gi- nevra, chiese di che si trattasse, e dopo alquanti discorsi, la vecchia le disse come il figliuolo la amasse e chiedesse di ve- nire a dormire secolei. Titubò dapprima Ginevra, ma poi, per paura dell'inferno, sollicitata dalla madre di Chimento, disse che era contenta e che la sera venisse. E infatti la sera Gi- nevra, che pel lungo digiuno avea desiderio dell'uomo, si armò e in capo alla scala, col doppioncello in mano, stette ad at- tendere l'amante. Chimento venne, ma veduto quell'armato in capo alla scala, impaurito se ne fuggì. La donna, visto Ghi- mento fuggire, si disarmò ed andò a letto. La madre di Ghi- mento, saputo da lui come era andata la cosa, gli promise che il giorno dopo si sarebbe sincerata dell'accaduto. Ed in- fatti la mattina trovò Ginevra a santa Reparata e le disse di nuovo che l'anima sua andrebbe all'inferno. Ginevra rispose che ella avea aspettato il giovane, ma che egli non volle venire; se volea replicare la prova, venisse la sera. Ghimento v'andò, ma anche questa volta, visto quello armato, tanto s'impaurì, che ruzzolò per le scale e poco mancò non si fiaccasse il collo. Gi- nevra, credendo egli si facesse beffe di lei, se n'andò malcontenta a letto. La vecchia, credendo che ella avesse un altro ganzo, andò a casa di lei la mattina dopo per vituperarla. Ginevra si lagnò che il giovane la beffasse, e però la madre volle saperne di più APPENDICE 413 e seppe dalla giovane come fosse suo costume di aspettare così armata il marito. Allora intese la madre di Chimento e disse a Ginevra che attendesse il figliuolo, non già armata, ma in giubba di seta. Contato il fatto a Chimento, questi lieto si recò la sera da Ginevra e la trovò in giubba col doppioncello. Egli tosto la abbracciò e baciò, di che la giovane, che non aveva mai assag- giato la dolcezza del bacio, ebbe grande diletto. Ma questo fu di gran lunga maggiore quando poi fecero più volte la danza amo- rosa, senza impacci di armatura e di vesti. Ginevra ne provò tanto piacere, che più volte volle poi trovarsi con Chimento, finché Rinaldo tornò a Firenze. Rinaldo, tornato, volle che Gi- nevra s'armasse, ma ella gli rispose che si armasse lui. Di che Rinaldo meravigliato, le chiese che volea dire, e Ginevra gli confidò come un giovane le avesse insegnato quanto meglio quel- l'atto compievasi senz'armi. Rinaldo conobbe che la purità di Gi- nevra era stata ingannata, e d'allora in poi non usò più di quello artificio. 2. '" [Triv., n" 10]. DE VITIO LUSSURIE IN PRELATI. Nel campo di S. Niccolò a Pisa era uno pellaio e cartaio, che aveva una sua donna bella e onesta di nome madonna Nece, la quale andava ogni dì a San Niccolò, per udirvi la parola di Dio. Frate Zelone da Pistoia, frate Anastagio da Firenze e un gio- vane frate pisano chiamato Riccardo, vedendo questa donna ve- nire alla chiesa, ebbero fra loro ragionamento di lei, e vedutala entrare in sua casa là presso alla chiesa, cominciarono a pensare in che modo la potessero godere. E ognuno di loro divisò in cuor suo d'averla prima del compagno. Infatti, venuta Nece alla chiesa, tutti e tre le fecero le loro dichiarazioni nella maniera più oscena, fra' Riccardo sulla porta, fra' Nastagio all'acqua benedetta, frate (1) La prima parte di questa novella è molto simile a ciò che si narra, molto più graziosamente, nella nov. seguente, Triv. n" 11. Cfr. in questa ediz. pp. 43-45. 414 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI Zelone vicino all'altare, ov'erasi posta a dire sue orazioni. Tali oscene dichiarazioni si ripeterono il giorno seguente, sicché la donna turbata decise di starsene in casa. Il marito le chiese perchè non uscisse, ed essa allegò non so quale faccenda. Fra' Riccardo e frate Anastagio, non vedendola venire in chiesa, fin- gendo di andare a diporto, s'appressarono alla bottega del pel- licciaio, ove madonna Nece era. Nece disse a ciascun di loro un motto, allusivo alle proposizioni fattele, onde i due frati ritennero che essa volesse compiacerli. Ma di questa dimestichezza de' frati entrò in sospetto il marito, il quale ne chiese ragione alla donna. Questa, per non farlo geloso, gli narrò tuttociò che i frati le aveano detto. Allora il marito le disse che la mattina vegnente si recasse alla chiesa e a ciascuno di que' frati promettesse cena e albergo per la domenica sera, e dicesse che il marito sarebbe fuori, perchè dovea recarsi a Genova per comperare delle pelli, ed altre cose le disse che si vedranno in appresso. Madonna Nece tutto esegui a puntino, e recatasi alla chiesa, invitò separata- mente a casa i tre frati per la sera di domenica. Poi, tornata a casa, tutto contò al marito, il quale fé' correr la voce ch'egli andava a Genova. Giunta la sera sospirata, i tre frati si recarono a casa del pellicciaio, non sapendo l'uno dell'altro, né si mostra- rono malcontenti quando si trovarono insieme. Fu ben presto ap- prestata la cena, e dopo la cena volle Nece che tutti tre en- trassero in un bagno, sicché, spogliati nudi, in uno tinello li mise. Secondo il convenuto, non appena i frati furono nel tinello, venne il pellaio, gridando di fuori alla moglie che gli aprisse. Allora madonna Nece, fingendo sorpresa e disgusto, fece entrare i frati, così nudi com'erano, in un vicino rinchiuso, ove soleansi riporre le pelli. Il pellaio, andato in cucina, prese un caldarone pieno di calcina e d'acqua bollente e sopra alla pellaria, ove erano i frati, lo gittò, sicché i tre frati ne ebbero a morire. Poi, volendo sbarazzarsi di quei cadaveri, il pellaio andò a trovare un por- tatore forestiero, al quale disse che gli era morto un frate in casa e che volea lo gittasse nell'Arno ; darebbegli una cappa, se ciò facesse. Il portatore acconsenti e messo uno de' frati in un sacco, lo portò in sul ponte nuovo e di quivi lo gittò in Arno. Ma tornato alla pellaria per avere la mercede promessa, il pellaio gli mostrò l'altro frate, parimenti insaccato, e dissegli che era quel primo frate tornato. Il portatore lo prese e lo gittò in Arno, e similmente fece del terzo. Tornando il portatore per la quarta volta, trovò sul ponte nuovo un prete Andrea, rettore della chiesa APPENDICE 415 di San Donato, che andava per dir mattino. Il portatore, cre- dendo fosse il frate che tornasse, col bastone gli die in sulla testa e l'accoppò. 3. [Triv., no 17]. DE PERIGULO IN AMORE. Frammentaria (1). Nella contrada di Santo Spirito in Firenze abitava una bella giovane chiamata Checca degli Asini. La casa ov'ella stava avea quattro solai e in ciascuno stavano donne, facendo vita per sé. Nel primo stava madonna Lionara de' Pulci, nel secondo ma- donna Pas2uiiLa-..de3Iedici, nel terzo Checca sopradetta, nel quarto madonna Onesta de' ^ruzzi. Or avvenne che di Checca si innamorò perdutamente^ un giovane chiamato Matteo Rucellai, figliuolo di messer Niccolò. E tanto egli fece, che Checca accon- senti a lui, e più volte si trovarono insieme in un orto, ove Checca si recava a diporto con alcune sue compagne. Ma parendo a Checca troppo indugiare e dover sempre attendere fino che all'orto andassero, perchè alcuna volta pioveva, pregò Matteo che trovasse altro luogo ove sollazzarsi con lei. Matteo pensò ad una sua sorella, che avea monaca in uno monastero di santa Chiara, e recatosi a lei, le svelò la sua tresca con Checca e la pregò che, quando piovesse, lasciasse entrare Checca con la sua brigata nel monastero, ed egli si nasconderebbe nel fenile, ove potrebbe a suo agio darsi sollazzo con la donna amata. La so- rella acconsentì a fargli questo piacere. E ben presto venne una domenica piovosa, nella quale, dopo desinare. Checca e la bri- gata si recarono al monastero. La badessa fece entrare la donna e la condusse per ogni dove; infrattanto la sorella di Matteo in- troduceva il fratello nel fenile. Mentre cuocevano i maccheroni, che la badessa aveva ordinati, la monaca sorella di Matteo trasse Checca da parte ed al fenile la condusse, sotto pretesto di mo- (1) Vi sono solo due lacune, che non danneggiano, quantunque siano estese, il senso della novella. 416 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI strarle cosa gradita. Gran piacere ebbe Checca quando vi trovò l'amante, e là, alla presenza della monaca, i due si trastullarono assai. Quando Checca uscia dal fenile, avea la veste di dietro tutta malconcia e qualche filo di paglia attaccato, e però la ba- dessa e le compagne, con cui mangiò i maccheroni in santa ca- rità, sospettarono di quello doveva essere successo e con motti a doppio senso la punsero. Vedendo Checca il pericolo di tornare al monastero, ed avendo gran voglia dell'uomo, pensò invitare Matteo a casa sua. Il giovane vi andò, ma per quanto usasse cautele, le donne degli altri solai lo videro e lo sentirono, e n'andarono dalla Checca per vituperarla. Allora Matteo, per celarsi, si sporse fuori dalla finestra, tenendosi con le mani al davanzale ed appog- giando il piede ad una cornice di ferro sottostante. In questa posi- zione disagiata egli dovette starsene a lungo, sicché Checca credeva ch'egli fosse caduto. E partite le donne, ella si fece alla finestra e potè con una benda tirar dentro l'amante, assai malandato. Di questa prova Matteo n'ebbe abbastanza, e partitosi, non volle più saperne di un giuoco che riusciva tanto pericoloso. Checca sver- gognata, non ebbe più la compagnia delle donne. 4. [Triv., no 19]. Frammentaria. Di questa novella manca nel codice il titolo ed il principio, cioè due terzi di facciata, che sono lasciati in bianco. Non riesce quindi agevole il desumere da quel che resta il preciso conte- nuto del racconto. Evidente peraltro apparisce che esso appar- tiene a quel gruppo che tratta di ladri famosi. Il ladro, di cui qui si discorre, è un tale Staldo, il quale praticava suoi furti di notte con delle candele, non si capisce precisamente in qual modo. Quel che è rimasto della novella ce lo mostra sorpreso, collato e da ultimo impiccato in su un paio di forche alte. APPENDICE 417 5. [Triv., no 30]. DE LIBIDINE. Una badessa del monastero dell'Olmo d'Arezzo, assai giovane e calda, per non avere ad usare con uomo, pensò costruire un pene artificiale, col quale si trastullava, e tale esempio era imi- tato dalle altre monache. Un bel giovane di nome Angelo Bo- stoli, invaghito di una monaca, chiese ad una vecchia del mo- nastero come le monache giovani si comportavano nei diletti carnali. La vecchia monaca gli confidò come le sue compagne soddisfacessero ai loro desideri e come ogni monaca nuova che entrava era chiamata a soddisfare le altre col membro artifi- ciale. Angelo, ciò saputo, si vestì da donna e si presentò al mo- nastero in qualità di una che volesse monacarsi. La badessa, vedendo si bella monaca, subito volle che entrasse nel convento, e poi la invitò a soddisfarla col pene artificiale. Ma Angelo ne aveva uno naturale, con cui diede ben altro piacere alla badessa ed alle altre monache, le quali d'allora in poi sempre s'attennero a quel membro di carne, lasciando l'altro. — La novella osce- nissima, anzi la più oscena di tutto il novelliere, mal può essere compendiata nei particolari. [Triv., no 69]. DE VIDUA LIBIDINOSA. Orsarella degli Strozzi, fiorentina, rimasta vedova giovanissima, tornò a casa col fratello Matteozzo, il quale avea una giovane moglie assai piacevole chiamata Anna. Questi tre formavano una famiglia, solo che Orsarella dormiva in una camera sola. Ora av- venne che Matteozzo, cui molto piacevano le salsicce, se ne fé' fare alquanto da un beccaio, e le mandò a casa. Vedendo Orsa- rella quelle salsicce, che erano appiccate in una parte della casa, trovò certa somiglianza fra quelle e l'arnese con cui il de- Bbkibr, Xovelle di 0. S»rcamli. 27 4i8 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBl funto marito la contentava, sicché più pungente senti il desiderio di quella tal cosa. E di pensiero in pensiero, giunse a profittare di quelle salsicce per l'uso medesimo cui avea servito l'arnese, e ogni giorno a diius'occhi se ne serviva, sicché ogni giorno qualche pezzo ne logorava. A Matteozzo ben presto parve che le salsicce da lui comperate troppo presto si consumassero e so- spettò che la fante le mangiasse o le regalasse, per la qual cosa decise di numerarle. E fattolo, s'ebbe ad accorgere che troppe più erano le salsicce che andavano consumate di quelle che com- parivano in tavola. Come savio, nulla dicendo, si mise ad osser- vare la fante, la moglie e Orsarella. Ben presto si convinse che né la fante né la donna sua ne profittavano; ma Orsarella vide che ogni tanto ne prendeva due pezzi e recavasi nella sua ca- mera. Ivi non essendo fuoco, stava Matteozzo curioso di sapere come Orsarella le mangiasse, e nascostosi un giorno nella stanza si sincerò del modo come le consumava. Trovatasi la sera stessa a tavola e comparendo le salsicce, Matteozzo vergognò con un motto la sorella, e questa gli rispose che stesse contento di quel modo di sbramarsi da lei trovato, giacché altrimenti ella avrebbe fatto onta alla sua casa, tant'era il bisogno che ella aveva del- l'uomo. Le desse, quindi, nuovo marito, o le permettesse almeno l'uso delle salsicce. Matteozzo, per non aver maggior danno o vergogna, la sorella maritò, ed ella senza salsicce contentò l'ap- petito. Matteozzo peraltro non volle più comperare salsicce, perchè gli erano venute a sdegno. 7. [Triv., n" 78]. DE MULIERE ADULTERA ET TRISTITIA VIRL A Samminiato, al tempo di messer Giovanni dall'Agnello, fu una donna di ventisei anni nomata madonna Dolciata, moglie di uno artefice chiamato il Vespa, del quale aveva un fanciullo piccolo al petto. Vedendo questa donna un giovane di nome^az- ^utorq, pensando che al nome rispondessero i fatti , le venne voglia che di lei prendesse piacere. E invitatolo e combinatisi, furono più volte insieme e mescolarono loro cose con tanto di- APPENDICE 419 letto, che stabilirono, ogni volta il Vespa fosse alla guardia, che l'amante venisse in casa per una finestra di dietro. Le cose du- ravano in questo modo più tempo quando accadde che il Vespa, chiamato alla guardia, avendo il giorno seguente da fare certi lavori di terra, si fece esimere, mentre la donna, non sapendo in tempo la cosa, credendo rimaner libera, avea fatto a Gazzu- toro l'usato segnale. Gazzutoro, non sapendo che Vespa fosse in casa, entrò per la finestra si fece sentire nell'usato modo alla donna. La quale, avendo gran volontà di lui, deliberò trovare un pretesto per allontanarsi dal marito, e subito, tirato il naso al fanciullo, lo fé' piangere. Il Vespa le suggerì che gli desse da poppare ; ma Dolciata rispose che non serviva e che ella voleva andargli a cuocere un uovo. Lasciato il bambolo in braccio al marito, ella infatti usci di stanza e si diede piacere con Gaz- zutoro. Tornata senza lume al letto dov'era il marito e scaval- candolo per recarsi al suo posto, il Vespa s'ebbe sul volto parte dell'umidità proveniente dall'atto compiuto con Gazzutoro. Il Vespa credette fosse l'uovo che gocciolasse ; ma i particolari della laidissima scena non è il caso di riferirli. 8. [Triv., n" 116]. DE PESSIMA MALITIA IN PRELATO. Questa novella non è altro che una ripetizione, con poche va- rianti, della 79^ [Triv., n» 110], De prelato adultero. Il marito dato alla devozione non è più Ganoro, ma Papino ; il monaco giovane e astuto resta di nome Mugino. Per poter fare sua volontà con Gleopatrassa, moglie di Papino, la quale era poco contenta delle astinenze che facevate patire il marito, Mugino fa credere a costui che sia ottimo mezzo per acquistarsi la gloria del paradiso lo stare in digiuno per giorni quaranta, passando le notti su un ta- volaccio, steso in forma di crocifisso, guardando il cielo e dicendo dugento paternostri e altrettante avemarie. Anche qui, mentre Papino fa questa penitenza, il monaco si sollazza con la donna; anche qui Papino prende sospetto da certo movimento del solaio, prodotto dal dibattersi dei due trescanti, e anche qui la donna Bekier, Xocelle di G. Set-camhi. 27* 420 NOVELLE DI GIOVANNI SERGAMBI gli risponde che quel dimenarsi proviene dall'essere andata a letto senza cena e in seguito prende cura di fare il letto in altra parte. La differenza sta solo in ciò, che mentre nell'altra novella Paulo, fratello della donna, avvedutosi dello inganno, punisce de- , bitamente il monaco e la sorella, in questa di punizione non v'è Jjraccia, ed è solo detto che, quando la penitenza di Papìno fu terminata, trovarono modo i due cattivelli di prendere insieme piacere altrove. s u>^ 9. [Triv.. n» 140]. ^^^..^°- DE ROMITO ADULTERO ET INGANNO. \ In Betlemme fu un uomo ricchissimo nomato Esaia, il quale avea una figliuola assai bella, di nome Elisabetta. Questa, essendo giudea e avendo più volte sentito parlare della fede di Cristo, chiese un giorno a un cristiano come si potesse servir Dio, e il cristiano le rispose che il miglior modo è quello di fuggire le cose del mondo, sicché coloro che vivono romiti hanno maggior perfezione e sanno meglio insegnare altrui l'andare in paradiso. La fanciulla, che era semplicissima, d'età appena di anni quin- dici, tratta da un cotal fanciullesco appetito, si parti secretàmente di casa e se ne andò verso la valle Imbron, dove trovò un ro- mito, che stava sull'uscio della sua cella. Chiestole il romito che volesse, rispose Elisabetta che ispirata da Dio andava ricercando d'essere al suo servizio. Il romito, vedendola così bella e temendo la tentazione, diedele alquanto ristoro di radici e pomi selvatici, e quindi la indirizzò ad un sant'uomo, non molto di là lontano, che miglior maestro poteva esserle di lui. Camminato alquanto la fanciulla, trovò quest'altro romito, che era giovane e si chia- mava Urbano, il quale la ricettò nella sua cella e le fece un letticciuolo di foglie, ove potesse posare la notte. Stando con lei, le tentazioni si impadronirono talmente del romito, che vinsero la battaglia, ed egli non pensò altro che al modo di poter usare con la leggiadra fanciulla. A questo scopo egli le fece intendere quanto fosse a grado di Dio il mettere il diavolo nello inferno, al quale dannato era. Chiesto la fanciulla come si facesse, il ro- mito le mostrò il diavolo, ch'egli aveva e che gli dava molta APPENDICE 421 molestia, dicendole che essa aveva l'inferno, ove quel diavolo si potea debitamente riporre. Lasciando che egli mettesse il diavolo nello inferno, darebbe grande ristoro a lui ed a Dio farebbe pia- tjere e servigio. La giovane in buona fede lo pregò di farlo, ed Urbano con la miglior voglia del mondo si mise all'opera, e posto che la prima volta tornasse di noia e dolore alla fanciulla, in seguito ella vi si adattò volentieri e fini col trovarvi molto diletto, che quel modo di servire a Dio le riusciva dolcissimo. Ed altre cose diceva che qui non è il caso di riferire. Elisabetta tanto fece che il diavolo del romito perdette tutta la sua super- bia, mentre l'inferno avea sempre più bisogno di ricettarlo, sicché, per consiglio del romito, ella tornò a casa, e maritatasi, potè a sua voglia mettere uno o più diavoli nel suo inferno. 10. [Triv., no li9]. DE NOVO LUDO. In una villa del contado di Firenze fu una donna nomata Ancroia, moglie di un Tomeo molto devoto di San Martino, il quale, per devozione a quel santo, molti poveri soleva ospitare. La donna, essendo molto calda, non si accontentava del marito, ma con altri pure usava, di che Tomeo accortosi, spesse volte ebbe a muoverle rimprovero. Ancroia un giorno finse d'essere pentita de' suoi portamenti, e gli promise di condursi meglio in seguito ; ma frattanto in cuor suo divisava nuova malizia. Ella aveva adocchiato il prete del paese nomato Frastaglia, e addo- mesticatasi secolui, con esso frequenti volte si trovava, e insieme mangiavano e si davano piacere, mentre Tomeo, per devozione a San Martino, ospitava i poveri e consumava per loro parte del -suo. Essendosi egli recato un giorno a lavorare certa sua vigna, gli venne innanzi uno in forma di lavoratore, chiedendogli se lo volea tenere a lavorare. Tomeo gli domandò quanto volesse di mercede. L'altro rispose che nulla volea, tranne le spese; ma nei giorni di mal tempo non volea lavorare. Tomeo fu contento, e a casa lo menò. La donna fu del nuovo ospite poco soddisfatta, pensando di non poter il prete menar in casa a sua voglia, e proverbiò il marito in mala maniera, dicendogli che, fintanto quel lavoratore tenesse, ella al lavoro non sarebbe andata. In seguito 422 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI Tomeo, andando al lavoro col nuovo bracciante, ebbe ad accor- gersi che avea fatto assai buon mercato, perchè quel villano la- vorava per quattro. E venuto un giorno di pioggia, Tomeo gli disse che, secondo il convenuto, rimanesse a casa ; ma il lavo- ratore gli rispose che per lui quel dì non era mal tempo, e come al solito andò al lavoro, e più del solito lavorò. Un altro giorno, tirando vento, il villano volle starsene a casa, di che Tomeo si accontentò. In quel giorno appunto Ancroia aveva ordinato che prete Frastaglia venisse in casa, e non sapendo che il lavoratore non era uscito, messa al fuoco una gallina e un pezzo di sal- siccia, se n'uscì per andare a chiamare il prete. Ma il prete era appunto in via per venire a lei, e mentre ella era fuori giunse alla casa, dentro la quale era chiuso il lavoratore. Avendo il prete picchiato e chiamato Ancroia, il lavoratore simulò la voce di questa e disse al sere che, essendo il famiglio in casa, doveano fornire la loro bisogna secretamente. E come il prete ebbe tratto l'arnese, il giovane con un coltello tutto glielo tagliò. Il prete dolente e sanguinoso n'andò alla sua canonica e nel letto si gittò, credendo che quel malo servigio gli avesse fatto la donna. Questa frattanto, non avendo trovato Frastaglia, se ne tornò, e non tro- vandolo neppure a casa sua, prese dalla pentola la gallina e la salsiccia; ma quest'ultima non era più la salsiccia di prima, giacché il lavoratore, trattala, le avea sostituita la salsiccia ta- gliata al prete. Con quella vittuaglia si recò Ancroia alla ca- nonica, ed essendole detto che il prete era a letto malato, andò a lui mostrandogli quello che seco recato avea per far festa. Il .sere bentosto riconobbe la salsiccia, e tanto più si confermò nel- l'idea che la donna gli avesse fatto quella brutta burla. Dissimu- lando peraltro e fingendosi in fine di vita, egli disse alla donna che prima che morisse gli desse la consolazione di mettergli al- quanto in bocca la lingua. La donna lo accontentò e quanto più potè la lingua gli profondò nella bocca. Allora il prete, tenendola stretta, co' denti quanto più potè della lingua le recise, e poi gliela sputò in faccia, dicendole villania. La donna, che conobbe allora quel che era la salsiccia, si volle scusare; ma per avere la lingua tagliala, non lo potè. Con pena ritornò Ancroia a casa, ove il giovane lavoratore prese licenza da Tomeo, svelandogli ciò che fatto avea e dicendogli il vero esser suo, che era cioè San Martino che in questo modo avea compensato i suoi servigi. Il prete pochi giorni dopo mori ; Ancroia visse trista ; Tomeo ringraziò San Martino del buon servigio a lui fatto. APPENDICE 423 11. [Triv,, no 151]. DE MULIERE VOLUNTEROSA IN LIBIDINE. Vieri de' Medici viveva in un suo palagio in Empoli con la sua 'donna di nome Vezzosa. Egli era ricco ed avea molti possessi, tra i quali un mulino tenuto da un mulinaro nomato Popone. Essendo un giorno fuori messer Vieri, la moglie sua andò al- quanto a sollazzo nei dintorni di Empoli con altre donne. Esse si trattennero a una taverna di vino, nella quale erano alquante meretrici, che ragionando tra loro lodavano assai Popone muli- naro, siccome quello che meglio d'ogni altro uomo della contrada <3ra fornito di membro virile. Vezzosa, ciò udito, sentì subito grande desiderio di provarlo e divisò il modo di venirne allo ef- fetto. Ella disse a Vieri che voleva recarsi al mulino per vedere se la farina, che il mugnaio macinava per gli altri, fosse così trista come quella che dava a loro. Vieri, quantunque non gli sem- brasse cattiva la farina che avea, le diede licenza. Il mattino dopo, Vezzosa, presa seco una sua fante che soleva prestarle si- mili servigi, con uno asciugatoio si recò al mulino, ove trovò Popone e lo indusse a fare il voler suo con modi che qui non si dicono. Mentre si sollazzavano, e la fante era fuori a fare la guardia, Vieri sopraggiunse a cavallo. La donna finse di stare nell'acqua a bagnarsi i piedi; il mugnaio frattanto attendeva dentro alla macina. Lo stato del mugnaio, che avea messo il membro nella farina per non farlo scorgere, e il subito compa- rire della donna fuori, diedero a Vieri sentore dell'accaduto. Ma, come savio, non ne disse motto, ed aperto l'uscio parlò alla donna sua, che si bagnava i piedi. La quale gli disse che il molto caldo la avea indotta a quel bagno e che aveva riconosciuto non essere diversa la farina che il mugnaio dava ad altri da quella che macinava per loro, ma sì s'era accorta che egli molta ne disper- dea, onde volea lo si avvertisse di essere più guardingo e ser- bare la buona farina per loro. Questo discorso a doppio senso la donna ripetè al mugnaio in presenza del marito, senza cne questi mostrasse d'intenderlo. Il mugnaio accorto rispose che ben fa- rebbe quanto madonna e il signore desideravano, ma che gli fa- cessero dire un'ora prima quando intendeano recarsi al mulino, perchè la farina buona potesse a loro serbare. Dopo ciò la donna 424 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI tornò ad Empoli col marito e con la fante. Qualche giorno dipof si recò di nuovo con la fante al mulino e prese suo contenta- mento ; anzi questa volta, per più averne piacere, volle col mu- gnaio adagiarsi sul letto. Mentre fornivano la loro bisogna, so- praggiunse Vieri. Avvisati dalla fante, madonna Vezzosa andò alla macina e disse al mugnaio che entrasse nell'acqua. Vieri intanto, veggendo la donna e non il mugnaio, chiese che ne fosse di lui, cui Vezzosa rispose che, sapendo come il suo signore do- vesse venire, egli era andato all'acqua con sue reti per prendere qualche pesce ed ella frattanto attendeva alla macina. Vieri per- altro, drizzato l'occhio al letto, vide abbastanza per essere certo di quanto sospettava, e chiamato il mugnaio, questi venne tutto grondante con alcuni pesci che aveva tolti da un suo vivaio, appena intese la scusa accortamente addotta da madonna. Con quei pesci tornarono a Empoli e lietamente desinarono. E mentre desinavano, sopravvenne una lettera a messer Vieri che subito fosse a Firenze per alcuno fatto secreto, onde messer Vieri su- bito montò a cavallo e si parti. Mentre Vieri era a Firenze, la moglie si godeva il mugnaio, ed era ormai tanto l'ardire che preso avea, che trascurava ogni cautela. Tornato improvviso a Empoli, Vieri non trovò a casa la moglie e tosto drizzossi al mulino, ve- stito da pellegrino, con in mano un bordone. Non essendosi la fante avveduta di lui, egli trovò il mugnaio e la donna che si da- vano piacere, e tanto erano infervorati in quel loro godimento, che non si accorsero neppure del pellegrino, che entrato era. Vieri indignato percosse il mugnaio e la donna con tanta forza, che gli infilzò, e senza appalesarsi gli lasciò così infilzati e ad Empoli se ne tornò. Messo qualche grido, i due morirono. So- pravvenuta la fante, si mise anch'essa a gridare, sinché i vicini giunsero da ogni lato e videro il tristo spettacolo. Messer Vieri fece seppellire la donna, ne mai si seppe che egli l'avesse morta. I i 12. [Triv., n« 153]. DE PAUCA SAPIENTIA VIRI CONTRA MULIERE. Nella contrada del ponte alla Carraia in Firenze dimorava uno messere Niccolò Bisdomini con la sua donna, nomata Piacevole APPENDICE 425 di quelli da Rabatta. Avvenne che una sera, trovandosi il detto Niccolò alla stufa con un barbiere suo vicino chiamato Nanni e i due bagnandosi insieme, osservò Niccolò come il barbiere fosse in straordinario modo fornito di sotto, e tornato a casa, ripen- sando a quanto aveva veduto, non potè trattenere le risa. Ri- chiesto da Piacevole perchè ridesse, le confidò, dopo qualche esi- tazione, che rideva per quella gran cosa che avea veduta dei barbiere. La donna, ciò sentendo, finse disgusto, ma nel segreto del cuor suo gliene venne voglia. Infatti non molti di passarono che fasciatasi la testa, dimostrando di essere malata di denti, andò incontro al marito lamentandosi e lo richiese che le man- dasse un barbiere co' ferri per cavarle quell'ospite molesto di bocca. L'incauto Niccolò andò subito per Nanni. Quando egli fu venuto, la donna, per liberarsi del marito, lo mandò a prendere dell'aceto, sicché sola col barbiere rimase e un figliuolo piccolo di quattro anni, di cui poca cura prendea. Che cosa facesse la donna col barbiere non è d'uopo dire ; ben lo dice l'autore con molti particolari, e aggiunge che per essere meglio liberi, allor- ché il marito fu di ritorno coll'aceto, Nanni lo mandò dallo spe- ziale a farsi dare certo latte da denti. Essendo lo speziale lontano, Niccolò stette alquanto a tornare. Quando tornato fu, il fanciullo, che spettatore era stato della operazione del barbiere, gli si fé' in- contro dicendogli che madonna era guarita, poiché Nanni le avea tratti dal sedere du' denti grandi ben un braccio. Niccolò chiese alla donna che gli spiegasse quanto il fanciullo avea detto; ma Piacevole gli diede del grullo per lo capo, quasi e' non sapesse che il sedere non aveva denti. Il male di denti cessò, ma non- ostante questo, non passarono molti giorni che Niccolò, essendo fuori, vide entrare in casa il barbiere ed uscirne parecchio tempo dopo. Allora Niccolò rientrò in casa, e trovato il fanciullo in sala e la donna in camera, chiese al primo se avea veduto cavare altro dente dal sedere di madonna. Il fanciullo rispose non averlo potuto vedere, perché il barbiere e la donna s'erano chiusi in camera e lui di fuori aveano lasciato. La donna motteggiò il marito per quel suo credere che il sedere avesse denti ; ma Nic- colò, che ormai aveva grave sospetto di quanto era, decise ven- dicarsi. Spiato il barbiere e veduto un giorno che in bottega non era, montò la scala di casa e lo trovò sulla moglie, che si dava piacere. Niccolò, fattosi sentire, se n'andò senz'altro nel chiasso Malacucina e di là trasse una meretrice, che condusse in contado a un suo giardino, dove la tenne. E a quanti gli chiedevano per- 426 NOVELLE DI GIOVANNI SERGA.MBI che vivesse così, egli narrava il vituperio della moglie e suo, tanto che era noto per tutta Firenze, e nessuna donna più con madonna Piacevole si accompagnava. Piacevole continuò la tresca con Nanni, sin tanto che, osando recarsi con lui presso i propri parenti, questi lo bastonarono in modo, che perde il ruzzo di trastullarsi con le donne altrui. E Piacevole, abbandonata dal marito e dal ganzo, vituperosamente visse e tristamente morì. 13. [Triv., no 154]. DE FALSITATE JUVINI. Frammentaria. Di questa novella v'è solamente il titolo e una riga, d'onde s'apprende che dovea avervi parte un giovane di Firenze chia- mato Ardigo Ricci. Poi manca una carta, e dove il codice ri- prende v'è soltanto la chiusa dello intermezzo tra questa e la seguente novella. 14. [Triv., no 155]. DE PAUCO SENTIMENTO DOMINI. Frammentaria. È un frammento di due carte, con cui il ms. si chiude. — Giunta la brigata a Luni, l'autore si propone narrare come quella città decadesse dal suo primitivo splendore e fosse disfatta. Astechi re, con la sua donna nomata Tamiris, si mossero dalle loro terre ed entrarono in mare, e dopo molte giornate pervennero al porto di Luni, ove si fermarono alquanto per la bellezza del sito. Essi presero alloggio con la loro corte nello albergo di uno Martino, che era soprannominato Benaete. Per quanto Tamiris regina fosse strania e poco intendesse l'italiano, le entrò tuttavia il sospetto che l'oste avesse quel nome perchè molto bene fosse fornito di sotto. E decisa di trarsi tale curiosità, fece chiamare a sé l'oste e gli chiese perchè avesse quel soprannome. L'oste le disse, perchè APPENDICE 427 avea tal masserizia, che altra simile in quella contrada non si troverebbe. La regina volle vederla e l'oste la compiacque, di che Tamiris prese tanto diletto, che non se ne potea saziare, ed una cosiffatta voglia glien'era rimasta, che viveva in grande ma- linconia, né il re suo marito, per quanto facesse, riusciva a ras- serenarla. Astechi finalmente, credendo che alla moglie facesse male l'aria di Luni, la invitò a partire; ma Tamiris dichiarò di non volere, giacché, se fosse morta per mare, i pesci s'avrebbero le sue delicate carni, mentre morendo colà avrebbe potuto essere messa in un bel monumento e onorata. Astechi, quantunque non credesse che ella fosse a tal punto, rimase e promisele che, se fosse morta, l'avrebbe posta in un monumento suntuoso. Cosi stando le cose, Tamiris fece venire a sé Martino e gli disse che non potendo avere di lui il suo comodo era decisa di fingersi morta, e però lo pregò di procurarle un beverone che la facesse apparire morta e farle costrurre un monumento in cui rinchiusa potesse fiatare, e partitosi il marito, lei dal monumento secreta- mente traesse. L'oste promise a Tamiris che tutto farebbe e ri- porrebbela nel monumento suo, nel quale persona ancora non s'era messa, e quando ne fosse cavata, egli la condurrebbe per moglie. Il frammento si chiude col beveraggio che viene portato alla regina, cui quello indugio parea troppo lungo (1). (i) Questa novella, malauguratamente non terminata, è assai importante, perchè ci riferisce una leggenda intorno alla rovina di Luni, che Leandro Alberti riassume nella sua Descrittione di tutta Italia , Venezia, 1588, e. 27 r. Tale leggenda riveste la forma della notissima tradizione medievale intorno alla donna che si finge morta per fuggire col suo amante, tradizione che da una branca della leggenda salomonica, in cui ha carattere turpe, si spinge fino alla pietosa e gentile tragedia di Giulietta. Carlo Braggio, che studiò la leggenda di Luni nel suo lavoro su Antonio Ivani, umanista del secolo XV, Genova, 1885, p. 100-106, menzionò gli scrittori più antichi che ne accennarono, Giovanni Villani [Cron., L. I, cap. 50), il Petrarca {Itine- rarium Syriacum), Fazio degli Uberti (Dittamondo, L. Ili, cap. 6). Ma tutti questi accenni sono assai indeterminati, né parlano punto della morte finta. Il frammento della novella Sercambiana ci attesta come già nel trecento la leggenda fosse conosciuta in quella forma in cui poscia la compendiava l'Alberti. TAVOLA NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI CON INDICAZIONE DEI LUOGHI OVE SONO PUBBLICATE C) Proemio 3 De sapientia 9 De simplicitate 1 17 De malvagitate et malitia i 19 De magna prudentia 22 De sumnia justitia '. . 32 84 411 36 39 De justitia et crudeltà . . . . De transformatione naturae . . De simplici juvano De altro et simplici mercadante ffert I (•) L'ordine seguito è» quello che le novelle hanno nel cod. Trivulziano. Le abbreriazioni si- gnificano : D'A. =: D'Ancona G := Gamba Qh = Ghiron LD = Volumetto della Libreria Dante del 188G M = Jlinutoli MB = Muratori, R. 1. S., XVIH N = Neri P = Pierantoni PC = Papanti, Catalogo PD = Papanti, Dante secondo la tradiziotte Se = Scelta di curiosità letterarie, disp. 119. Per la bibliografia delle stampe rimando alla Prefazione. Si noti che con D'A. indico unica- mente le novelle edite dal D'Ancona per la prima volta, cioè le 11 del volumetto della Librerìa Dante ; le novelle che il D'Ancona ripubblicò sono notate sotto Se. ed LD. Quando uso il nu- mero romano, intendo indicare il numero d'ordine delle novelle nelle rispettive pnbblicazioni ; il numero arabo invece si riferisce alla pagina. 11 numero arabo solo, non preceduto da alcuna sigla, rimanda alla paginazione del presente volume. Rispetto ad MK il numero arabo significa la co- lonna. Le due ultime novelle indicate non si trovano nel Triv., ma solo nella Cronaca. 430 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI / K 1-7- n il 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25. 26. 27. 28. 29. 30. ìA 31. XX' 32. 33. r-_ 34. f^^^'^I^l. .35. 2136. 37. Z l 38. 2^39. -2.^40. 41. 2,6 42. t? 43. 2 V 44. 45. 2^7 46. Jo 47. y\ 48. )1 49. 3 ; 50. >4 51. 52. 53. fr54. De vitio lussurie in prelati . . . De vituperio pietatis De muliere volubili De muliere adultera De bono fatto De ventura in matto De tristitia et viltate De periculo in amore De novo modo furandi [Senza titolo] De furto extra natura De falsario De inganno e falsitate De summa avaritia De simplicitate et stultitia . . . De placibili sententia De sententia vera De pulcra responsione De astuzia in juvano De inganno De libidine De avaritia e lussuria De prudentia et castitate . . . . De vana lussuria De novo inganno De malitia et prudentia . . . , De turpi tradimento De malitia in juvano De superbia et pauco bene . . , De vera amicitia et charitate . . De fide bona ". . . De puritade De castitade De re publica De re publica , De lealtate De falso pergiurio De amore et crudeltate . . . . De recto amore et giusta vendetta De prudentia in consiliis . . . , De falsitate mulicris De ipocriti et fraudatores . . . . De pigritia , De placibili loquela De falsitate et tradimento ... P»li 413 43 '' G. XVI; Se. 138. 46 50 G. XX; Se. 172. D'A. I 415 58 416 60 " G. XVIII; Se. 155. 62 65 D'A. II. 69 D'A. III. D'A. IV. 71 I n/ f VII. 417 81 85 D'A. V.^j----"' ^. D'A.VI;PGiLD. 59.->f>'' 89 ' ' 92 G. XVII; Se. 144. 95 98 105 D'A. 109 IH 112 Gh. 1; LD. 52 113 115 116 118 122 128 G. XIX; Se D'A. Vili. 132; MR.838; M. IV; Se. 205. c a^.^l i{v'^'^\y} P.; Se. 265. C^^.2.$? 169. TAVOLA 431 55. ìó 56. 57. 58. >7 59. ^9 60. 3f 61. 4*/ 62. ^/ 63. 4^Z64. Ì..765. ^66. ^S67. 68. 69. 70. 71. - 73. ^74. - ^/ 76. 77. 78. y'* 79. r' 80. T^Sl. ■:-. 82. 3^83. j^84. .. 85. S"7 87. 5-^88. Tf 89. io 90. éi 91. 92. ^-93. ^3 94. /i95. De sapientia et vero judicio .... De natura femminili De pulcra et magna sapientia . . . De bona responsione De disonesto adulterio et bone Consilio De superbia contro rem sacrata . . De competenti Consilio de adultera De justa sententia De meretricis et justo juditio . . De disonestitate viri De nova malitia in tiranno . . . De ebrietate et golositate in prelato De smemoragine prelati .... De doctrina data a puero .... De vidua libidinosa De bonis moribus . . De justa responsione . De presuntione stulti De amicitia provata . De competenti misura De vituperio mulieris De vituperio fatto per stipendiari De simplicitate viri et uxoris De muliere adultera et tristitia viri .... De bona providentia centra l'omicida . . . De disonesta juvana et equali corretione . . De devotione in santo Juliano De crudeltà massima De bona previdenza De bona fortuna in aversitate De magnanimitate mulieris et bona ventura juvani De periculo in itinere De rasonabili dominio et bona justitia . . . De latrones et bona justitia De malitia hospitatoris De falsa tores et bona justitia De massimo furto De restauro fatto per fortuna De malvagitate ypocriti De malitia in inganno De cieco amore ' Gh. II; LD. 54.M ^ i i 136 ^ -^ I G. XII; Se. 83. I D'A. IX. 138 145; MR. 871; M. X; Se. 235. t ^0 ./("b 150 153 156 158 162 164 165 G. V; Se. 38; Tor- RACA , Manuale^ I, 368. 417 -^ff. ^> G.IX; Se. 62; PD. 65. G. X; Se. 67; PD. 67. 167 G. VI; MR.809; M. I; Se. 44, 189. Cf^.lS 169 - ~ 172 176 G. Ili; Se. 16. 418 *yft' «^/Z 178 181 186 190 192 195 197 G. XI; Se. 75. 203 206 208 211 214 G. XIV; Se. 119. 218 222 225 432 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI fc:> 96. (.(> 97. bl 98. (fi 99. 6^100. 7C 101. 7/ 102. 71103. 7i 104. 7^105. 7AO6. 75107. 77108. 7? 109. 7?110. 111. 80 112. 113. "g / 114. ^X115. 116. «5 117. ^118. §!rii9. 120. ^él21. 122. $7 123. t?125. 127. ^ / 128. 1129. 5 130. <^131. ? 1^132. — 133. 9^134. 47135. De cattivitate stipendiar! . . De viltate De falsitate mulieris . . . De malitia hominis .... De subita malitia in muliere De mala corretione . . . . De avaritìa magna . . . . De inganno in amore . . . De invidia De lungo inganno .... De malitia mulieris adultera De presuntuosi De somma golositate . . . De magna golositate . . . De prelato adultero .... De justo juditio De avaro De pompa bestiale .... De mala custodia . . . . De pigritia De pessima malitia in prelato . . . De nemico inconciliato ne confidetur De ingenio mulieris adultera . . . De disonesto famulo De pulcra responsione De apetito canino et non temperato . De inganno placibili De disperato dominio ...... De mala fiducia d'inimici De tradimento fatto per monacum .... De malitia mulieris adultera et simile malitia viri [Senza titolo] De pauco sentimento in juvano De magna gelosia De juvano futtili in amore De prava amicitia De malvagio famulo De perfetta societate De piava amicitia vel societate De tiranno ingrato 228 232 235 239 243 246 249 253 256 2.59 264 269 272 274 277 G. IV; Se. 23. 281 G. II; Se. il. 284 286; MR. 84245: M. V, VI, VII; Se. 213, 216, 220. Ck.6> b^^7^,7l 419 e»/-; ' vjj; 292; MR. 852; N. Il; LD. 49..\lii} Cjlc. QiT 294 300 D'A. X. 303 G. I; Se. 1. 307 ;MR. 854; M. VIII; Se. 224. ChÙ,^^ 310 312 316 D'A. XI. 319 323 326 329 335 G. XV; MR. 811; M. II; Se. 127 e 194. Cf-O-'^-* 338 341; M. XI; Se. 247 LH^llJ TAVOLA 433 C^l 136. De summa ingratitudine ^9 137. De malitia mulieris adultera /OC^138. De summa et justa venditta de ingrato . . fui 139. De bona et justa fortuna 140. De romito adultero et inganno f 02.141. De bona ventura 142. De geloso et muliere raalitiosa 143. De placibili furto unius mulieris /^J144. De massima ingratitudine 145. De mocto placibili /càii6. De falsatore /^^41. De justo matrimonio ;^I^148. De subito amore acceso in muliere .... 149. De »ovo ludo /Cj 150. De inganno in amore 151. De muliere volunterosa in libidine . . . . IC8 152. De muliere costante 153. De pauca sapientia viri contra mulierem . . 154. De falsitate juvini 155. De pauco sentimento domini 156(1). Come il traditore non gode lungamente il frutto del tradimento 157. Come li beneficii non si deon ricambiare con le ingiurie 346; MR. 817; N. I; LD. 47.[X//j Cf^O.TZ 349 353; MR. 821; M. Ili; Se. 200. C Q.O. 3^ 357 420 *f .'./5< 374 G. Vili; Se. 55. G. XUI; Se. 97. 383 G. VII; Se. 51. '^ 387 389 393 421 -^.X 397 ' 423 Jf/' ^ • 401 C^o.lli 424 >ff^tX'l 426 4d,^/f/ 426-5'= 50 12. De novo modo furandi » 58 13. De furto extra natura » 60 14. De inganno e falsitate » 62 15. De summa avaritia » 65 16. De placibili sententia » 69 17. De astuzia in juvano » 71 18. De inganno » 78 19. De avaritia e lussuria » 81 20. De prudentia et castitate- » 85 21. De malitia et prudentia » 89 22. De turpi tradimento » 92 23. De superbia et pauco bene » 95 24. De vera amicitia et charitate » 98 25. De fide bona » 105 26. De CHstitade » 109 27. De re publica » 111 28. De re publica » 112 29. De falso pergiurio » 113 30. De amore et crudeltate » 115 31. De recto amore et giusta vendetta » 116 32. De prudentia in consiliis » 118 33. De falsitate mulieris ......... 122 34. De ipocriti et fraudatores » 128 35. De falsitate et tradimento » 132 36. De natura femminili » 136 INDICE 435 37. De disonesto adulterio et bono Consilio 38. De superbia contro rem sacrata 39. De competenti Consilio de adultera 40. De justa sententia 41. De meretricis et justo juditio 42. De disonestitate viri .... 43. De nova malitia in tiranno . 44. De ebrietate et golositate in prelato 45. De smemoragine prelati .... 46. De presuntione stulti .... 47. De competenti misura .... 48. De vituperio mulieris .... 49. De vituperio fatto per stipendiari . 50. De bona providentia contra l'omicida . 51. De disonesta juvana et equali corretione 52. De devotione in santo Juliano 53. De crudeltà massima .... 54. De bona providenza .... 55. De bona fortuna in aversitate 56. De magnanimitate mulieris et bona ventura 57. De rasonabili dominio et bona justitia . 58. De latrones et bona justitia . 59. De malitia hospitatoris .... 60. De falsatores et bona justitia 61. De massimo furto 62. De malvagitate ypocriti .... 63. De malitia in inganno .... 64. De cieco amore 65. De cattivitate stipendiari 66. De viltate 67. De falsitate mulieris .... 68. De malitia hominis 69. De subita malitia in muliere . 70. De mala corretione 71. De avaritia magna 72. De inganno in amore .... 73. De invidia 74. De lungo inganno 75. De malitia mulieris adultera . 76. De presuntuosi 77. De somma golositate .... 78. De magna golositate .... 79. De prelato adultero .... 80. De avaro 81. De mala custodia 82. De pigritia 83. De nemico inconciliato ne confidetur . juvani ^ag . 138 » 145 3> 150 » 153 » 156 » 158 » 162 » 164 > 165 » 167 » 169 » 172 » 176 » 178 » 181 » 186 » 190 » 192 » 195 » 197 » 203 » 206 » 208 » 211 » 214 » 218 » 222 » 225 » 228 » 232 » 235 » 239 » 243 » 246 f> 249 » 2.53 » 256 » 259 » 264 » 269 » 272 » 274 » 277 1> 281 » 284 » 286 » 292 436 NOVELLE DI GIOVANNI SERCAMBI 84. De ingenio mulieris adultera Pag. 294 85. De disonesto famulo » 300 86. De apetito canino et non temperato » 303 87. De disperato dominio » 307 88. De mala fiducia d'inimici . . . . . . . » 310 89. De tradimento fatto per monacum » 312 90. De malitia mulieris adultera et simile malitia viri . . » 316 91. De pauco sentimento in juvano » 319 92. De magna gelosia » 323 93. De juvano futtili in amore » 326 94. De prava amicitia » 329 95. De malvagio famulo » 335 96. De prava amicitia vel societate » 338 97. De tiranno ingrato » 341 93. De summa ingratitudine » 346 99. De malitia mulieris adultera » 349 100. De summa et justa venditta de ingrato .... » 353 101. De bona et justa fortuna » 357 102. De bona ventura » 374 103. De massima ingratitudine » 383 104. De falsatore » 387 105. De justo matrimonio » 389 106. De subito amore acceso in muliere . . . . . » 393 107. De inganno in amore » 397 108. De muliere costante » 401 Appendice 1. De transformatione naturae » 411 2. De vitio lussurie in prelati » 413 3. De periculo in amore » 415 4. [Senza titolo] . . " » 416 5. De libidine » 417 6. De vidua libidinosa >-> ivi 7. De muliere adultera et tristitia viri » 418 8. De pessima malitia in prelato » 419 9. De romito adultero et inganno » 420 10. De novo ludo » 421 11. De muliere volunterosa in libidine » 423 12. De pauca sapientia viri centra muliere .... » 424 13. De falsitate juvini >> 426 14. De pauco sentimento domini » ivi Tavola delle novelle di Giovanni Sercambi con indica- zione DEI LUOGHI OVE SONO PUBBLICATE ...» 429 University ofToronl Library DONOT REMOVE THE CARD FROM THIS POCKET Acme Library Card Pocket LOWE-MARTIN CO* UMITEj